Capitolo 28, Eroi
“Hai trovato
Frank Howard?” salto per aria sconvolta.
Ryan
annuisce e risponde immediatamente. “Lui
e sua figlia, come avevi commissionato.”
Mi
avvicino per sentire meglio e vedo che il
mio atteggiamento deve averlo preoccupato, quindi provo a calmarmi e a
tornare
a sedermi sul letto, mantenendo tre metri di distanza da lui.
“Dimmi tutto
quello che puoi, ti prego.”
Ryan
alza le sopracciglia, un po’ stranito
dalla mia reazione, prima di cominciare a raccontare.
“Battezzato Francisco
Howard, noto da sempre come Frank, nato nel novembre del 1940 ad
Austin, Texas,
da madre messicana e padre americano. Cresciuto in Kansas, nella
cittadina di
Thayer, dove il padre ha ereditato la casa di famiglia e dove
è vissuto finché
non è stato arruolato nell’esercito a 22 anni e
poi nell’Americal Division,
23esimo plotone di fanteria, anche nota come Compagnia Charlie. Al
momento
della morte era uno dei più anziani del suo gruppo,
nonostante avesse solo 28
anni.”
Noto uno
scatto provenire da Lukas, che sembra
aver cambiato posizione di una gamba, ma lo ignoro e Ryan fa lo stesso,
continuando a raccontare. “Venne inviato in Vietnam nel 1966
e fece un unico
congedo prima di essere richiesto nuovamente per le sue
abilità spiccate nella
mimetizzazione e l’uso delle armi da fuoco, divenne
fuciliere. Morì durante il
Massacro di My Lai il 16 marzo del 1968*… Immagino non ci
sia molto da dire
sulla questione.”
“Cos’è
il massacro di My Lai?” chiede Lukas
freddamente.
Ryan
sembra infastidito. Io, però, ho letto
qualcosa in proposito nel corso delle mie ricerche. “Fu un
crimine di guerra
che gli Stati Uniti commisero ai danni del Vietnam. Uccisero centinaia
di
vietnamiti innocenti, donne, bambini e contadini e furono interrotti
solo verso
la fine, da un elicottero di passaggio.”
“All’incirca.”
prosegue Ryan. “La Compagnia
Charlie attaccò il villaggio, credendo che fosse un covo di
Viet Cong. La
giovane età gli ha un po’ dato alla
testa…”
“A
chi non capita di dare di matto e ammazzare
qualche centinaia di donne e bambini?” chiede sarcasticamente
Lukas,
irrigidito.
“Non
tutti erano assassini senza
discernimento.” Si accalda Ryan, tendendosi a sua volta.
“Qualcuno si oppose disorganizzatamente
allo sterminio, e Howard era tra di loro. Un elicottero in ricognizione
con tre
soldati americani sorvolò la zona, vide il massacro e
puntò le armi contro i
soldati impazziti. Ricevettero la Medaglia dei Soldati e premiati per
atto di
valore. Purtroppo, Howard era già morto.”
Faccio
un cenno con il mento a Lukas, in una
muta supplica di non fare altri interventi a danno
dell’esercito americano,
perché non voglio che questa conversazione sfoci
nell’ennesimo dibattito su
quanto disapproviamo il governo statunitense di Nixon, in vigore nel
’68.
“La
sua salma tornò in patria, dove venne
seppellito tra gli eroi americani, nel cimitero di Arlington, in
Virginia.
Ricevette encomi e medaglia al valore postuma. La sua famiglia ottenne
un
risarcimento in denaro e sua figlia poté pagarcisi il
college. La casa di
famiglia rimase alla sorella, Patience, mentre la figlia, adesso
Meredith
Crisby, lavora come antropologa forense per il Dipartimento di
Giustizia ad
Austin, Texas.”
Per
tutto l’ultimo minuto ho fissato Ryan
completamente immobile, mentre il mio cuore batteva veloce nella mia
scatola
toracica al punto che non credevo fosse possibile udirlo
così nitidamente.
“La
figlia…” provo a mettere insieme una frase
ma articolare in una lingua che non è la mia, adesso, mi
sembra un compito
estremamente arduo. “La figlia… è a
conoscenza del fatto che fosse un eroe?”
“Sì,
certo.” Annuisce Ryan, leggermente a
disagio.
Cerco di
ricompormi dopo essermi resa conto
che sono curva e protesa in avanti più di quanto voglia.
“Lei… la hai incontrata?
Serba dei rancori per suo padre, che tu sappia?”
Ryan mi
guarda confuso. “Non l’ho vista di
persona, ma non vedo perché avercela con un padre che si
è sacrificato per la
giustizia. Ho i suoi dati di contatto presso l’ufficio per
cui lavora. Essendo
una dipendente dello Stato, non ho ritenuto opportuno spingermi oltre a
questo.”
“Puoi
darmi questi contatti? Dovrei parlare
con lei.” Dico senza più energie, avvertendo di
colpo tutta la stanchezza che
mi porto dietro da ieri.
“Ti
darò tutto il materiale in mio possesso,
prima di questo però vorrei parlare del mio compenso, e
avere la vostra parola
che nessuno darà più fastidio a me e alla mia
famiglia.” Dice con durezza
l’investigatore.
Annuisco
e Lukas conferma con aria svogliata
prima che Ryan ci esponga le sue condizioni. “Voglio che mi
siano rimborsate
tutte le spese sostenute finora per trovare queste informazioni e un
extra per
ciò che ci è successo.”
“Quanto
vuoi?” chiede acidamente Lukas.
“20
mila. In contanti.” Bercia Ryan, gonfiando
il petto mentre sul volto di Lukas si forma una smorfia di disprezzo.
“D’accordo.
Non li ho adesso. Posso dartene 10
mila circa più tardi, dal bancomat. All’estero ho
un limite di prelevamento
mensile. Il resto posso mandartelo con un bonifico. Prendere o
lasciare.” Esalo
senza voglia di discutere oltre, mentre Lukas mi fulmina.
“Andata.”
“Faremo
in tempo? Non è che perdiamo l’aereo
per controllare dei quadri che hai già visto?”
borbotta Lukas, caracollandomi
dietro mentre mi dirigo verso la fila per entrare al museo di Van Meyer
ad
Amsterdam.
“Faremo
in tempo, non ti preoccupare. Voglio
vedere come sono veramente, prima di andare via da qua.”
Rispondo osservando
l’edificio grigio con le grandi porte di legno spalancate che
contiene le opere
di Gesabette.
