Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    30/12/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Alla fin fine a Forlì, a quanto dice nell'altra lettera l'Antinori, si credeva che il Valentino fosse morto e avesse lasciato Faenza e Forlì alla Chiesa e Imola ai figli di Caterina su pressioni di Raffaele... Credo sia comprensibile che i forlivesi si sentano in pericolo... Se non altro perché sono stati, ai loro occhi, ceduti come merce...” scosse il capo Scipione, dopo aver riletto per una volta ancora la copia della missiva che uno dei loro informatori fiorentini aveva intercettato prima che venisse letta dalla Signoria.

Amerigo Antinori, Commissario e Capitano a Forlì per Firenze, aveva infatti riportato, in un messaggio vergato alla quattro del mattino, che i portavoce di Antonio Maria Ordelaffi avevano intenzione di muovere delle rimostranze contro la Signoria, perché avevano avuto notizia che la stessa volesse assecondare le pressioni del Cardinale Raffaele Sansoni Riario, del Cardinale Ascanio Sforza, e del Duca d'Urbino, Guidobaldo Maria da Montefeltro, che volevano restaurare Caterina Sforza in Romagna. Amerigo, però, si era difeso ribadendo che lui per primo aveva sconsigliato la Signoria in tal senso, sottolineando come i forlivesi 'più presto si darano nonché a veniziani, al diavolo, che mettersi in casa madonna co ssua figliuoli'.

Quelle rassicurazioni erano servite a poco, e sembrava che i forlivesi, alla fin fine, non si fidassero né dell'Ordelaffi, né di Venezia, né di Firenze e tanto meno della Tigre. Alla fine il loro candidato, però, era una sorta di unione di tante fazioni, ossia un fratellastro dell'Ordelaffi, vicino al Conte di Pitigliano, agli ordini dei veneziani, ma non del tutto ostile a Firenze.

Fortunati incrociò le braccia sul petto e sospirò: “A mio avviso, sarebbe solo una fortuna se dessero Imola e Forlì a qualcun altro in pianta stabile. Almeno lei smetterebbe di pensarci e i suoi nervi ne gioverebbero...”

Galeazzo, che aveva appena finito di vegliare la madre, che quella mattina sembrava sfebbrata, ma era ancora incosciente, entrò nella saletta in cui il piovano e Scipione stavano discutendo da quasi un'ora. Trovandoli entrambi cupi e visibilmente fermi su due posizioni diverse, preferì non domandare il motivo del loro improvviso silenzio, limitandosi a far presente che con la madre al momento c'era la balia di Pier Maria, e le stava dando un po' della sua pozione a base di miele per farle guarire più in fretta. Non era facile idratarla e sfamarla facendole cadere qualche goccia di quel composto tra le labbra, ma c'erano poche alternative, finché non si fosse risvegliata.

“Allora vado a dare una mano...” si svincolò in fretta Francesco: “Se la balia volesse anche cambiarla per rinfrescarla, potrei essere utile...”

Rimasti soli Scipione e Galeazzo, dopo un breve momento di stallo, il primo suggerì: “Non vedo Bernardino da stamattina presto. Forse sarebbe meglio cercarlo.”

“Continua a cacciarsi in qualche guaio...” sospirò l'altro: “Ci basterà aspettare che qualche cuoca esca gridando dalle cucine o che lo stalliere venga a lamentarsi di un cavallo mancante...”

“Ma penso che sia con Giovannino...” aggiunse Scipione.

“Credevo fosse con Sforzino...” ribatté Galeazzo.

“C'era, ma poi si è stancato... Sai anche tu com'è Sforzino... Si mette a leggere e non si ricorda nemmeno più che con lui c'è qualcuno.” fece il fratellastro: “All'inizio mi ero fermato io, a farlo giocare, ma poi il piovano mi ha chiamato qui per discutere di queste cose e...”

Galeazzo fece due respiri molto profondi. Giovannino coi suoi cinque anni e mezzo era il complice perfetto di Bernardino, che aveva otto anni più di lui. Pendeva dalle sue labbra e lo chiamava con affetto 'Carlo' così come il Feo pretendeva ormai da tutti tranne che alla madre e ai fratelli maggiori.

