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Autore: fiore di pesco    26/12/2023    3 recensioni
Erika è una donna di trent'anni che nella sua vita ha messo la carriera davanti a qualsiasi altra cosa.
Resta coinvolta in un incidente d'auto e si risveglia su un treno dall'aspetto insolito: è composto da un unico vagone che non ha né un inizio né una fine, ogni cabina ha un aspetto diverso dalle altre, alcune sono illuminate, altre sono spente e dai finestrini non si scorge il paesaggio esterno, bensì un cielo stellato.
I passeggeri le riveleranno chi sono e il triste motivo per il quale si trovano lì... la priorità è fuggire e trarre in salvo i suoi amici, ma come?
Una storia che unisce scenari reali a soprannaturali, onirici, viaggi e fatti storici. Adatto a chi apprezza la lore pagana, il mistero e l'investigazione.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 28, Eroi

“Hai trovato Frank Howard?” salto per aria sconvolta.

Ryan annuisce e risponde immediatamente. “Lui e sua figlia, come avevi commissionato.”

Mi avvicino per sentire meglio e vedo che il mio atteggiamento deve averlo preoccupato, quindi provo a calmarmi e a tornare a sedermi sul letto, mantenendo tre metri di distanza da lui. “Dimmi tutto quello che puoi, ti prego.”

Ryan alza le sopracciglia, un po’ stranito dalla mia reazione, prima di cominciare a raccontare. “Battezzato Francisco Howard, noto da sempre come Frank, nato nel novembre del 1940 ad Austin, Texas, da madre messicana e padre americano. Cresciuto in Kansas, nella cittadina di Thayer, dove il padre ha ereditato la casa di famiglia e dove è vissuto finché non è stato arruolato nell’esercito a 22 anni e poi nell’Americal Division, 23esimo plotone di fanteria, anche nota come Compagnia Charlie. Al momento della morte era uno dei più anziani del suo gruppo, nonostante avesse solo 28 anni.”

Noto uno scatto provenire da Lukas, che sembra aver cambiato posizione di una gamba, ma lo ignoro e Ryan fa lo stesso, continuando a raccontare. “Venne inviato in Vietnam nel 1966 e fece un unico congedo prima di essere richiesto nuovamente per le sue abilità spiccate nella mimetizzazione e l’uso delle armi da fuoco, divenne fuciliere. Morì durante il Massacro di My Lai il 16 marzo del 1968*… Immagino non ci sia molto da dire sulla questione.”

“Cos’è il massacro di My Lai?” chiede Lukas freddamente.

Ryan sembra infastidito. Io, però, ho letto qualcosa in proposito nel corso delle mie ricerche. “Fu un crimine di guerra che gli Stati Uniti commisero ai danni del Vietnam. Uccisero centinaia di vietnamiti innocenti, donne, bambini e contadini e furono interrotti solo verso la fine, da un elicottero di passaggio.”

“All’incirca.” prosegue Ryan. “La Compagnia Charlie attaccò il villaggio, credendo che fosse un covo di Viet Cong. La giovane età gli ha un po’ dato alla testa…”

“A chi non capita di dare di matto e ammazzare qualche centinaia di donne e bambini?” chiede sarcasticamente Lukas, irrigidito.

“Non tutti erano assassini senza discernimento.” Si accalda Ryan, tendendosi a sua volta. “Qualcuno si oppose disorganizzatamente allo sterminio, e Howard era tra di loro. Un elicottero in ricognizione con tre soldati americani sorvolò la zona, vide il massacro e puntò le armi contro i soldati impazziti. Ricevettero la Medaglia dei Soldati e premiati per atto di valore. Purtroppo, Howard era già morto.”

Faccio un cenno con il mento a Lukas, in una muta supplica di non fare altri interventi a danno dell’esercito americano, perché non voglio che questa conversazione sfoci nell’ennesimo dibattito su quanto disapproviamo il governo statunitense di Nixon, in vigore nel ’68.

“La sua salma tornò in patria, dove venne seppellito tra gli eroi americani, nel cimitero di Arlington, in Virginia. Ricevette encomi e medaglia al valore postuma. La sua famiglia ottenne un risarcimento in denaro e sua figlia poté pagarcisi il college. La casa di famiglia rimase alla sorella, Patience, mentre la figlia, adesso Meredith Crisby, lavora come antropologa forense per il Dipartimento di Giustizia ad Austin, Texas.”

Per tutto l’ultimo minuto ho fissato Ryan completamente immobile, mentre il mio cuore batteva veloce nella mia scatola toracica al punto che non credevo fosse possibile udirlo così nitidamente.

“La figlia…” provo a mettere insieme una frase ma articolare in una lingua che non è la mia, adesso, mi sembra un compito estremamente arduo. “La figlia… è a conoscenza del fatto che fosse un eroe?”

“Sì, certo.” Annuisce Ryan, leggermente a disagio.

Cerco di ricompormi dopo essermi resa conto che sono curva e protesa in avanti più di quanto voglia. “Lei… la hai incontrata? Serba dei rancori per suo padre, che tu sappia?”

Ryan mi guarda confuso. “Non l’ho vista di persona, ma non vedo perché avercela con un padre che si è sacrificato per la giustizia. Ho i suoi dati di contatto presso l’ufficio per cui lavora. Essendo una dipendente dello Stato, non ho ritenuto opportuno spingermi oltre a questo.”

“Puoi darmi questi contatti? Dovrei parlare con lei.” Dico senza più energie, avvertendo di colpo tutta la stanchezza che mi porto dietro da ieri.

“Ti darò tutto il materiale in mio possesso, prima di questo però vorrei parlare del mio compenso, e avere la vostra parola che nessuno darà più fastidio a me e alla mia famiglia.” Dice con durezza l’investigatore.

Annuisco e Lukas conferma con aria svogliata prima che Ryan ci esponga le sue condizioni. “Voglio che mi siano rimborsate tutte le spese sostenute finora per trovare queste informazioni e un extra per ciò che ci è successo.”

“Quanto vuoi?” chiede acidamente Lukas.

“20 mila. In contanti.” Bercia Ryan, gonfiando il petto mentre sul volto di Lukas si forma una smorfia di disprezzo.