“Facciamo
in fretta, mi sta tornando la
febbre…” mugugna stanco. La ferita non
è molto migliorata e io stessa non vedo
l’ora che vada da un medico, ma lui non ha voluto farsi
visitare in Olanda.
Purtroppo la febbre gli sale ogni volta che finisce l’effetto
del paracetamolo,
il che è sintomo di infezione.
Oggi
è il 18 ottobre. Mancano 14 giorni alla
fine di tutto, ma nonostante il malessere del mio compagno, il fatto
che ogni
volta che provo a parlare provo fitte alla gola e non riesco a muovere
bene il
collo, sono incredibilmente sollevata.
Domani
effettueranno i test su alcuni dei
quadri di Gesabette, troveranno sicuramente le sue tracce e quando
lunedì
prossimo saranno divulgati i risultati, anche lei sarà
libera. Senza che io
abbia fatto davvero niente di estenuante, anche la storia di Frank mi
è stata
rivelata.
Pensavo
che avrei dovuto sforzarmi di più per
ottenere le informazioni su di lui e invece, quando ieri pomeriggio mi
sono
trovata in centro a Leida con Ryan, è bastato dargli 9'000
euro in contanti e
fare un bonifico istantaneo a suo nome per farmi consegnare il
fascicolo di
carta che conteneva tutto ciò che è riuscito a
racimolare su Frank.
Era
già un eroe, ma non lo sapeva. Sua figlia
ne è a conoscenza di certo. Perché non
l’ha perdonato? Possibile che ce l’abbia
ancora con lui? Devo parlarle, possibilmente senza intrufolarmi nel
Dipartimento di Giustizia di Austin, anche perché temo che
questa impresa sia
un po’ sopra le mie capacità.
Non sono
nello stato d’animo giusto per
contattarla in questi giorni, devo ancora leggere tutto ciò
che contiene il
fascicolo e avrò tempo questo weekend, dove ho
già intenzione di vedere tutti i
nostri amici e festeggiare insieme a loro queste importantissime
conquiste.
Prima
però, voglio vedere le opere di
Gesabette scevre dall’invidia di suo fratello, che non
potrà mai più
importunarla in alcun modo. L’aereo partirà tra
sei ore… c’è tempo.
“Tutti
pronti?” chiede Nores, in videochiamata
da Barcellona.
“Yessss!”
urliamo dal mio salotto in coro io,
Mikaela e Carmen, mentre Lukas risponde un po’ fuori tempo,
assorbito dalla
lettura avvincente dell’etichetta dello spumante.
“3…2…1…
online!” urla Nores, mentre anche dal
suo ufficio si alzano urla di giubilo.
Le
indagini hanno confermato quello che già
sapevamo: Gesabette Van Meyer è la vera autrice dei quadri
più famosi
attribuiti erroneamente finora al fratello, Abel.
Nuestra
Voz e l’associazione olandese Hidden
Pink non hanno perso tempo e hanno cominciato a diffondere la notizia
quanto
più possibile, arricchendo la versione fornita dal museo con
nuovi particolari
che noi sappiamo essere presenti solo sulle scansioni rubate dal
computer della
direttrice Dorte. Non apriranno bocca, per non venire accusati di
negligenza
nell’attribuzione delle opere di un autore ad un altro. Si
sono già messi in
una cattiva posizione quando per tutto il tempo hanno tentato di
insabbiare la
faccenda e hanno ritagliato la firma di Gesabette dalla prima notizia
che hanno
pubblicato, prontamente cancellata stamattina.
Faccio
saltare il tappo dello spumante, che
vola per la stanza, facendo scappare Laika terrorizzata dal nostro
chiasso e
dall’oggetto volante.
I miei
lividi hanno lasciato inorridita
Mikaela, che è sempre più felice di aver dato le
dimissioni alla SoverCarter. A
detta sua, lei non sarebbe mai riuscita a sopravvivere ad
un’epopea simile e
quindi non vuole nemmeno rischiare di continuare a bazzicare un
ambiente malato
come quello in cui risiede lo spirito della SoverCarter. Mi ha proposto
di far
perdere anche lui, ma alla mia spiegazione di quanto sia stato
difficile fare
fuori Van Meyer e di quanto sia impossibile dar fuoco a tutte le
proprietà e ai
soldi di Soverer, ha riconosciuto che forse è meglio
evitare.
Carmen
si è arrabbiata alla vista del mio
collo, sembrava talmente oltraggiata che pareva essere lei, ad essere
stata
aggredita in quella casa infestata.
Non
ricordavo una giornata con così tante
risate da anni. Per il pranzo si è unito anche Marko, sempre
più sicuro di sé e
rilassato. L’ho addirittura visto flirtare con Mikaela e
Lukas ha faticato a
nascondere quanto fosse inorridito dalla cosa. Ha perfino messo un
po’ di peso
e perso quelle borse sotto agli occhi che lo facevano sembrare un ex
tossico
appena uscito dalla riabilitazione.
Lukas
sta molto meglio. Ho scoperto che non
voleva farsi curare in Olanda perché la sua assicurazione
non copriva le spese
mediche all’estero. Mi sono un po’ arrabbiata
quando l’ho saputo: avrei potuto
pagarle io, ma mi ha liquidato con una filippica su quanto fosse
importante
riuscire a cavarsela da solo, senza pesare su di me. Storielle sulla
virilità
di cui non ho mai compreso il senso. Per fortuna è andato
tutto bene.
Il
medico lo ha sgridato per non essere
passato prima, dicendo che la ferita avrebbe dovuto essere suturata
immediatamente, e alla fine hanno rimediato mettendogli dei punti
adesivi e
dandogli antidolorifici e antibiotico per una settimana. Gli
resterà la
cicatrice, è una certezza. Abbiamo stabilito che faremo a
gara a chi ne ha di
più.
Nel giro
di 24 ore la febbre gli era passata e
gli è tornata l’energia per festeggiare.
Il tempo
è passato velocemente, anche se è
lunedì 22 ottobre e so che mi restano solo dieci giorni.
Quando
le ragazze sono andate via, mi sono
sistemata nel piccolo studio del piano superiore di casa mia, mettendo
in
ordine gli appunti che ho scritto nel fine settimana. Mi sono fatta
coraggio e
ho contattato il numero dell’ufficio di Meredith Crisby, ma
ha risposto la sua
segretaria. Le ho spiegato che era di estrema importanza avere una
conversazione con lei quanto prima per via di un articolo di giornale
che sto
scrivendo per l’associazione di cui faccio parte (Nores
capirà…), in cui vorrei
raccontare la storia di suo padre e mi sarebbe di grande
utilità un’intervista
con sua figlia.