Il problema non era il legame sempre più stretto che stavano creando, ma il fatto che Bernardino fosse irrequieto e il Medici fosse una sorta di spugna, pronto ad assorbirne gli umori e, soprattutto, a impararne le intemperanze.

Il fatto che fossero insieme chissà dove, a fare chissà cosa, era preoccupante, specie essendo la madre inferma e incapace di rimetterli in riga entrambi. Prima che si cacciassero in qualche disastro, Galeazzo si sentì in dovere di andare a cercarli per vigilare su di loro.

Dopo aver vagato per quasi tutta la villa e aver fatto un salto anche alle stalle, il Riario si risolse a cercare nel bosco, premurandosi di stare il più vicino possibile al suo limitare. Dubitava che Bernardino conoscesse abbastanza quell'intrico incolto per potersi addentrare più di tanto: anche se era un ragazzino agitato, non era uno sciocco e non avrebbe messo in pericolo l'amato fratellino solo per allontanarsi più di quanto gli fosse lecitamente permesso.

Il giovane stava per perdere ogni speranza e, malgrado il freddo di quel giorno, iniziava a sudare profusamente, sempre più nervoso all'idea di non sapere dove fossero i fratelli.

Appoggiandosi un momento a un tronco, si voltò per controllare che la villa fosse ancora ben in vista e poi si spostò ancora per qualche passo verso il folto della vegetazione, rischiando di restare impigliato in un cespuglio. Solo dopo un altro po' finalmente sentì una voce che gli era molto familiare, ossia quella del Feo, che incitava Giovannino a tenere la guardia più alta.

Stringendo le labbra per il disappunto, il Riario iniziò a camminare più svelto, chiedendosi perché mai avessero dovuto allontanarsi tanto per fare pratica di scherma, dato che non era più vietato, per loro, da che Lorenzo Medici era morto, farsi vedere dai servi con le armi finte.

“Vi stavamo cercando!” esclamò Galeazzo, appena intravide i due fratelli.

Bernardino si voltò subito verso di lui, e, fermando con un gesto della mano il fendente di Giovannino, rispose: “Come mai? È successo qualcosa..?”

“No, ma dovete venire tutti e due più vicini alla villa. Non va bene che stiate qui. Se succedesse davvero qualcosa, come faremmo a trovarvi?” ribatté il Riario, detestando il proprio tono rigido, ma sentendosi in dovere di svolgere un ruolo quasi paterno per gli altri due, che erano entrambi più giovani di lui.

Senza opporre troppe obiezioni, sia il Feo sia il Medici lo seguirono fin fuori dal limitare del bosco e accettarono di continuare i loro esercizi giusto accanto alle stalle, in modo da poter essere comunque all'aria aperta, ma visibili in caso di bisogno.

“Posso parlarti un momento?” chiese a quel punto Galeazzo, prima che Bernardino ricominciasse a tirare di scherma con il più piccolo.

Giovannino, vedendo che i due fratelli maggiori non lo calcolavano più, chiese, candido: “Posso correre..?”

“Sì, ma resta dove possiamo vederti.” rispose il Riario, con tono pacato, chinandosi appena verso di lui.

Prima ancora che la raccomandazione finisse, il Medici era schizzato via come una scheggia e si era messo a correre tra l'erba e la ghiaia, seguendo una linea tutta a curve che esisteva solo nella sua fantasia.

“Che c'è?” domandò allora il Feo, stringendo il morso e guardando lontano: “Nostra madre sta morendo?”

Galeazzo scosse il capo: “No, anzi... Secondo il medico potrebbe riprendersi. Basta che superi questo momento...”

Gli occhi intelligenti di Bernardino si stavano facendo più rossi e sembrava che una lieve coltre di lacrime volesse offuscarli, e quando infine parlò la sua voce uscì molto più roca di quanto non volesse: “Speriamo che abbia ragione. Non sarebbe giusto se proprio adesso...”

Il Riario capiva cosa il fratello intendesse. La loro madre aveva passato momenti tremendi, era scampata alla morte in guerra, in prigionia e partorendo otto figli. Non sarebbe stato né giusto né onorevole per una donna straordinaria come lei morire in un modo tanto banale e proprio quando stava per ritrovare un po' di stabilità e speranza.