“D’accordo. Non li ho adesso. Posso dartene 10 mila circa più tardi, dal bancomat. All’estero ho un limite di prelevamento mensile. Il resto posso mandartelo con un bonifico. Prendere o lasciare.” Esalo senza voglia di discutere oltre, mentre Lukas mi fulmina.

“Andata.”

 

“Faremo in tempo? Non è che perdiamo l’aereo per controllare dei quadri che hai già visto?” borbotta Lukas, caracollandomi dietro mentre mi dirigo verso la fila per entrare al museo di Van Meyer ad Amsterdam.

“Faremo in tempo, non ti preoccupare. Voglio vedere come sono veramente, prima di andare via da qua.” Rispondo osservando l’edificio grigio con le grandi porte di legno spalancate che contiene le opere di Gesabette.

“Facciamo in fretta, mi sta tornando la febbre…” mugugna stanco. La ferita non è molto migliorata e io stessa non vedo l’ora che vada da un medico, ma lui non ha voluto farsi visitare in Olanda. Purtroppo la febbre gli sale ogni volta che finisce l’effetto del paracetamolo, il che è sintomo di infezione.

Oggi è il 18 ottobre. Mancano 14 giorni alla fine di tutto, ma nonostante il malessere del mio compagno, il fatto che ogni volta che provo a parlare provo fitte alla gola e non riesco a muovere bene il collo, sono incredibilmente sollevata.

Domani effettueranno i test su alcuni dei quadri di Gesabette, troveranno sicuramente le sue tracce e quando lunedì prossimo saranno divulgati i risultati, anche lei sarà libera. Senza che io abbia fatto davvero niente di estenuante, anche la storia di Frank mi è stata rivelata.

Pensavo che avrei dovuto sforzarmi di più per ottenere le informazioni su di lui e invece, quando ieri pomeriggio mi sono trovata in centro a Leida con Ryan, è bastato dargli 9'000 euro in contanti e fare un bonifico istantaneo a suo nome per farmi consegnare il fascicolo di carta che conteneva tutto ciò che è riuscito a racimolare su Frank.

Era già un eroe, ma non lo sapeva. Sua figlia ne è a conoscenza di certo. Perché non l’ha perdonato? Possibile che ce l’abbia ancora con lui? Devo parlarle, possibilmente senza intrufolarmi nel Dipartimento di Giustizia di Austin, anche perché temo che questa impresa sia un po’ sopra le mie capacità.

Non sono nello stato d’animo giusto per contattarla in questi giorni, devo ancora leggere tutto ciò che contiene il fascicolo e avrò tempo questo weekend, dove ho già intenzione di vedere tutti i nostri amici e festeggiare insieme a loro queste importantissime conquiste.

Prima però, voglio vedere le opere di Gesabette scevre dall’invidia di suo fratello, che non potrà mai più importunarla in alcun modo. L’aereo partirà tra sei ore… c’è tempo.

 

“Tutti pronti?” chiede Nores, in videochiamata da Barcellona.

“Yessss!” urliamo dal mio salotto in coro io, Mikaela e Carmen, mentre Lukas risponde un po’ fuori tempo, assorbito dalla lettura avvincente dell’etichetta dello spumante.

“3…2…1… online!” urla Nores, mentre anche dal suo ufficio si alzano urla di giubilo.

Le indagini hanno confermato quello che già sapevamo: Gesabette Van Meyer è la vera autrice dei quadri più famosi attribuiti erroneamente finora al fratello, Abel.

Nuestra Voz e l’associazione olandese Hidden Pink non hanno perso tempo e hanno cominciato a diffondere la notizia quanto più possibile, arricchendo la versione fornita dal museo con nuovi particolari che noi sappiamo essere presenti solo sulle scansioni rubate dal computer della direttrice Dorte. Non apriranno bocca, per non venire accusati di negligenza nell’attribuzione delle opere di un autore ad un altro. Si sono già messi in una cattiva posizione quando per tutto il tempo hanno tentato di insabbiare la faccenda e hanno ritagliato la firma di Gesabette dalla prima notizia che hanno pubblicato, prontamente cancellata stamattina.

Faccio saltare il tappo dello spumante, che vola per la stanza, facendo scappare Laika terrorizzata dal nostro chiasso e dall’oggetto volante.

I miei lividi hanno lasciato inorridita Mikaela, che è sempre più felice di aver dato le dimissioni alla SoverCarter. A detta sua, lei non sarebbe mai riuscita a sopravvivere ad un’epopea simile e quindi non vuole nemmeno rischiare di continuare a bazzicare un ambiente malato come quello in cui risiede lo spirito della SoverCarter. Mi ha proposto di far perdere anche lui, ma alla mia spiegazione di quanto sia stato difficile fare fuori Van Meyer e di quanto sia impossibile dar fuoco a tutte le proprietà e ai soldi di Soverer, ha riconosciuto che forse è meglio evitare.

Carmen si è arrabbiata alla vista del mio collo, sembrava talmente oltraggiata che pareva essere lei, ad essere stata aggredita in quella casa infestata.

Non ricordavo una giornata con così tante risate da anni. Per il pranzo si è unito anche Marko, sempre più sicuro di sé e rilassato. L’ho addirittura visto flirtare con Mikaela e Lukas ha faticato a nascondere quanto fosse inorridito dalla cosa. Ha perfino messo un po’ di peso e perso quelle borse sotto agli occhi che lo facevano sembrare un ex tossico appena uscito dalla riabilitazione.

Lukas sta molto meglio. Ho scoperto che non voleva farsi curare in Olanda perché la sua assicurazione non copriva le spese mediche all’estero. Mi sono un po’ arrabbiata quando l’ho saputo: avrei potuto pagarle io, ma mi ha liquidato con una filippica su quanto fosse importante riuscire a cavarsela da solo, senza pesare su di me. Storielle sulla virilità di cui non ho mai compreso il senso. Per fortuna è andato tutto bene.

Il medico lo ha sgridato per non essere passato prima, dicendo che la ferita avrebbe dovuto essere suturata immediatamente, e alla fine hanno rimediato mettendogli dei punti adesivi e dandogli antidolorifici e antibiotico per una settimana. Gli resterà la cicatrice, è una certezza. Abbiamo stabilito che faremo a gara a chi ne ha di più.