Purtroppo
la Dottoressa Crisby sarà reperibile
per questo solo giovedì 25, ma il fatto stesso che mi
abbiano fissato un
appuntamento in videochiamata di un’ora per le 10:00, ore
locali 18:00, mi
consola. Per allora mancheranno solo sei giorni, saranno sufficienti.
Un
grande temporale si sta preannunciando con
tuoni e fulmini improvvisi. Osservo il cielo dalla finestra dello
studio,
notando come le nuvole stiano producendo uno strano effetto ottico con
il sole
e il cielo sovrastante, assumendo una caratteristica colorazione blu
scuro. Sento
che un grande peso mi è stato tolto dalle spalle.
Buon
viaggio, Gesabette.
Torno a
guardare il fascicolo aperto davanti a
me. Stacco la foto di Frank dal bordo superiore su cui stava allacciata
grazie
ad una graffetta. È l’unica che possiedo in cui la
sua faccia è così ben
visibile, in tutte le altre di gruppo con i commilitoni sono sfocate o
troppo
distanti per poterlo riconoscere senza averlo prima visto chiaramente
in viso.
Somiglia
a quello smilzo arrabbiato che ho
visto sul treno, anche se qui è più in carne e
riesco a notare connotati in
comune con il suo primo aspetto, quello che apparteneva a suo padre, di
cui non
ho fotografie. I colori sono sbiaditi, artificiali, come se fossero
stati
inseriti in un secondo momento. Risale al 1965, quindi penso che la
definizione
dell’obbiettivo fotografico non fosse granché.
Indossa
una divisa verde scuro, il cappello
militare dalla visiera vera e guarda serio verso
l’obbiettivo. Il suo vero nome
era Francisco, ma per me resterà Frank-sempre-sulla-porta,
insolente, burbero e senza pace. Fintamente misogino, terribilmente
concreto.
Pensavo
che la sua pelle fosse abbronzata per
via del sole in Vietnam… adesso che ci penso, durante la
stagione delle piogge,
non credo avesse molto senso risultare abbronzati. Sua madre era
messicana,
ecco perché ha questa carnagione olivastra e gli occhi scuri.
“Che
stai facendo?” chiede Lukas guardandomi
dall’ingresso dello studio.
“Pensavo.”
rispondo stancamente mettendo via
la foto e i fogli all’interno del fascicolo, richiudendolo.
“Ho appuntamento
con Meredith giovedì alle sei di sera, fino ad allora
godiamoci questo tempo
libero.”
Lukas mi
si è fatto più vicino, con
un’espressione insolita. Sembra dubbio e… forse un
pizzico di ansia? Lo osservo
mentre riapre il fascicolo, alla prima pagina in cui
c’è la foto di Frank.
“Avevi
detto che era un cinquantenne.”
Sciolgo
le gambe che tenevo incrociate sotto
alla scrivania, raddrizzandomi. “All’inizio aveva
questo aspetto, la seconda
volta che l’ho visto sul treno era cambiato, te
l’ho detto, non sembrava
nemmeno lui.”
“Non
avevi detto che si era tolto vent’anni di
dosso.” Replica freddamente.
“Perché
ti disturba? Aveva un buco nella testa
grande quanto un tuo pugno, pensi veramente che la sua età
fosse tra i miei
pensieri?” rispondo piccata. Perché gli sto
mentendo? Chiedere l’età a Frank è
stata una delle prime cose che ho fatto, ma non voglio che Lukas si
faccia
strane idee.
Tace per
un secondo, spostando gli occhi su di
me, circospetto. “È successo qualcosa
tra
di voi, sul treno? Magari prima di tornare con me?”
Rischio
di strozzarmi con la saliva. “Ma cosa
ti viene in mente?! A parte che sul treno certe pulsioni non esistono,
manco ci
si pensa a certe cose… perché mai avrei dovuto
provare attrazione per un
vecchio o per un cadavere? Ascolti le domande che fai?!”
“Mmm.”
Dice, allontanandosi con le spalle
stranamente curve.
Guardo
il fascicolo aperto per l’ultima volta
prima di richiuderlo, con un senso di colpa enorme nel petto.
Perché, poi? Tra
me e Frank non è mai successo nulla, per davvero...
Il
pomeriggio del 24 sono trepidante d’attesa.
Non vedo l’ora di fare la telefonata a Meredith domani sera e
raggiungere il
mio traguardo.
Stiamo
molto meglio fisicamente. È vero, il
collo mi fa ancora male, ma niente che mi impedisca davvero nella vita
quotidiana. Per tenere a bada la mia ansia ho pulito tutta casa e mi
sono
sistemata i capelli che ormai sono sempre più lunghi anche
sui lati. Stavo
pensando di tagliarli alla stessa lunghezza e poi lasciarli crescere
uniformi:
così non sono molto pratici né piacevoli alla
vista. Dovrei anche tingerli.
Comincio a vedere un sacco di capelli bianchi. Non mi sembrava di
averne così
tanti, sei mesi fa…
Non
è importante, in videochiamata non si
vedranno.
Sto
riponendo le stoviglie del pranzo ormai
asciutte nei vari cassetti della cucina, con Laika che mi osserva
tranquilla
dalla sua cuccetta per terra e Lukas che sta sistemando
chissà qualche aggeggio
sul tavolo di vetro temperato, rischiando di far sporcizia dappertutto
e di
scheggiarlo, quando avverto un forte capogiro.
Il cuore
comincia a battermi velocemente e un
senso di nausea mi attanaglia le viscere. Poggio appena in tempo un
bicchiere
sul banco della cucina prima di piegarmi su me stessa con il fiato
accelerato e
una terribile angoscia che mi invade la testa. Voci confuse, un urlo di
donna
straziato, la puzza della frutta marcia.
“Erika!”
odo la voce di Lukas che mi chiama,
ma il mio cervello non è ricettivo, credo che questo sia uno
degli attacchi di
panico più brutti della mia vita.
Non so
per quanto tempo sono rimasta per
terra, tra le braccia di Lukas, prima di rendermi conto che sono in una
posizione scomposta e che mi trovo sul pavimento della mia cucina.
“Amore,
cosa… a cosa serve quella cosa lì?” mi
chiede Lukas, impacciato, indicando il bicchiere che ho poggiato prima
sulla
cucina.