“In ogni caso – sospirò Galeazzo, prima che il dubbio tornasse a travolgere anche lui facendolo temere concretamente per la vita della Tigre – cerca di non cacciarti in altri guai, in questi giorni, per favore... Quando nostra madre si risveglierà, non voglio doverle dire che il suo figlio prediletto ha combinato qualche disastro...”

Il Feo sollevò l'angolo della bocca, mentre seguiva con lo sguardo Giovannino che, sudato e ansante, continuava a correre come un pazzo: “Lo sappiamo tutti che il preferito sei tu. Seguito solo da Giovannino.”

“Sai che non è così.” il tono del Riario si era fatto abbastanza serio da portare l'altro a guardarlo in volto: “Nostra madre amava tuo padre come non ha mai amato nessun altro. È naturale che quindi preferisca te tra tutti i suoi figli.”

Bernardino, a quelle parole, tacque. Il suo bel viso, sempre più un insieme inscindibile delle bellezze della madre e del padre, era attraversato da un'espressione pensierosa e cupa. In momenti come quello, a Galeazzo sembrava che il suo fratellino fosse molto più adulto dei suoi tredici anni non ancora compiuti. Era come se, rispetto a lui, sapesse molto più cose del mondo e della vita e forse era davvero così...

“Giovannino prima mi ha chiesto perché noi tre abbiamo tre cognomi diversi.” sussurrò il Feo, tornando a fissare il più piccolo che, stanco di correre, si era seduto sull'erba umida a riprendere fiato.

“E tu cosa gli hai risposto?” indagò il Riario, pensando in anticipo che, quale che fosse stata la risposta, non doveva aver traumatizzato il Medici, visto quanto era allegro.

“Gli ho spiegato che nostra madre ha amato molti uomini, ma soprattutto ha avuto tre mariti e che ciascuno di noi è nato da un marito diverso, ma che restiamo fratelli in tutto e per tutto perché è il sangue sforzesco di nostra madre quello che conta. La sua linea di discendenza è talmente forte e antica e valorosa che nessun'altra può soppiantarla. Anche se abbiamo tre cognomi diversi, restiamo tutti e tre figli della Leonessa di Romagna e nipoti del Duca di Milano Galeazzo Maria Sforza.”

“E lui come ha reagito?” fece Galeazzo, trovando la trattazione del fratello molto interessante.

“Sembrava felice.” sorrise Bernardino, recuperando in buona parte il suo consueto atteggiamento spavaldo: “Gli piacciono i racconti che parlano dei nostri nonni e dei nostri bisnonni... Gli piace pensarsi uno Sforza.”

“Sei stato bravo.” ammise il Riario, allacciando le mani dietro la schiena: “Quando avrai figli tuoi, saprai come crescerli bene.”

“Lo spero.” annuì il Feo: “Tu, piuttosto, pensi che farai mai un figlio o..?”

Quella domanda scomoda, che implicava ben altro rispetto a una curiosità sulle possibili qualità da genitore del Riario, fece arrossire subito Galeazzo, ma riuscì a non rispondere perché dalla villa stava arrivando correndo come una furia Creobola.

“Che succede?” chiese il ragazzo, sentendo il cuore in gola.

“Vostra madre!” gridò la strana serva, arrivando fino a loro e piegandosi sulle ginocchia per riprendere fiato, mentre anche Giovannino correva verso di loro, preoccupato: “Vostra madre! Si è svegliata! S'è svegliata e chiede del suo Galeazzo!”

“Che ti dicevo? Sei tu il preferito...” sorrise, con un filo di amarezza, Bernardino, guardando il Riario e chiamando poi a sé il Medici: “Vieni Giovannino, andiamo in casa anche noi. Appena nostra madre avrà parlato con nostro fratello, andremo anche noi da lei...”

 

Ottaviano si stava mordendo l'unghia del pollice da almeno dieci minuti, indeciso se scrivere o meno a suo fratello Cesare. Ormai non lo vedeva da tempo e anche se lo aveva contattato per messaggio qualche volta, iniziava a provare nei suoi confronti una strana reverenza.