Nel giro di 24 ore la febbre gli era passata e gli è tornata l’energia per festeggiare.

Il tempo è passato velocemente, anche se è lunedì 22 ottobre e so che mi restano solo dieci giorni.

Quando le ragazze sono andate via, mi sono sistemata nel piccolo studio del piano superiore di casa mia, mettendo in ordine gli appunti che ho scritto nel fine settimana. Mi sono fatta coraggio e ho contattato il numero dell’ufficio di Meredith Crisby, ma ha risposto la sua segretaria. Le ho spiegato che era di estrema importanza avere una conversazione con lei quanto prima per via di un articolo di giornale che sto scrivendo per l’associazione di cui faccio parte (Nores capirà…), in cui vorrei raccontare la storia di suo padre e mi sarebbe di grande utilità un’intervista con sua figlia.

Purtroppo la Dottoressa Crisby sarà reperibile per questo solo giovedì 25, ma il fatto stesso che mi abbiano fissato un appuntamento in videochiamata di un’ora per le 10:00, ore locali 18:00, mi consola. Per allora mancheranno solo sei giorni, saranno sufficienti.

Un grande temporale si sta preannunciando con tuoni e fulmini improvvisi. Osservo il cielo dalla finestra dello studio, notando come le nuvole stiano producendo uno strano effetto ottico con il sole e il cielo sovrastante, assumendo una caratteristica colorazione blu scuro. Sento che un grande peso mi è stato tolto dalle spalle.

Buon viaggio, Gesabette.

Torno a guardare il fascicolo aperto davanti a me. Stacco la foto di Frank dal bordo superiore su cui stava allacciata grazie ad una graffetta. È l’unica che possiedo in cui la sua faccia è così ben visibile, in tutte le altre di gruppo con i commilitoni sono sfocate o troppo distanti per poterlo riconoscere senza averlo prima visto chiaramente in viso.

Somiglia a quello smilzo arrabbiato che ho visto sul treno, anche se qui è più in carne e riesco a notare connotati in comune con il suo primo aspetto, quello che apparteneva a suo padre, di cui non ho fotografie. I colori sono sbiaditi, artificiali, come se fossero stati inseriti in un secondo momento. Risale al 1965, quindi penso che la definizione dell’obbiettivo fotografico non fosse granché.

Indossa una divisa verde scuro, il cappello militare dalla visiera vera e guarda serio verso l’obbiettivo. Il suo vero nome era Francisco, ma per me resterà Frank-sempre-sulla-porta, insolente, burbero e senza pace. Fintamente misogino, terribilmente concreto.

Pensavo che la sua pelle fosse abbronzata per via del sole in Vietnam… adesso che ci penso, durante la stagione delle piogge, non credo avesse molto senso risultare abbronzati. Sua madre era messicana, ecco perché ha questa carnagione olivastra e gli occhi scuri.

“Che stai facendo?” chiede Lukas guardandomi dall’ingresso dello studio.

“Pensavo.” rispondo stancamente mettendo via la foto e i fogli all’interno del fascicolo, richiudendolo. “Ho appuntamento con Meredith giovedì alle sei di sera, fino ad allora godiamoci questo tempo libero.”

Lukas mi si è fatto più vicino, con un’espressione insolita. Sembra dubbio e… forse un pizzico di ansia? Lo osservo mentre riapre il fascicolo, alla prima pagina in cui c’è la foto di Frank.

“Avevi detto che era un cinquantenne.”

Sciolgo le gambe che tenevo incrociate sotto alla scrivania, raddrizzandomi. “All’inizio aveva questo aspetto, la seconda volta che l’ho visto sul treno era cambiato, te l’ho detto, non sembrava nemmeno lui.”

“Non avevi detto che si era tolto vent’anni di dosso.” Replica freddamente.

“Perché ti disturba? Aveva un buco nella testa grande quanto un tuo pugno, pensi veramente che la sua età fosse tra i miei pensieri?” rispondo piccata. Perché gli sto mentendo? Chiedere l’età a Frank è stata una delle prime cose che ho fatto, ma non voglio che Lukas si faccia strane idee.

Tace per un secondo, spostando gli occhi su di me, circospetto. “È successo qualcosa tra di voi, sul treno? Magari prima di tornare con me?”

Rischio di strozzarmi con la saliva. “Ma cosa ti viene in mente?! A parte che sul treno certe pulsioni non esistono, manco ci si pensa a certe cose… perché mai avrei dovuto provare attrazione per un vecchio o per un cadavere? Ascolti le domande che fai?!”

“Mmm.” Dice, allontanandosi con le spalle stranamente curve.

Guardo il fascicolo aperto per l’ultima volta prima di richiuderlo, con un senso di colpa enorme nel petto. Perché, poi? Tra me e Frank non è mai successo nulla, per davvero...

 

Il pomeriggio del 24 sono trepidante d’attesa. Non vedo l’ora di fare la telefonata a Meredith domani sera e raggiungere il mio traguardo.

Stiamo molto meglio fisicamente. È vero, il collo mi fa ancora male, ma niente che mi impedisca davvero nella vita quotidiana. Per tenere a bada la mia ansia ho pulito tutta casa e mi sono sistemata i capelli che ormai sono sempre più lunghi anche sui lati. Stavo pensando di tagliarli alla stessa lunghezza e poi lasciarli crescere uniformi: così non sono molto pratici né piacevoli alla vista. Dovrei anche tingerli. Comincio a vedere un sacco di capelli bianchi. Non mi sembrava di averne così tanti, sei mesi fa…

Non è importante, in videochiamata non si vedranno.

Sto riponendo le stoviglie del pranzo ormai asciutte nei vari cassetti della cucina, con Laika che mi osserva tranquilla dalla sua cuccetta per terra e Lukas che sta sistemando chissà qualche aggeggio sul tavolo di vetro temperato, rischiando di far sporcizia dappertutto e di scheggiarlo, quando avverto un forte capogiro.

Il cuore comincia a battermi velocemente e un senso di nausea mi attanaglia le viscere. Poggio appena in tempo un bicchiere sul banco della cucina prima di piegarmi su me stessa con il fiato accelerato e una terribile angoscia che mi invade la testa. Voci confuse, un urlo di donna straziato, la puzza della frutta marcia.