Aveva
imparato questo trucchetto del distrarmi
durante gli attacchi di panico per farli interrompere anni fa, prima
ancora
della nostra rottura. Effettivamente, di norma funziona. Se ti distrai
durante
un attacco di panico, il cervello fa una sorta di riavvio e in qualche
modo
riesce a tornare a carburare un pochino. Resta però il senso
di spossatezza, la
nausea e lo stordimento.
Provo a
rispondere alla sua domanda, un po’
biascicante, mentre mi aiuta a rialzarmi e mi accompagna fino al divano.
“Cos’è
successo?” mi chiede facendomi poggiare
la testa sul suo petto.
“Non
lo so… credo che sia capitato qualcosa,
qualcosa di terribile.” Esalo distrutta, confortata dal
battito del suo cuore.
“Credo che sia meglio che mi sdrai… forse dovrei
fare un sonnellino.”
Restiamo
per diversi minuti così, abbracciati
in silenzio anche se non riesco a dormire con questo senso di angoscia
residuo,
finché non veniamo interrotti dalla suoneria del mio
cellulare, ancora sul
piano della cucina. Mi sollevo dal suo petto e lui va a prenderlo a
passo
spedito.
“È
Mikaela…” borbotta, poi risponde.
“Pronto?
Cosa? Aspetta… sì, è qui…
dove? Sì. Arriviamo.”
Chiude
la chiamata e quando si volta e posso
guardarlo in viso, vedo il suo sgomento. “Dobbiamo andare in
ospedale. Se sei
pronta partiamo subito.”
“Cos’è
successo?” chiedo alzandomi
preoccupata.
“Brianna.
Ha avuto un malore.”
“Mika.”
Dico vedendo la mia amica in lacrime
davanti alle porte del pronto soccorso. Quando mi vede, singhiozza
più forte e corre
ad abbracciarmi. “Cos’è
successo?”
Lukas ci
raggiunge correndo, guardandosi
attorno imbarazzato senza sapere che pesci pigliare.
“La
nonna è… ha…” prova a dire,
ma l’attacco
di pianto è tanto forte da smorzarle le parole prima che
riesca a pronunciarle.
“Su,
su non fare così.” Cerco di rassicurarla,
accarezzandole la schiena mentre singulta con la testa sulla mia
spalla. “Con
calma… prendi fiato.”
“Le
avevo detto di non andare, ma lei… ci è
andata lo stesso. Io non so perché l’ha fatto
ma…” singhiozza staccandosi da
me, mostrandomi le guance sporche di mascara e il petto le si scuote
nel
tentativo di fare un respiro completo. “Non era abbastanza
forte e… ha avuto un
infarto e…”
“È
morta?” chiedo sconvolta.
“No…”
Mikaela prova ad asciugarsi le lacrime
con un fazzoletto bagnato che stringe in mano. “No
ma… è grave. Ha chiesto di
te…”
“Dove
si trova?”
“In
terapia intensiva… adesso è su…
può vedere
solo i famigliari, ma ho detto che sei mia sorella...”
“Lukas,
resta qui con lei.” Ordino senza
nemmeno voltarmi quando attraverso spedita le porte
dell’ospedale. Salgo al
terzo piano, facendo le scale come se mi stesse inseguendo il diavolo,
schivando tutti gli ospiti, i malati e gli infermi che trovo sulla mia
strada.
Raggiungo il livello della terapia intensiva e vedo una infermiera che
sta
attraversando il corridoio.
“Scusi…
cerco Brianna Kenneth. Sono un
famigliare.”
“Di
qui. Stanza 302.” Risponde indicandomi
l’accesso. “Può stare dieci minuti, non
di più.”
“Sì…”
ansimo fiondandomi verso la stanza.
Quando
entro, la piccola figura della mia
anziana mentore, sdraiata sul letto d’ospedale in una stanza
comune, con una
tenda bianca che la separa dall’ospite a fianco e diversi
tubicini che le
escono dal naso e le macchine attaccate, mi chiude definitivamente lo
stomaco
già provato dall’attacco di panico.
“Brianna…”
sussurro avvicinandomi.
Apre a
fatica gli occhi stanchi. Non l’ho mai
vista ridotta in questo stato, sembra avere tutta la sua età
e forse ancora di
più. La pelle è pallida, le labbra violacee.
“Erika...?” soffia a fatica.
“Sono
qui, sono io.” Le dico prendendole la
mano da cui esce il tubicino della flebo.
“Sono
un pessimo esempio…” dice tentando di
abbozzare un sorriso. “Questo è stato…
il mio canto del cigno…”
“Non
dire sciocchezze, ti riprenderai e
torneremo a parlare di demoni e fantasmi nella tua cucina davanti ad un
the
nero, mentre mi riprendi di continuo perché ho ignorato i
tuoi consigli.” Provo
a tirarle su il morale, sentendo le lacrime che cominciano a scorrermi
sulle
guance.
Emette
un rantolo che ricorda una risata,
quando un colpo di tosse le squassa il petto. Riprende fiato a fatica,
poi
continua. “Ho saputo che hai… sconfitto il tuo
secondo poltergeist… uno al
mese, come solo i migliori… sanno fare.”
“Perché
sei andata alla SoverCarter? Non
avresti mai dovuto affrontarlo da sola, mi hai sempre detto di
accettare
l’aiuto dagli altri…”
“Per
questo… sono un pessimo esempio.” Fa un
sorriso tirato. “Questa faccenda… era personale.
Nessuno… può toccare chi amo.”
Provo ad
asciugarmi il naso che cola con la
manica della giacca, al diavolo la finezza. “Alla fine siamo
più simili di
quanto ti piacerebbe ammettere.” Scherzo per non cadere in un
pianto a dirotto.
“L’ho
sempre saputo… io ho avuto solo più
tempo per… sistemare tutto.” Ansima ricambiando
appena la stretta sulla mia
mano. “C’è un’ultima
cosa… che devi fare per me.”
“Dimmi.”
La incoraggio mentre qualche lacrima
sfugge al mio controllo e bagna il lenzuolo bianco che la riveste.
“Tra
le cose che mi hanno preso… c’è il mio
anello. Recati a mezzanotte… su un ponte che attraversa un
fiume… lancialo alle
tue spalle e non voltarti mai indietro.”
“Cosa
hai fatto?” domando tirando su col naso.
“Lì
è intrappolato quel figlio di cagna...
Lancialo nell’acqua che scorre… laddove un ponte
interseca un corso… d’acqua
corrente. Si perderà… negli abissi.” un
altro conato di tosse la fa agitare.