Anche se aveva un anno meno di lui, era come se Cesare fosse molto più adulto di lui e, forse per via della sua carica apostolica o forse per la gravità con cui esprimeva anche i concetti più banali, gli dava sempre l'impressione di essere uno di quegli uomini messi a parte di verità molto più grandi di quelle rivelate ai comuni mortali.

La stanza in cui Ottaviano era alloggiato, era grande, ma a suo avviso un po' spoglia, rispetto al resto del palazzo. I Bentivoglio erano stati gentili con lui e sua cugina Ippolita aveva cercato quella sistemazione in riguardo, aveva detto, all'affetto che provava per tutti loro e che si era rinfrancato conoscendo Galeazzo qualche tempo addietro.

Alzandosi di scatto dalla scrivania e iniziando a vagare per la camera, il Riario pensò quasi con rancore che se suo fratello era stato così abile da ingraziarsi Ippolita, suddetta Ippolita avrebbe anche potuto cercargli un alloggio più stimolante. Il vecchio padrone di casa non offriva quasi mai diversivi o feste e anzi brontolava quando Ottaviano portava in stanza qualche donna, facendolo sentire al limite dell'indesiderato.

Come se non bastasse, aveva chiesto da qualche giorno dei soldi a sua madre, ma la Tigre non si era nemmeno degnata di rispondere. Aveva provato a rivolgersi a Cesare – motivo per cui era di nuovo in forse se scrivergli o meno – pregandolo di intercedere per lui, domandando alla madre di inviare denaro per poter finanziare, ovviamente, le sue mosse diplomatiche atte a favorire il ritorno della loro famiglia in Romagna. Il fratello aveva risposto che l'avrebbe fatto, ma non aveva dato tempistiche.

Preso dallo sconforto, il ventiquattrenne andò alla scarsella, che teneva appesa all'inginocchiatoio assieme al mantello e al giubbone e ne controllò il contenuto. Le poche monete che ancora aveva gli sarebbero bastate giusto giusto per tre o quattro giorni, a meno che non avesse rinunciato a trovarsi compagnia per notte o, in alternativa, che l'avesse cercata laddove non gli sarebbe costata nulla o quasi, magari tra le serve della casa o facendosi offrire una notte al bordello da qualche tirapiedi dei Bentivoglio...

Grattandosi la testa, scompigliando la chioma scura che gli ricadeva ancora sulle spalle in lunghe ciocche inanellate come era sempre stato, il Riario si rimise alla scrivania e decise di tentare il tutto e per tutto provando a sollecitare Cesare, ma facendolo in un modo che sembrasse quasi casuale.

Scritta l'intestazione, Ottaviano fece un profondo sospiro e, cercando di usare la sua grafia migliore, iniziò prendendo il discorso alla lunga: 'Questa serrà solum per advisare V. S. como qui a lo Ill.mo Sig.re messer Ioanni Bentivoglio è venuta la staffecta con lettere come el Valentino è stato prexe vituperosamente dalla Santità di nostro Signore et sachezatoli la caxa per mane de Orsini et Collonexi et non scio se V. S. ha hauta la tal nuova'.

Il Riario rilesse un paio di volte e pensò che far cenno a quella novità – anche se ormai era verosimile che lo si sapesse in tutta Italia – fosse un buon modo per far sembrare che fosse quello il motivo per cui aveva scritto e non per altro.

'Prego V. S. voglia tenere bene disposta questa Ill.ma S.a et la S. del Gonfaloniere ricomandandomeli che non mi voglia abandonare et farce quello ce hanno promesso: preterae prego anco V. S. mi voglia mandare quanto più presto si può quelli denari ordenasseme insieme, e non state più perchè importa grandemente – Ottaviano fece un lungo sospiro e poi intingendo la punta della penna nell'inchiostro continuò – che le cose comenzerano havere bon fine, et astrengerasse talmente che V. S. se ne maravierà. Per questa non acade dire altro ad V. S. continuo me racomando.'

Il Riario si schiarì la voce e provò a leggere quell'ultima parte immaginandosi di essere Cesare. Lui forse era l'unico, tra i suoi fratelli, che potesse credergli davvero, quando prometteva grandi risultati per la loro famiglia. Bianca, nel leggere quella lettera, avrebbe sollevato le sopracciglia, con uno dei suoi sorrisi fintamente educati, facendo come se non avesse parlato nessuno. Galeazzo l'avrebbe fissato con disappunto e poi si sarebbe offerto per prendere il suo posto nelle trattative, forte della predilezione che la madre provava per lui. Sforzino non avrebbe nemmeno sollevato lo sguardo dai suoi tomi... E Giovannino era semplicemente troppo piccolo.