“Erika!” odo la voce di Lukas che mi chiama, ma il mio cervello non è ricettivo, credo che questo sia uno degli attacchi di panico più brutti della mia vita.

Non so per quanto tempo sono rimasta per terra, tra le braccia di Lukas, prima di rendermi conto che sono in una posizione scomposta e che mi trovo sul pavimento della mia cucina.

“Amore, cosa… a cosa serve quella cosa lì?” mi chiede Lukas, impacciato, indicando il bicchiere che ho poggiato prima sulla cucina.

Aveva imparato questo trucchetto del distrarmi durante gli attacchi di panico per farli interrompere anni fa, prima ancora della nostra rottura. Effettivamente, di norma funziona. Se ti distrai durante un attacco di panico, il cervello fa una sorta di riavvio e in qualche modo riesce a tornare a carburare un pochino. Resta però il senso di spossatezza, la nausea e lo stordimento.

Provo a rispondere alla sua domanda, un po’ biascicante, mentre mi aiuta a rialzarmi e mi accompagna fino al divano.

“Cos’è successo?” mi chiede facendomi poggiare la testa sul suo petto.

“Non lo so… credo che sia capitato qualcosa, qualcosa di terribile.” Esalo distrutta, confortata dal battito del suo cuore. “Credo che sia meglio che mi sdrai… forse dovrei fare un sonnellino.”

Restiamo per diversi minuti così, abbracciati in silenzio anche se non riesco a dormire con questo senso di angoscia residuo, finché non veniamo interrotti dalla suoneria del mio cellulare, ancora sul piano della cucina. Mi sollevo dal suo petto e lui va a prenderlo a passo spedito.

“È Mikaela…” borbotta, poi risponde. “Pronto? Cosa? Aspetta… sì, è qui… dove? Sì. Arriviamo.”

Chiude la chiamata e quando si volta e posso guardarlo in viso, vedo il suo sgomento. “Dobbiamo andare in ospedale. Se sei pronta partiamo subito.”

“Cos’è successo?” chiedo alzandomi preoccupata.

“Brianna. Ha avuto un malore.”

 

“Mika.” Dico vedendo la mia amica in lacrime davanti alle porte del pronto soccorso. Quando mi vede, singhiozza più forte e corre ad abbracciarmi. “Cos’è successo?”

Lukas ci raggiunge correndo, guardandosi attorno imbarazzato senza sapere che pesci pigliare.

“La nonna è… ha…” prova a dire, ma l’attacco di pianto è tanto forte da smorzarle le parole prima che riesca a pronunciarle.

“Su, su non fare così.” Cerco di rassicurarla, accarezzandole la schiena mentre singulta con la testa sulla mia spalla. “Con calma… prendi fiato.”

“Le avevo detto di non andare, ma lei… ci è andata lo stesso. Io non so perché l’ha fatto ma…” singhiozza staccandosi da me, mostrandomi le guance sporche di mascara e il petto le si scuote nel tentativo di fare un respiro completo. “Non era abbastanza forte e… ha avuto un infarto e…”

“È morta?” chiedo sconvolta.

“No…” Mikaela prova ad asciugarsi le lacrime con un fazzoletto bagnato che stringe in mano. “No ma… è grave. Ha chiesto di te…”

“Dove si trova?”

“In terapia intensiva… adesso è su… può vedere solo i famigliari, ma ho detto che sei mia sorella...”

“Lukas, resta qui con lei.” Ordino senza nemmeno voltarmi quando attraverso spedita le porte dell’ospedale. Salgo al terzo piano, facendo le scale come se mi stesse inseguendo il diavolo, schivando tutti gli ospiti, i malati e gli infermi che trovo sulla mia strada. Raggiungo il livello della terapia intensiva e vedo una infermiera che sta attraversando il corridoio.

“Scusi… cerco Brianna Kenneth. Sono un famigliare.”

“Di qui. Stanza 302.” Risponde indicandomi l’accesso. “Può stare dieci minuti, non di più.”

“Sì…” ansimo fiondandomi verso la stanza.

Quando entro, la piccola figura della mia anziana mentore, sdraiata sul letto d’ospedale in una stanza comune, con una tenda bianca che la separa dall’ospite a fianco e diversi tubicini che le escono dal naso e le macchine attaccate, mi chiude definitivamente lo stomaco già provato dall’attacco di panico.

“Brianna…” sussurro avvicinandomi.

Apre a fatica gli occhi stanchi. Non l’ho mai vista ridotta in questo stato, sembra avere tutta la sua età e forse ancora di più. La pelle è pallida, le labbra violacee. “Erika...?” soffia a fatica.

“Sono qui, sono io.” Le dico prendendole la mano da cui esce il tubicino della flebo.

“Sono un pessimo esempio…” dice tentando di abbozzare un sorriso. “Questo è stato… il mio canto del cigno…”

“Non dire sciocchezze, ti riprenderai e torneremo a parlare di demoni e fantasmi nella tua cucina davanti ad un the nero, mentre mi riprendi di continuo perché ho ignorato i tuoi consigli.” Provo a tirarle su il morale, sentendo le lacrime che cominciano a scorrermi sulle guance.

Emette un rantolo che ricorda una risata, quando un colpo di tosse le squassa il petto. Riprende fiato a fatica, poi continua. “Ho saputo che hai… sconfitto il tuo secondo poltergeist… uno al mese, come solo i migliori… sanno fare.”

“Perché sei andata alla SoverCarter? Non avresti mai dovuto affrontarlo da sola, mi hai sempre detto di accettare l’aiuto dagli altri…”

“Per questo… sono un pessimo esempio.” Fa un sorriso tirato. “Questa faccenda… era personale. Nessuno… può toccare chi amo.”

Provo ad asciugarmi il naso che cola con la manica della giacca, al diavolo la finezza. “Alla fine siamo più simili di quanto ti piacerebbe ammettere.” Scherzo per non cadere in un pianto a dirotto.

“L’ho sempre saputo… io ho avuto solo più tempo per… sistemare tutto.” Ansima ricambiando appena la stretta sulla mia mano. “C’è un’ultima cosa… che devi fare per me.”

“Dimmi.” La incoraggio mentre qualche lacrima sfugge al mio controllo e bagna il lenzuolo bianco che la riveste.