“Non
ti sforzare. Sì, lo farò, stasera stessa.
Non dubitarne, te lo prometto.” Sussurro trattenendo le
lacrime mentre il mio
viso si contrae per lo sforzo.
“Non
nutrivo alcun dubbio…” ansima. “Quando
non ci sarò più… dovrai badare tu a
Mika…”
“Ti
riprenderai, devi solo riposare.” Mento
spudoratamente.
Sorride
un’ultima volta. “Sai perché…
tutti
scoprono… tutto?”
Scuoto
la testa in diniego.
“Perché…
non sei più… capace… di
mentire.”
Non
riesco a trattenere più il pianto e a
malapena mi accorgo della infermiera che mi si è avvicinata
per chiedermi di
uscire.
“C’è
la luna piena.” Dice Lukas, guardando il
cielo.
“Lo
so… è probabile che sia per questo che
Brianna ha deciso di agire oggi. Lei era più forte con la
luna piena, io con la
luna nuova.” Rispondo flebilmente, stringendo il fazzoletto
che contiene
l’anello ormai corrotto di Brianna.
Cammino
lungo il Münsterbrücke, il ponte più
antico di Zurigo, nel distretto numero uno. È illuminato da
lampioni dalla luce
calda e di tanto in tanto qualche auto lo attraversa. Sulla via
pedonale è
ancora possibile vedere qualche coppietta e dei ragazzini che camminano
avvolti
nelle giacche pesanti, mentre il loro fiato si trasforma in fitto
vapore ogni
volta che ridono e chiacchierano.
“Non
parlare di lei al passato. Non è ancora
morta…” dice Lukas con tono pacato, dietro di me.
“Hai
ragione… non è ancora morta. Se lo fosse,
niente potrebbe tenere questa merda rinchiusa qui dentro. Prima me ne
libero,
più alte sono le possibilità che lei possa
salvarsi.” Cerco di convincermi
delle mie parole mentre la mia stretta si fa più forte sul
fazzoletto.
Arriviamo
a metà del ponte e il vento freddo
provocato dalla presenza del fiume mi scompiglia i capelli. Mi affaccio
per
verificare da che lato scorre l’acqua e attraverso la strada
velocemente,
seguita dal mio compagno, per poter avere di fronte l’acqua
che viene verso di
me e alle spalle quella che scorre via.
“Hai
letto come si fa su quei libri
inquietanti?”
“Anche…
ma me l’ha confermato lei. Ha detto
che era una questione personale, perché aveva toccato sua
nipote. La conosco da
meno di quattro mesi…” sento di nuovo le lacrime
distorcermi la vista. “Non era
mia nonna, allora perché sto tanto male? Come è
possibile che l’abbia amata
così tanto in così poco tempo?”
Lukas mi
abbraccia e restiamo per qualche
minuto così, l’una tra le braccia
dell’altro. Mi discosto solo per controllare
l’ora. Manca un minuto a mezzanotte.
Lukas fa
qualche passo indietro e mi metto in
posizione, con le spalle al cornicione di pietra, scoprendo i lembi del
fazzoletto, ammirando alla luce del lampione per l’ultima
volta l’anello ormai
divorato dall’ossidazione che Brianna era solita rigirarsi
tra le dita quando
mi spiegava qualcosa.
“Non
darai più fastidio a nessuno, dove stai
andando. Sono finiti i tempi in cui rovinavi la vita delle persone con
i tuoi
discorsi deliranti. Non sentiremo la tua mancanza. Addio,
Soverer.” Pronuncio
con rabbia scagliando l’anello alle mie spalle. Sento il
lieve rumore
dell’anello che viene inghiottito dalle acque, ma non mi
volto per controllare.
“Andiamo
a casa.” Lukas alza un braccio verso
di me e mi riparo contro di lui come un pulcino sotto l’ala
della chioccia.
Faccio
un nodo al foulard per coprire i lividi
che ho ancora sulla gola, controllando per l’ultima volta il
mio aspetto allo
specchio, a qualche minuto dall’inizio dalla videochiamata
con Meredith.
Stamattina
sono andata a trovare Brianna.
Purtroppo ha perso conoscenza ieri notte e non si è ancora
svegliata. Il suo
incidente è avvenuto circa 24 ore fa… dovremo
attendere almeno altre 48 ore per
poterla ritenere fuori pericolo di vita, ma il medico ha detto a
Mikaela che il
suo cuore presenta un’aritmia troppo grave per poterle dare
certezze.
Andrò
a trovarla ogni giorno, per infonderle
quanta più energia positiva riesca a darle. Avevo in
progetto di tornare sul
treno per poter parlare con Frank ma preferisco donare tutte le mie
forze a
Brianna nella speranza che basti a farle superare il pericolo di vita.
Ogni
volta che le prendo la mano sento una grande stanchezza attanagliarmi
gli arti
e la testa comincia a dolere. In queste condizioni e senza un ambiente
idoneo a
farmi prestare l’energia come quello del parco di Ginevra,
non riuscirò mai a tornare
sul treno.
Ripensando
a qualche giorno fa, mi stupisco di
quanto fossi felice prima e di quanto mi sento triste adesso.
Mi siedo
alla scrivania, sistemando di fronte
a me la lista di domande che ho scritto sul mio block notes e gli
auricolari
col microfono, poi clicco sul tasto di chiamata di Skype.
I
secondi di attesa sembrano infiniti e quando
Meredith risponde, la sua immagine leggermente pixellata mi fa tirare
un
sospiro di sollievo.
“Buongiorno
Signora Crisby, mi sente?” chiedo
cordialmente in inglese.
“Buongiorno,
sì… ora la sento.” Risponde
mentre si sistema le cuffie over ear. La sua voce è profonda
e professionale,
appare come una donna di circa cinquant’anni abbastanza
formosa, nonostante ne
abbia quasi dieci in più. Indossa una camicetta azzurra e la
sua pelle è più
chiara di quella di Frank, anche se dallo schermo non riesco a vedere
perfettamente l’incarnato. I capelli sembrano di una
tonalità melanica, forse
neri, stretti in una coda di cavallo alta. Gli occhi sembrano scuri, ma
non
posso dirlo con certezza. “Dunque…” dice
mettendosi comoda.
“Io
sono Monika Boden, giornalista freelance
per la associazione Nuestra Voz di Barcellona. È un piacere
fare la sua
conoscenza, Signora Crisby.” mi presento prendendo in mano il
blocco degli
appunti, tentando di non impiccarmi coi fili degli auricolari mentre
parlo.