La mente di Ottaviano fu attraversata dall'immagine di Bernardino, ma il volto di quello sgradevole ragazzino svanì subito. Per quanto lo riguardava, il figlio dello stalliere non era suo fratello, ma solo la prova vivente dell'iniquità della Tigre di Forlì.

Massaggiandosi le tempie, il giovane controllò la caraffa che aveva sulla scrivania, e trattenne a stento un moto di rabbia trovandola vuota. Non ricordava di aver finito il vino, la sera prima, ma evidentemente in realtà ne aveva bevuto così tanto da non serbarne memoria.

Rilesse ancora una volta il messaggio e alla fine concluse con un secco: 'In Bollogna adi 18 di Ottob. 1503' e firmò.

Quando uscì dalla sua stanza, si rese conto che era molto più presto di quanto credesse. Forse era stato lo stomaco in subbuglio a farlo svegliare tanto presto...

Cercò un servo che potesse spedire la sua lettera, e poi ordinò che gli venisse portata una caraffa bella colma di vino in stanza.

“Non credo che il mio signore voglia che già a quest'ora vi si porti del vino, messere...” provò a opporsi il domestico, ma il Riario non era dell'umore giusto per accettare un rifiuto.

“Sono imparentato coi Bentivoglio, signori di Bologna. Mi basta un soffio per farti appendere per il collo in piazza.” sibilò: “Adesso portami il vino e non fare tante storie...”

Fiero di se stesso e di quel coraggio spicciolo che a tratti sapeva tirar fuori, Ottaviano gonfiò il petto e tornò sui suoi passi, sicuro che quella nullità del servo che aveva osato provare a negargli da bere non avrebbe più opporgli alcun rifiuto.

 

Quel 18 ottobre aveva colto Roma di sorpresa. Fin dalle primissime luci dell'alba – per non dire quando ancora era notte – si erano inseguite chiacchiere e congetture, viziate però dalla naturale tendenza vaticana a storpiare le informazioni. Perfino l'Oratore veneziano, quando aveva saputo, dal Cardinale di Napoli, che i fratelli del papa avevano ammesso che Pio III aveva reso l'anima a Dio, in principio ci aveva creduto solo a metà.

A togliere ogni dubbio anche ai più scettici, però, era arrivata la convocazione della congregazione di porporati, chiamati a provvedere alle esequie del pontefice e alla guardia del Sacro Collegio.

Forse perché Pio III non si era mai più davvero ripreso dopo il malore di una settimana prima o forse perché era spirato nella notte, quasi di nascosto, all'inizio per l'Urbe era calato un clima strano, surreale.

Anche la congregazione di alti prelati era attonita per quella morte non improvvisa, ma nemmeno davvero attesa. Quando i fratelli del defunto papa si presentarono per raccomandare al Collegio di tener presente una bolla redatta da Pio III – a loro dire – giusto prima di morire, con la quale faceva Cardinale l'Arcivescovo di Siena, suo nipote, i Cardinali tutti fecero orecchie da mercante, quasi che la volontà del Piccolomini, per la brevità del suo regno, non fosse da rispettare.

In effetti, comunque, di rispetto Roma tutta ne stava dimostrando poco. C'erano già in giro per la città scritte e lazzi di ogni genere e quello che era meno denigratorio, anzi, quasi affettuoso, recitava letteralmente: 'Vixit Alexander crudelis multos ad annos, at pius ad nullos. Quid iuvat esse pium?'.

E se il popolo si divertiva a inventarsi poeta per commemorare in modo a tratti esecrabile il dipartito Pio III, l'unica cosa che interessava a tutti in Vaticano, in quel momento, era progettare dei riti funebri che coprissero almeno nove giorni, in modo da avere il tempo di accordarsi in vista del prossimo Conclave. Una volta isolati dal mondo, sarebbe stato molto più difficile per alcuni – come il Cardinale Della Rovere – esporre le proprie proposte in modo convincente.