“Tra le cose che mi hanno preso… c’è il mio anello. Recati a mezzanotte… su un ponte che attraversa un fiume… lancialo alle tue spalle e non voltarti mai indietro.”

“Cosa hai fatto?” domando tirando su col naso.

“Lì è intrappolato quel figlio di cagna... Lancialo nell’acqua che scorre… laddove un ponte interseca un corso… d’acqua corrente. Si perderà… negli abissi.” un altro conato di tosse la fa agitare.

“Non ti sforzare. Sì, lo farò, stasera stessa. Non dubitarne, te lo prometto.” Sussurro trattenendo le lacrime mentre il mio viso si contrae per lo sforzo.

“Non nutrivo alcun dubbio…” ansima. “Quando non ci sarò più… dovrai badare tu a Mika…”

“Ti riprenderai, devi solo riposare.” Mento spudoratamente.

Sorride un’ultima volta. “Sai perché… tutti scoprono… tutto?”

Scuoto la testa in diniego.

“Perché… non sei più… capace… di mentire.”

Non riesco a trattenere più il pianto e a malapena mi accorgo della infermiera che mi si è avvicinata per chiedermi di uscire.

 

“C’è la luna piena.” Dice Lukas, guardando il cielo.

“Lo so… è probabile che sia per questo che Brianna ha deciso di agire oggi. Lei era più forte con la luna piena, io con la luna nuova.” Rispondo flebilmente, stringendo il fazzoletto che contiene l’anello ormai corrotto di Brianna.

Cammino lungo il Münsterbrücke, il ponte più antico di Zurigo, nel distretto numero uno. È illuminato da lampioni dalla luce calda e di tanto in tanto qualche auto lo attraversa. Sulla via pedonale è ancora possibile vedere qualche coppietta e dei ragazzini che camminano avvolti nelle giacche pesanti, mentre il loro fiato si trasforma in fitto vapore ogni volta che ridono e chiacchierano.

“Non parlare di lei al passato. Non è ancora morta…” dice Lukas con tono pacato, dietro di me.

“Hai ragione… non è ancora morta. Se lo fosse, niente potrebbe tenere questa merda rinchiusa qui dentro. Prima me ne libero, più alte sono le possibilità che lei possa salvarsi.” Cerco di convincermi delle mie parole mentre la mia stretta si fa più forte sul fazzoletto.

Arriviamo a metà del ponte e il vento freddo provocato dalla presenza del fiume mi scompiglia i capelli. Mi affaccio per verificare da che lato scorre l’acqua e attraverso la strada velocemente, seguita dal mio compagno, per poter avere di fronte l’acqua che viene verso di me e alle spalle quella che scorre via.

“Hai letto come si fa su quei libri inquietanti?”

“Anche… ma me l’ha confermato lei. Ha detto che era una questione personale, perché aveva toccato sua nipote. La conosco da meno di quattro mesi…” sento di nuovo le lacrime distorcermi la vista. “Non era mia nonna, allora perché sto tanto male? Come è possibile che l’abbia amata così tanto in così poco tempo?”

Lukas mi abbraccia e restiamo per qualche minuto così, l’una tra le braccia dell’altro. Mi discosto solo per controllare l’ora. Manca un minuto a mezzanotte.

Lukas fa qualche passo indietro e mi metto in posizione, con le spalle al cornicione di pietra, scoprendo i lembi del fazzoletto, ammirando alla luce del lampione per l’ultima volta l’anello ormai divorato dall’ossidazione che Brianna era solita rigirarsi tra le dita quando mi spiegava qualcosa.

“Non darai più fastidio a nessuno, dove stai andando. Sono finiti i tempi in cui rovinavi la vita delle persone con i tuoi discorsi deliranti. Non sentiremo la tua mancanza. Addio, Soverer.” Pronuncio con rabbia scagliando l’anello alle mie spalle. Sento il lieve rumore dell’anello che viene inghiottito dalle acque, ma non mi volto per controllare.

“Andiamo a casa.” Lukas alza un braccio verso di me e mi riparo contro di lui come un pulcino sotto l’ala della chioccia.

 

Faccio un nodo al foulard per coprire i lividi che ho ancora sulla gola, controllando per l’ultima volta il mio aspetto allo specchio, a qualche minuto dall’inizio dalla videochiamata con Meredith.

Stamattina sono andata a trovare Brianna. Purtroppo ha perso conoscenza ieri notte e non si è ancora svegliata. Il suo incidente è avvenuto circa 24 ore fa… dovremo attendere almeno altre 48 ore per poterla ritenere fuori pericolo di vita, ma il medico ha detto a Mikaela che il suo cuore presenta un’aritmia troppo grave per poterle dare certezze.

Andrò a trovarla ogni giorno, per infonderle quanta più energia positiva riesca a darle. Avevo in progetto di tornare sul treno per poter parlare con Frank ma preferisco donare tutte le mie forze a Brianna nella speranza che basti a farle superare il pericolo di vita. Ogni volta che le prendo la mano sento una grande stanchezza attanagliarmi gli arti e la testa comincia a dolere. In queste condizioni e senza un ambiente idoneo a farmi prestare l’energia come quello del parco di Ginevra, non riuscirò mai a tornare sul treno.

Ripensando a qualche giorno fa, mi stupisco di quanto fossi felice prima e di quanto mi sento triste adesso.

Mi siedo alla scrivania, sistemando di fronte a me la lista di domande che ho scritto sul mio block notes e gli auricolari col microfono, poi clicco sul tasto di chiamata di Skype.

I secondi di attesa sembrano infiniti e quando Meredith risponde, la sua immagine leggermente pixellata mi fa tirare un sospiro di sollievo.

“Buongiorno Signora Crisby, mi sente?” chiedo cordialmente in inglese.

“Buongiorno, sì… ora la sento.” Risponde mentre si sistema le cuffie over ear. La sua voce è profonda e professionale, appare come una donna di circa cinquant’anni abbastanza formosa, nonostante ne abbia quasi dieci in più. Indossa una camicetta azzurra e la sua pelle è più chiara di quella di Frank, anche se dallo schermo non riesco a vedere perfettamente l’incarnato. I capelli sembrano di una tonalità melanica, forse neri, stretti in una coda di cavallo alta. Gli occhi sembrano scuri, ma non posso dirlo con certezza. “Dunque…” dice mettendosi comoda.