“Attualmente sto scrivendo un articolo per commemorare le
vittime e gli eroi
dei tristi eventi verificatisi a My Lai nel marzo del ’68. Ho
trovato molte
informazioni online e negli archivi nazionali americani. Tra tutte le
figure
importantissime che furono coinvolte nel massacro, in pochi parlano dei
soldati
americani che si opposero, perendo a loro volta. La storia di suo
padre, tra
tutte, è stata una di quelle che ho convenuto essere
più importanti.”
“Pensavo
che Nuestra Voz si occupasse più che
altro di femminismo e diritti delle minoranze.” Risponde
calma e diretta.
Provo a
sorridere calorosamente, cercando di
risponderle senza arrampicarmi sui muri. “Sono lusingata che
lei ci conosca… ha
forse sentito dell’ultimo caso a cui ho lavorato, su
Gesabette Van Meyer?”
“Sì,
ho avuto il piacere di leggere un tweet a
proposito proprio ieri sera, a dire il vero.
Congratulazioni.” Sorride a sua
volta, chinando il capo in complimento.
“Per
lo più trattiamo questi argomenti, ma
Nuestra Voz si occupa di tutte le persone che non hanno avuto voce e,
secondo
me, Frank Howard è una di quelle che merita un encomio
più di altre. Il suo
atto poteva essere frainteso come alto tradimento, invece era un eroe.
Nonostante ciò, non se ne parla molto.”
“Mio
padre, il Capitano Francisco Howard…”
mi corregge con un tono inizialmente
duro e poi molto più dolce quando prosegue
“… è stato solo uno dei tanti eroi
americani di cui può vantare il nostro esercito. Dato che la
sua carriera è
finita molto presto e il grado di Capitano gli è stato
concesso post mortem,
penso sia normale che la sua persona non sia nota anche in Europa, dove
la
Guerra del Vietnam non viene ricordata per i suoi gesti di coraggio,
piuttosto
per i suoi crimini di guerra.”
Il fatto
che io abbia chiamato suo padre col
soprannome, senza onorificenze, le ha dato fastidio. Da figlia, posso
capire il
suo tentativo di tutelare il nome del padre. Da amica di Frank, che ho
conosciuto di persona e che mi ha stretto tra le braccia più
volte di quanto
avrei mai dovuto permettere, non posso che storcere il naso
interiormente.
“Quanti
anni aveva quando lo ha visto per
l’ultima volta? Cosa mi può dire di lui come
persona?” leggo le prime domande
sulla mia lista, dato che voglio arrivare alla parte su ciò
che prova per lui
abbastanza in fretta.
Lo
sguardo di Meredith vaga per lo studio
intorno a sé, di cui riesco a vedere solo lo sfondo bianco e
un mobile scuro
sfocato alle sue spalle. Si stringe le spalle. “Avevo sette
anni l’ultima volta
che lo incontrai. Era tornato per il primo congedo dopo aver combattuto
per un
anno in Vietnam. Ci tornò dopo nemmeno tre mesi, per carenza
di soldati
esperti. Era… era un uomo abbastanza chiuso. Era nato
durante la Seconda Guerra
Mondiale, stimava molto suo padre, mio nonno, che combatté
per la liberazione della
Francia nel 1944.”
Queste
informazioni non dicono molto di lui…
“Era un padre affettuoso? Un buon membro della
comunità?”
Il suo
sguardo si fa perplesso e dopo una
piccola pausa, incrocia le braccia sul petto. “Non vorrei che
l’ombra di mio
padre venisse alterata da alcune considerazioni che stonerebbero con
una figura
genitoriale odierna. Preferirei non dire qualcosa che potrebbe metterlo
in
cattiva luce davanti a migliaia di lettori.”
“Oh
no, non si preoccupi, non è assolutamente
nostra intenzione.” Corro ai ripari. Dannazione, questa donna
si chiude
esattamente come lui, sarà un tratto genetico?
“Vorrei solo avere qualche
aggettivo per poterlo descrivere… sa, un padre
premuroso, un uomo caritatevole
verso
i più deboli…”
Riesco a
intravedere un sorrisetto divertito.
Scioglie le braccia e non riesco più a scorgere le sue mani
da questa
prospettiva, il che rende l’interpretazione del linguaggio
del corpo molto più
difficile. “Mio padre… dunque. Mio padre era un
uomo… responsabile. Giusto,
pratico. Di poche parole. Non si perdeva in ciance inutili, non si
faceva i
fatti altrui. Si assumeva le proprie responsabilità, infatti
mi riconobbe alla
nascita e mi crebbe insieme a sua sorella, perché non era
minimamente in grado
di crescere una bambina da solo.”
“La
riconobbe? Non era sposato? Pensavo che
sua moglie fosse morta…” esclamo basita, mentre
con un braccio cerco il
fascicolo con il profilo del soldato.
“No,
era celibe. Io nacqui fuori dal
matrimonio, un rapporto occasionale, si direbbe oggi. Non ho mai
conosciuto mia
madre, ma suppongo di non essere stata cercata dato che voleva darmi in
adozione. Lui mi prese lo stesso con sé, quindi direi che lo
si possa definire
responsabile.” Dice prendendo un respiro profondo.
Non era
sposato… non era vedovo. Cazzo Frank,
mi hai detto un sacco di stronzate… ma anche io,
perché non ho cercato
informazioni su sua moglie? In queste pagine non c’era
scritto nulla in
proposito, è vero, ma perché non ci ho pensato
affatto?!
“Deve
farmi altre domande?” chiede Meredith
con gli occhi diretti all’obbiettivo.
“Sì…
scusi. Quindi era un uomo molto
riservato. Caparbio?” continuo tentando di non mostrare
quanto la precedente
informazione mi abbia lasciato attonita.
“Decisamente
caparbio. Oserei dire ostinato
come pochi. In questo senso, è stato per me fonte di grande
ispirazione.”
Risponde con un accenno breve.
“Eravate
molto legati?” riprendo a leggere la
lista.
“Io…
sì, direi di sì. Chiaramente i miei
ricordi sono quelli di una bambina, molti sono confusionari, ma ricordo
che mi
scriveva dal fronte ogni volta che ne aveva modo.” Sorride
nostalgica. “Era
solo un ragazzo, in fondo. Adesso che ho quasi sessant’anni,
mi rendo conto che
potrebbe avere l’età di mio figlio, ma era
straordinariamente maturo. Sono
cresciuta con mia zia e suo marito, quindi credo sia doveroso dire che
siano
stati più genitori di quanto lo sia stato lui. Nonostante
ciò, ricordo il nostro
rapporto con grande affetto. Ho conservato le sue lettere, ogni tanto
mi capita
di rileggerle.”