Proprio quando i porporati si erano accordati sul fatto che nove giorni, non uno di più non uno di meno, fossero sufficienti per onorare Pio III e, soprattutto, per ultimare i loro maneggi, arrivò in congregazione Bartolomeo d'Alviano.

Il condottiero era stato restio ad accettare, quando gli Orsini gli avevano chiesto di fare da portavoce della loro famiglia presso gli alti prelati, ma non aveva potuto esimersi. Anche se la sua lingua era lenta e impedita dalla vecchia ferita e anche se parlare in pubblico lo metteva più in agitazione che non dare la carica in battaglia, sapeva che sarebbe stato più ascoltato lui di un Orsini qualsiasi.

Bartolomeo aveva la nomina di essere un uomo retto e dai grandi valori, e anche se il suo mestiere era quello della spada e lo svolgeva previo pagamento, la sua voce sarebbe risultata comunque più sincera di quella di un romano qualsiasi.

In effetti, nel momento stesso in cui entrò nel salone, sia per gli abiti da guerra che indossava, sia perché tutti sapevano che i suoi uomini cingevano ancora d'assedio Castel Sant'Angelo per impedire la fuga al Valentino, calò il silenzio e tutti attesero che fosse lui a parlare per primo.

“A nome di tutta la Casa...” cominciò, sillabando lentamente per non inciampare nelle parole, ma alzando la voce e aggrappandosi all'elmo che portava sotto al braccio come fosse una scialuppa che potesse salvarlo dall'imbarazzo di avere così tanti occhi puntati addosso: “Domando che sia provvisto in modo che il Duca non possa fuggirsene dal Castello, ma che stia lì sequestrato usque ad electionem futuri Ponitificis.”

Quell'ultimo inciso in latino era voluto e andò davvero a colpire anche le corde dei Cardinali più restii a dargli retta. Siccome nessuno prendeva la parola per contraddirlo né per altro motivo, l'Alviano si sentì in dovere di concludere il suo discorso.

Deglutendo un paio di volte, riprese a parlare, sempre lentamente, ma in modo tonante: “Dal nuovo papa pretendiamo domandar ragione contro di lui, contro il Duca.”

“Lo farete.” ribatté subito Giuliano Della Rovere che non avrebbe sperato di meglio: “Così sarà, vero fratelli?”

Chi più convintamente, chi più timidamente, tutti i presenti alla fine si dissero favorevoli a quella disposizione, perfino i Cardinali che parteggiavano ancora segretamente per il Valentino. Questi ultimi, però, avendo paura e nutrendo sospetto nei confronti degli Orsini e, soprattutto, dell'Alviano, che era più focoso degli altri, cominciarono a lamentarsi a gran voce dell'Oratore spagnolo che, nell'accordarsi con gli Orsini, non aveva pensato alla sicurezza di Roma e di tutti loro.

Ovviamente la loro massima preoccupazione riguardava la loro stessa sicurezza, dato che se il Duca fosse stato davvero accusato e condannato per qualcosa da un nuovo papa, loro che ne erano stati partigiani avrebbero rischiato di fare la medesima fine. Essendo loro tutti spagnoli, ma avendo appoggiato al passato Conclave il candidato del Valentino, e quindi sentendosi con lui compromessi, si trovavano tra due fuochi e la loro paura rischiava di far tremare il Vaticano intero.

Non c'era niente di più pericoloso, anche secondo il Cardinale Sansoni Riario, di un uomo preda della paura.

Così, mentre tutti ancora si accapigliavano per la questione stringente del Borja, il porporato si fece strada tra gli altri religiosi, con discrezione, fino a raggiungere la grossa schiena del Cardinale Della Rovere.

Fece girare Giuliano dandogli un piccolo colpetto sul braccio e poi, trovandolo disposto ad ascoltare, gli sussurrò quanto doveva all'orecchio.

Il parente si accigliò per un lunghissimo istante e poi, con aria severa, annuì una volta soltanto e, quando tornò a parlare coi Cardinali che gli stavano attorno, il tono dei suoi discorsi era completamente cambiato. Nella sua idea, sarebbero stati i giorni a venire, quelli delle esequie, a essere fondamentali per far convergere su di sé tutti i voti del Conclave, ma Raffaele aveva proposto una strategia diversa, all'apparenza più gentile, ma in realtà molto più aggressiva.