“Io sono Monika Boden, giornalista freelance per la associazione Nuestra Voz di Barcellona. È un piacere fare la sua conoscenza, Signora Crisby.” mi presento prendendo in mano il blocco degli appunti, tentando di non impiccarmi coi fili degli auricolari mentre parlo. “Attualmente sto scrivendo un articolo per commemorare le vittime e gli eroi dei tristi eventi verificatisi a My Lai nel marzo del ’68. Ho trovato molte informazioni online e negli archivi nazionali americani. Tra tutte le figure importantissime che furono coinvolte nel massacro, in pochi parlano dei soldati americani che si opposero, perendo a loro volta. La storia di suo padre, tra tutte, è stata una di quelle che ho convenuto essere più importanti.”

“Pensavo che Nuestra Voz si occupasse più che altro di femminismo e diritti delle minoranze.” Risponde calma e diretta.

Provo a sorridere calorosamente, cercando di risponderle senza arrampicarmi sui muri. “Sono lusingata che lei ci conosca… ha forse sentito dell’ultimo caso a cui ho lavorato, su Gesabette Van Meyer?”

“Sì, ho avuto il piacere di leggere un tweet a proposito proprio ieri sera, a dire il vero. Congratulazioni.” Sorride a sua volta, chinando il capo in complimento.

“Per lo più trattiamo questi argomenti, ma Nuestra Voz si occupa di tutte le persone che non hanno avuto voce e, secondo me, Frank Howard è una di quelle che merita un encomio più di altre. Il suo atto poteva essere frainteso come alto tradimento, invece era un eroe. Nonostante ciò, non se ne parla molto.”

“Mio padre, il Capitano Francisco Howard…” mi corregge con un tono inizialmente duro e poi molto più dolce quando prosegue “… è stato solo uno dei tanti eroi americani di cui può vantare il nostro esercito. Dato che la sua carriera è finita molto presto e il grado di Capitano gli è stato concesso post mortem, penso sia normale che la sua persona non sia nota anche in Europa, dove la Guerra del Vietnam non viene ricordata per i suoi gesti di coraggio, piuttosto per i suoi crimini di guerra.”

Il fatto che io abbia chiamato suo padre col soprannome, senza onorificenze, le ha dato fastidio. Da figlia, posso capire il suo tentativo di tutelare il nome del padre. Da amica di Frank, che ho conosciuto di persona e che mi ha stretto tra le braccia più volte di quanto avrei mai dovuto permettere, non posso che storcere il naso interiormente.

“Quanti anni aveva quando lo ha visto per l’ultima volta? Cosa mi può dire di lui come persona?” leggo le prime domande sulla mia lista, dato che voglio arrivare alla parte su ciò che prova per lui abbastanza in fretta.

Lo sguardo di Meredith vaga per lo studio intorno a sé, di cui riesco a vedere solo lo sfondo bianco e un mobile scuro sfocato alle sue spalle. Si stringe le spalle. “Avevo sette anni l’ultima volta che lo incontrai. Era tornato per il primo congedo dopo aver combattuto per un anno in Vietnam. Ci tornò dopo nemmeno tre mesi, per carenza di soldati esperti. Era… era un uomo abbastanza chiuso. Era nato durante la Seconda Guerra Mondiale, stimava molto suo padre, mio nonno, che combatté per la liberazione della Francia nel 1944.”

Queste informazioni non dicono molto di lui… “Era un padre affettuoso? Un buon membro della comunità?”

Il suo sguardo si fa perplesso e dopo una piccola pausa, incrocia le braccia sul petto. “Non vorrei che l’ombra di mio padre venisse alterata da alcune considerazioni che stonerebbero con una figura genitoriale odierna. Preferirei non dire qualcosa che potrebbe metterlo in cattiva luce davanti a migliaia di lettori.”

“Oh no, non si preoccupi, non è assolutamente nostra intenzione.” Corro ai ripari. Dannazione, questa donna si chiude esattamente come lui, sarà un tratto genetico? “Vorrei solo avere qualche aggettivo per poterlo descrivere… sa, un padre premuroso, un uomo caritatevole verso i più deboli…”

Riesco a intravedere un sorrisetto divertito. Scioglie le braccia e non riesco più a scorgere le sue mani da questa prospettiva, il che rende l’interpretazione del linguaggio del corpo molto più difficile. “Mio padre… dunque. Mio padre era un uomo… responsabile. Giusto, pratico. Di poche parole. Non si perdeva in ciance inutili, non si faceva i fatti altrui. Si assumeva le proprie responsabilità, infatti mi riconobbe alla nascita e mi crebbe insieme a sua sorella, perché non era minimamente in grado di crescere una bambina da solo.”

“La riconobbe? Non era sposato? Pensavo che sua moglie fosse morta…” esclamo basita, mentre con un braccio cerco il fascicolo con il profilo del soldato.

“No, era celibe. Io nacqui fuori dal matrimonio, un rapporto occasionale, si direbbe oggi. Non ho mai conosciuto mia madre, ma suppongo di non essere stata cercata dato che voleva darmi in adozione. Lui mi prese lo stesso con sé, quindi direi che lo si possa definire responsabile.” Dice prendendo un respiro profondo.

Non era sposato… non era vedovo. Cazzo Frank, mi hai detto un sacco di stronzate… ma anche io, perché non ho cercato informazioni su sua moglie? In queste pagine non c’era scritto nulla in proposito, è vero, ma perché non ci ho pensato affatto?!

“Deve farmi altre domande?” chiede Meredith con gli occhi diretti all’obbiettivo.

“Sì… scusi. Quindi era un uomo molto riservato. Caparbio?” continuo tentando di non mostrare quanto la precedente informazione mi abbia lasciato attonita.

“Decisamente caparbio. Oserei dire ostinato come pochi. In questo senso, è stato per me fonte di grande ispirazione.” Risponde con un accenno breve.

“Eravate molto legati?” riprendo a leggere la lista.