Non
capisco… sta mentendo? Non mi sembra. Pare
una donna genuinamente triste per la perdita del padre avvenuta ormai
cinquant’anni fa. È passato tanto tempo,
è normale che non pianga e abbia
superato il lutto al punto tale da ricordarlo con affetto, senza
disperazione.
“Vorrei
farle una domanda indiscreta… non la
inserirò nell’intervista. Frank, scusi, il
Capitano Howard ha mai lasciato
qualcosa in sospeso, qualcosa di non chiarito tra di voi?”
domando leggermente
assorta.
Meredith
tace, guardando verso il basso,
frugando nella sua memoria. “No, non credo. Non aveva
lasciato nulla in
sospeso, ad eccezione della mia educazione. È riuscito
comunque a garantirmi un
futuro con il sussidio per le famiglie dei veterani e il risarcimento
per il
suo sacrificio, cui ho potuto accedere alla maggiore età per
pagarmi gli studi.
Credo che, per il suo tempo, sia stato un buon padre. Non ho nulla da
rimproverargli.”
Il mio
cuore è cascato molto in basso. Dio
mio, com’è possibile!? Perché
è bloccato lì se non ha nulla da farsi perdonare
da nessuno?!
“Aveva
un buon rapporto con sua sorella
Patience?” faccio un ultimo tentativo.
“Sì,
la zia lo stimava molto. Erano molto
legati. Lui aveva ereditato la casa come unico figlio maschio, ma non
esitò a
cedergliela immediatamente quando lei si sposò,
affinché potessero avere una
famiglia loro senza preoccuparsi di acquistare una casa. Si volevano
bene e si
rispettavano.”
“Grazie
Signora Crisby, la sua testimonianza è
molto preziosa, farò il possibile per far apparire suo padre
proprio come me
l’ha descritto.” Cerco di sorriderle, tirata.
Ricambia
con espressione cortese. “Grazie a
lei, è stato bello poterlo ricordare ancora una volta, e che
le sue gesta
ancora resistano dopo tanto tempo. Buona giornata.”
Chiudo
la chiamata e mi slaccio gli auricolari
con frustrazione. Diamine, sono in alto mare. Pensavo di esserci
così vicina!
Perché è ancora prigioniero? Perché la
sua porta non si può… le
radici. Penso sollevandomi di scatto.
Non può andarsene perché non lo lasciano andare.
“Grazie
per essere venuta...” dico aprendo la
porta a Carmen.
È
la sera di venerdì 26 ottobre, cinque giorni
dal mio termine.
Ho
chiesto consiglio a Carmen perché parlarne
con Lukas mi fa sentire stranamente a disagio, diventa molto freddo
quando gli
parlo di Frank, come se l’argomento lo infastidisse.
Brianna
non si è ancora risvegliata da un coma
spontaneo che l’ha colta la notte di mercoledì.
Vado a trovarla ogni giorno e
le do tutta la mia energia, ma non sembra migliorare. Se
supererà le prossime
24 ore, ci saranno più probabilità di salvezza
per lei, sebbene non sappiamo in
che stato si risveglierà. Mikaela è molto turbata
e non me la sento di
chiederle favori in questo momento. Io stessa sono in uno stato di
ansia
perenne e non so dove sbattere la testa.
Brianna
ha detto che non sono più capace di
mentire. Una volta sapevo mentire spudoratamente, senza remore, senza
distogliere mai lo sguardo dal mio interlocutore. Il trucco era dire
balle
convincendosi di stare a enunciare la verità. Se ci credi
perfino tu, tutti ci
cascano.
Temo di
aver perso questa capacità. Forse
perché adesso mi faccio scrupoli, la coscienza mi
attanaglia, sento di
inquinare le mie energie e non ho più i nervi saldi di una
volta. Però… non ho
mentito quando ho detto che tra me e Frank non c’era
assolutamente nulla oltre
ad una amicizia. Perché dovrei sentirmi così in
colpa al solo pensiero? Ma
soprattutto, perché la mente mi va sempre a lui?
Razionalmente so che è perché
devo salvarlo, è il mio obiettivo quindi è
normale essere focalizzata sulla
meta. Dall’altro lato invece so che non è normale.
“Figurati…
novità sulla nonna di Mika?” mi
chiede accomodandosi sul divano, con la giacca sottobraccio.
“No…
è ancora in coma.” Sospiro sedendomi
vicino a lei, spostando il fascicolo su Frank che stavo guardando fino
a poco
fa.
“Dov’è
Lukas?” chiede Carmen.
“Sta
sistemando chissà cosa alla moto, in
garage. Tra pochi giorni anche lui inaugurerà
l’officina e ha tanti pensieri
per la testa.” Rispondo triste.
“Cosa
volevi dirmi? Riguarda l’ultimo
passeggero, giusto?”
Annuisco,
porgendole il fascicolo. “Sì… ho
scoperto tutto sulla sua vita, ho parlato con sua figlia ed
è venuto fuori che
alcune informazioni su di lui erano scorrette. Insomma, pare avermi
mentito su
alcuni punti.”
“Tipo?”
Provo un
innaturale fastidio al ripensarci.
“Tipo che… non era vedovo. Non si è
proprio mai sposato, la figlia è nata a
causa di una scappatella.”
“Ah…”
mormora Carmen, dubbiosa. “Ma sei sicura
che sia lui? Non è che hai trovato un’altra
persona senza volerlo? Se ci sono
troppe cose differenti…”
“No,
è sicuramente lui. Combacia tutta la sua
vita professionale, i luoghi, le date, ad eccezione di quello che mi ha
detto
su di sé… come se non volesse farmi conoscere la
verità sulla sua vita privata,
però allo stesso tempo vorrebbe che io gliela
sistemi.” Sbuffo stizzita.
“Forse
si vergogna di certe cose? Non riteneva
opportuno che tu sapessi cosa faceva nella sua privacy. O forse,
boh… ha
pensato che fosse più accettabile dire che sua moglie era
morta piuttosto che
ammettere di aver messo incinta la prima che passava?”
“Penso
che fosse perché non riteneva la
questione importante ai fini della sua redenzione agli occhi della
figlia…
voleva solo che le dicessi che non era morto come traditore, ma da
eroe, per
questo non era necessario raccontarmi i dettagli della sua vita
privata, ma... io
non ho fatto caso al fatto che fosse vedovo, ho tirato dritto come se
fosse un
dato di nessunissima importanza mentre avrebbe potuto avere molta
rilevanza nel
rapporto con sua figlia. Non ho proprio cercato notizie su sua moglie,
nonostante
ci fosse scritto bene qui, in prima pagina: bachelor,
celibe. Ho depennato la donna della sua vita con un battito di
ciglia.” Scrollo
le spalle. “In ogni caso non ci sono ragioni
perché lui stia lì, ad eccezione
di quelle radici nere che ho visto strette intorno alla sua
porta.”
“Ah,
non mi avevi detto che era bello.”
Commenta con una nota di apprezzamento osservando la foto attaccata
alla prima
pagina. La guardo sconvolta e lei mi ricambia stranita. “Che
ho detto? Insomma,
è un bel ragazzo.”
Sbuffo
strofinandomi gli occhi. “Non mi aiuti
così… ma non ci ho fatto nulla, anche se
è vero, è carino.”
“Io
non ho detto che tu ci abbia fatto
qualcosa…” sorride imbarazzata, per poi assumere
un’aria maliziosa. “Ci hai
fatto qualcosa? Ora sì, te l’ho chiesto.”
“Oh
ma dai, Carmen!” mi sbatto le mani sulle
cosce, mortificata. “No, non ci farei mai nulla, sto con
Lukas, lo amo, non mi
sognerei mai di tradirlo!”
“Sto
scherzando!” risponde ridacchiando. “Non
volevo offenderti, come mai l’argomento ti urta
tanto?”
Rifletto
a sguardo basso prima di risponderle.
“Non riesco a togliermelo dalla testa. Vorrei andare da lui,
ma è impossibile…
non sento di avere le forze per tornare sul treno, ci ho anche provato
ma non
riesco a concentrarmi. La situazione con Brianna mi ha
destabilizzato.”
“È
una questione complicata… lo capisco.”
sospira malinconica. “Ma senti, alla fine ci hai pensato
così tanto solo perché
devi salvarlo ad ogni costo. L’inconscio a volte fa brutti
scherzi e poi tu sai
che tra te e lui non ci potrà mai essere nulla. Anche se
davvero questo ragazzo
ti attrae così tanto, è possibile che sia solo
chimica, che so… un istinto
animale che ti ha preso, niente di davvero realizzabile e lo sai bene,
quindi
non ti angustiare.”
“Carmen,
io non voglio andarci a letto!” cerco
di non alzare troppo la voce per timore che Lukas entri da un momento
all’altro. “Io penso proprio a lui come persona,
sento il bisogno di andare da
lui, non per farci cose.”
“Non
so se è meglio o peggio…” dice con una
smorfia incerta. “Comunque dobbiamo tirarlo fuori, giusto? E
prima se ne andrà
da lì, meglio sarà per tutti, quindi cominciamo
con le teorie.”
“Credo
che sia lì per via delle radici sulla
porta. Ricordi che ti raccontai di aver visto la porta della sua cabina
costretta da quelle radici nere? La sua porta non era sigillata, al
contrario
di quella di Camille, Clara e Gesabette… erano le radici a
bloccarla. Lui
secondo me potrebbe già andarsene, ma finché
quelle cose lo terranno
lì, sarà prigioniero.”
“Perché
lo stanno tenendo prigioniero? Non lo hanno
fatto con gli altri passeggeri…” riflette Carmen,
confusa.
“Non
lo so! Penso che sia perché se lui non se
ne va da lì, io fallirò e in qualche modo avranno
vinto.” Ipotizzo toccandomi
il mento con la punta delle dita.
“Perché
non provare a chiudere la porta di
qualcun altro? Quando andasti sul treno l’ultima volta,
c’erano ancora tre
passeggeri. Perché non chiudere anche le loro porte?
È possibile che sia
personale, che ce l’abbiano proprio con lui?”
chiede Carmen.
“Può
darsi… ce l’hanno con entrambi, forse. E
nessuno mi aiuta più. Non ho più avuto sogni o
collegamenti con le mie amiche
dall’altra parte…” Mi appoggio con la
schiena al divano. “Lui mi disse che
riusciva a resistere ai demoni per più tempo di chiunque
altro, che li aveva
addirittura sfidati più volte, sentiva che c’era
qualcosa che non andava e
sapeva distinguere la loro voce quando gli insinuavano pensieri nella
testa.”
“Era
il più forte di tutti… però a questo
punto perché non farlo andare via subito e levarselo di
torno?”
“Forse
perché temevano che mi avrebbe aiutato,
come ha fatto Estela. Libero rappresentava una minaccia più
grande di Clara, e
lei ed Estela si sono rivelate estremamente utili, anche se adesso
tacciono. Se
non intervengono, è perché qualcosa glielo
impedisce.” Ragiono.
Il suono
del mio telefono che squilla ci
distrae dalle nostre elucubrazioni. Guardo lo smartphone: è
Mikaela. Sento i
brividi sulle braccia quando rispondo.
“Erika…”
singhiozza Mikaela, in uno stato in
cui non la sentivo da giorni. Carmen si avvicina attenta per sentire.
“La
nonna… se n’è andata.”
Buongiorno fanciulli… perdonate questo
fulmine a ciel sereno.
*come già descritto in precedenza,
ormai oltre venti capitoli
fa, la storia del Massacro di My Lai è vera, anche se
chiaramente, Frank Howard
è un personaggio di mia invenzione e quindi non è
tra le vittime della strage.
Un capitolo molto denso, me ne rendo conto. La
dipartita di
Brianna è stata improvvisa e scombussolante, e io stessa mi
sono commossa
scrivendola, perché anche se sapevo fin
dall’inizio come sarebbe andata a
finire, scrivendo di lei per così tanto tempo, mi ci ero
seriamente
affezionata. Ho tentato di risollevare il tenore poco dopo,
perché non volevo
che chiudeste il capitolo con un sentore di malinconia. Non so se ci
sono
riuscita.
Qualcuno di voi avrà sicuramente capito
qualcosa che ad Erika
ancora sfugge. Nel prossimo capirete tutto su tutti e finalmente vi
sarà
chiarito ogni mistero.
Grazie a tutti coloro che mi hanno accompagnato
fino alla fine
<3 Buone feste!
Fiore di Pesco