“Io… sì, direi di sì. Chiaramente i miei ricordi sono quelli di una bambina, molti sono confusionari, ma ricordo che mi scriveva dal fronte ogni volta che ne aveva modo.” Sorride nostalgica. “Era solo un ragazzo, in fondo. Adesso che ho quasi sessant’anni, mi rendo conto che potrebbe avere l’età di mio figlio, ma era straordinariamente maturo. Sono cresciuta con mia zia e suo marito, quindi credo sia doveroso dire che siano stati più genitori di quanto lo sia stato lui. Nonostante ciò, ricordo il nostro rapporto con grande affetto. Ho conservato le sue lettere, ogni tanto mi capita di rileggerle.”

Non capisco… sta mentendo? Non mi sembra. Pare una donna genuinamente triste per la perdita del padre avvenuta ormai cinquant’anni fa. È passato tanto tempo, è normale che non pianga e abbia superato il lutto al punto tale da ricordarlo con affetto, senza disperazione.

“Vorrei farle una domanda indiscreta… non la inserirò nell’intervista. Frank, scusi, il Capitano Howard ha mai lasciato qualcosa in sospeso, qualcosa di non chiarito tra di voi?” domando leggermente assorta.

Meredith tace, guardando verso il basso, frugando nella sua memoria. “No, non credo. Non aveva lasciato nulla in sospeso, ad eccezione della mia educazione. È riuscito comunque a garantirmi un futuro con il sussidio per le famiglie dei veterani e il risarcimento per il suo sacrificio, cui ho potuto accedere alla maggiore età per pagarmi gli studi. Credo che, per il suo tempo, sia stato un buon padre. Non ho nulla da rimproverargli.”

Il mio cuore è cascato molto in basso. Dio mio, com’è possibile!? Perché è bloccato lì se non ha nulla da farsi perdonare da nessuno?!

“Aveva un buon rapporto con sua sorella Patience?” faccio un ultimo tentativo.

“Sì, la zia lo stimava molto. Erano molto legati. Lui aveva ereditato la casa come unico figlio maschio, ma non esitò a cedergliela immediatamente quando lei si sposò, affinché potessero avere una famiglia loro senza preoccuparsi di acquistare una casa. Si volevano bene e si rispettavano.”

“Grazie Signora Crisby, la sua testimonianza è molto preziosa, farò il possibile per far apparire suo padre proprio come me l’ha descritto.” Cerco di sorriderle, tirata.

Ricambia con espressione cortese. “Grazie a lei, è stato bello poterlo ricordare ancora una volta, e che le sue gesta ancora resistano dopo tanto tempo. Buona giornata.”

Chiudo la chiamata e mi slaccio gli auricolari con frustrazione. Diamine, sono in alto mare. Pensavo di esserci così vicina! Perché è ancora prigioniero? Perché la sua porta non si può… le radici. Penso sollevandomi di scatto. Non può andarsene perché non lo lasciano andare.

 

“Grazie per essere venuta...” dico aprendo la porta a Carmen.

È la sera di venerdì 26 ottobre, cinque giorni dal mio termine.

Ho chiesto consiglio a Carmen perché parlarne con Lukas mi fa sentire stranamente a disagio, diventa molto freddo quando gli parlo di Frank, come se l’argomento lo infastidisse.

Brianna non si è ancora risvegliata da un coma spontaneo che l’ha colta la notte di mercoledì. Vado a trovarla ogni giorno e le do tutta la mia energia, ma non sembra migliorare. Se supererà le prossime 24 ore, ci saranno più probabilità di salvezza per lei, sebbene non sappiamo in che stato si risveglierà. Mikaela è molto turbata e non me la sento di chiederle favori in questo momento. Io stessa sono in uno stato di ansia perenne e non so dove sbattere la testa.

Brianna ha detto che non sono più capace di mentire. Una volta sapevo mentire spudoratamente, senza remore, senza distogliere mai lo sguardo dal mio interlocutore. Il trucco era dire balle convincendosi di stare a enunciare la verità. Se ci credi perfino tu, tutti ci cascano.

Temo di aver perso questa capacità. Forse perché adesso mi faccio scrupoli, la coscienza mi attanaglia, sento di inquinare le mie energie e non ho più i nervi saldi di una volta. Però… non ho mentito quando ho detto che tra me e Frank non c’era assolutamente nulla oltre ad una amicizia. Perché dovrei sentirmi così in colpa al solo pensiero? Ma soprattutto, perché la mente mi va sempre a lui? Razionalmente so che è perché devo salvarlo, è il mio obiettivo quindi è normale essere focalizzata sulla meta. Dall’altro lato invece so che non è normale.

“Figurati… novità sulla nonna di Mika?” mi chiede accomodandosi sul divano, con la giacca sottobraccio.

“No… è ancora in coma.” Sospiro sedendomi vicino a lei, spostando il fascicolo su Frank che stavo guardando fino a poco fa.

“Dov’è Lukas?” chiede Carmen.

“Sta sistemando chissà cosa alla moto, in garage. Tra pochi giorni anche lui inaugurerà l’officina e ha tanti pensieri per la testa.” Rispondo triste.

“Cosa volevi dirmi? Riguarda l’ultimo passeggero, giusto?”

Annuisco, porgendole il fascicolo. “Sì… ho scoperto tutto sulla sua vita, ho parlato con sua figlia ed è venuto fuori che alcune informazioni su di lui erano scorrette. Insomma, pare avermi mentito su alcuni punti.”

“Tipo?”

Provo un innaturale fastidio al ripensarci. “Tipo che… non era vedovo. Non si è proprio mai sposato, la figlia è nata a causa di una scappatella.”

“Ah…” mormora Carmen, dubbiosa. “Ma sei sicura che sia lui? Non è che hai trovato un’altra persona senza volerlo? Se ci sono troppe cose differenti…”

“No, è sicuramente lui. Combacia tutta la sua vita professionale, i luoghi, le date, ad eccezione di quello che mi ha detto su di sé… come se non volesse farmi conoscere la verità sulla sua vita privata, però allo stesso tempo vorrebbe che io gliela sistemi.” Sbuffo stizzita.

“Forse si vergogna di certe cose? Non riteneva opportuno che tu sapessi cosa faceva nella sua privacy. O forse, boh… ha pensato che fosse più accettabile dire che sua moglie era morta piuttosto che ammettere di aver messo incinta la prima che passava?”

“Penso che fosse perché non riteneva la questione importante ai fini della sua redenzione agli occhi della figlia… voleva solo che le dicessi che non era morto come traditore, ma da eroe, per questo non era necessario raccontarmi i dettagli della sua vita privata, ma... io non ho fatto caso al fatto che fosse vedovo, ho tirato dritto come se fosse un dato di nessunissima importanza mentre avrebbe potuto avere molta rilevanza nel rapporto con sua figlia. Non ho proprio cercato notizie su sua moglie, nonostante ci fosse scritto bene qui, in prima pagina: bachelor, celibe. Ho depennato la donna della sua vita con un battito di ciglia.” Scrollo le spalle. “In ogni caso non ci sono ragioni perché lui stia lì, ad eccezione di quelle radici nere che ho visto strette intorno alla sua porta.”

“Ah, non mi avevi detto che era bello.” Commenta con una nota di apprezzamento osservando la foto attaccata alla prima pagina. La guardo sconvolta e lei mi ricambia stranita. “Che ho detto? Insomma, è un bel ragazzo.”

Sbuffo strofinandomi gli occhi. “Non mi aiuti così… ma non ci ho fatto nulla, anche se è vero, è carino.”

“Io non ho detto che tu ci abbia fatto qualcosa…” sorride imbarazzata, per poi assumere un’aria maliziosa. “Ci hai fatto qualcosa? Ora sì, te l’ho chiesto.”

“Oh ma dai, Carmen!” mi sbatto le mani sulle cosce, mortificata. “No, non ci farei mai nulla, sto con Lukas, lo amo, non mi sognerei mai di tradirlo!”

“Sto scherzando!” risponde ridacchiando. “Non volevo offenderti, come mai l’argomento ti urta tanto?”

Rifletto a sguardo basso prima di risponderle. “Non riesco a togliermelo dalla testa. Vorrei andare da lui, ma è impossibile… non sento di avere le forze per tornare sul treno, ci ho anche provato ma non riesco a concentrarmi. La situazione con Brianna mi ha destabilizzato.”

“È una questione complicata… lo capisco.” sospira malinconica. “Ma senti, alla fine ci hai pensato così tanto solo perché devi salvarlo ad ogni costo. L’inconscio a volte fa brutti scherzi e poi tu sai che tra te e lui non ci potrà mai essere nulla. Anche se davvero questo ragazzo ti attrae così tanto, è possibile che sia solo chimica, che so… un istinto animale che ti ha preso, niente di davvero realizzabile e lo sai bene, quindi non ti angustiare.”

“Carmen, io non voglio andarci a letto!” cerco di non alzare troppo la voce per timore che Lukas entri da un momento all’altro. “Io penso proprio a lui come persona, sento il bisogno di andare da lui, non per farci cose.”

“Non so se è meglio o peggio…” dice con una smorfia incerta. “Comunque dobbiamo tirarlo fuori, giusto? E prima se ne andrà da lì, meglio sarà per tutti, quindi cominciamo con le teorie.”

“Credo che sia lì per via delle radici sulla porta. Ricordi che ti raccontai di aver visto la porta della sua cabina costretta da quelle radici nere? La sua porta non era sigillata, al contrario di quella di Camille, Clara e Gesabette… erano le radici a bloccarla. Lui secondo me potrebbe già andarsene, ma finché quelle cose lo terranno lì, sarà prigioniero.”

“Perché lo stanno tenendo prigioniero? Non lo hanno fatto con gli altri passeggeri…” riflette Carmen, confusa.

“Non lo so! Penso che sia perché se lui non se ne va da lì, io fallirò e in qualche modo avranno vinto.” Ipotizzo toccandomi il mento con la punta delle dita.

“Perché non provare a chiudere la porta di qualcun altro? Quando andasti sul treno l’ultima volta, c’erano ancora tre passeggeri. Perché non chiudere anche le loro porte? È possibile che sia personale, che ce l’abbiano proprio con lui?” chiede Carmen.

“Può darsi… ce l’hanno con entrambi, forse. E nessuno mi aiuta più. Non ho più avuto sogni o collegamenti con le mie amiche dall’altra parte…” Mi appoggio con la schiena al divano. “Lui mi disse che riusciva a resistere ai demoni per più tempo di chiunque altro, che li aveva addirittura sfidati più volte, sentiva che c’era qualcosa che non andava e sapeva distinguere la loro voce quando gli insinuavano pensieri nella testa.”

“Era il più forte di tutti… però a questo punto perché non farlo andare via subito e levarselo di torno?”

“Forse perché temevano che mi avrebbe aiutato, come ha fatto Estela. Libero rappresentava una minaccia più grande di Clara, e lei ed Estela si sono rivelate estremamente utili, anche se adesso tacciono. Se non intervengono, è perché qualcosa glielo impedisce.” Ragiono.

Il suono del mio telefono che squilla ci distrae dalle nostre elucubrazioni. Guardo lo smartphone: è Mikaela. Sento i brividi sulle braccia quando rispondo.

“Erika…” singhiozza Mikaela, in uno stato in cui non la sentivo da giorni. Carmen si avvicina attenta per sentire. “La nonna… se n’è andata.”

 

Buongiorno fanciulli… perdonate questo fulmine a ciel sereno.

*come già descritto in precedenza, ormai oltre venti capitoli fa, la storia del Massacro di My Lai è vera, anche se chiaramente, Frank Howard è un personaggio di mia invenzione e quindi non è tra le vittime della strage.

Un capitolo molto denso, me ne rendo conto. La dipartita di Brianna è stata improvvisa e scombussolante, e io stessa mi sono commossa scrivendola, perché anche se sapevo fin dall’inizio come sarebbe andata a finire, scrivendo di lei per così tanto tempo, mi ci ero seriamente affezionata. Ho tentato di risollevare il tenore poco dopo, perché non volevo che chiudeste il capitolo con un sentore di malinconia. Non so se ci sono riuscita.

Qualcuno di voi avrà sicuramente capito qualcosa che ad Erika ancora sfugge. Nel prossimo capirete tutto su tutti e finalmente vi sarà chiarito ogni mistero.

Grazie a tutti coloro che mi hanno accompagnato fino alla fine <3 Buone feste!

Fiore di Pesco

  
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