Si doveva parlare di voti e prezzi quel giorno stesso, quella sera, quella notte e poi evitare l'argomento durante i funerali, come se si trattasse davvero di un'occasione troppo luttuosa e solenne per far uscire dalle proprie labbra altro che non fossero preghiere.

Alla fine della giornata, mentre ci si accordava sul cerimoniale da seguire per il funerale dello sfortunato Pio III, Giuliano sentiva di avere in tasca la vittoria. Anche se, avendo paura che quasi dieci giorni di lutto avrebbero fatto scordare a qualcuno le promesse fatte, un po' si stava già pentendo di essere stato tra quelli che avevano fatto pressioni per estendere di due giorni la durata delle esequie, inizialmente fissata a una settimana.

Fino all'ultimo, dunque, era suo interesse macinare consensi con l'aiuto, ottenuto istantaneamente, di Ascanio Sforza, che si era convinto che il loro obiettivo, in fondo, fosse molto simile, e con quello del Sansoni Riario, che stava letteralmente ubriacando di parole chiunque gli si avvicinasse.

Arrivata la sera, era palese che la maggior parte dei prossimi partecipanti al Conclave avrebbero votato per il Della Rovere, perfino quelli che all'inizio erano sembrati più scettici.

“Abbiamo discusso tra noi e... Dunque, se proprio ve la sentite di prendere questo fardello... E se noi possiamo sentircela di aiutarvi a prenderlo...” disse a un certo punto, a voce molto bassa, il Cardinale Bernardino López de Carvajal, un po' a nome di tutti quei Cardinali spagnoli invischiati nell'appoggio del Valentino: “Allora...”

Giuliano, che stava capendo in quel preciso istante come quei dodici porporati potessero essere comprati più facilmente di tanti altri promettendo anche solo l'oblio delle loro passate tendenze borgiane, sorrise con sincera gioia: “Fratello mio in Cristo, si tratta di un ben grande fardello, ma per il bene della Cristianità tutta, mi presterò con tutto me stesso al martirio che il pontificato comporta...”

 

Caterina aveva trattenuto accanto a sé Galeazzo per ore, facendosi spiegare punto a punto tutte le novità che si era persa nei lunghi giorni di incoscienza, e, malgrado fosse ancora molto debole per la febbre da poco passata, aveva voluto approfondire tutte le notizie arrivate dalla Romagna, da Roma e perfino dall'Emilia.

Il Riario aveva saputo risponderle a tono pressoché a tutto, dato che era stato attento a ogni minima lettera arrivata alla villa in quei giorni, ma aveva preferito restare il più possibile vago sulla nuova alleanza nata tra il loro prezioso cugino Raffaele e Guidobaldo Maria da Montefeltro.

La Tigre, però, con gli occhi ancora un po' lucidi, mentre si lasciava convincere dal figlio a bere un po' di latte e miele, non aveva lasciato cadere l'argomento, cercando di informarsi il più possibile su quell'inatteso risvolto. Il Montefeltro, spiegò allora Galeazzo, si era alleato anche al Pandolfaccio, sperando che se lo avesse aiutato a riprendere Rimini, poi sarebbe stato a sua volta supportato nella riconquista di Urbino. Le ultime brevi scritte da Pio III, però, parevano aver fatto molto più danno del previsto: in Romagna – e non solo – molti facinorosi stavano recedendo dai loro propositi, pensando che il pontefice, in fondo, fosse dalla parte del Valentino e temendo, dunque, di incorrere in grandi rischi, continuando a combattere contro i fedeli del Borja.

“Ma il papa è molto malato – concluse il ragazzo, sostenendo con delicatezza il capo della madre per aiutarla a finire il calice – e se morisse, tutto verrebbe rimesso in forse... Credo che per il momento ci convenga attendere.”

Caterina si morse le labbra secche e fece un paio di respiri profondi. I suoi abiti erano umidi di sudore e le faceva male la testa, ma aveva il terrore di ripiombare nell'incoscienza in cui era stata imprigionata fino a poche ore prima. Vedeva che fuori cominciava a far buio, ma aveva intenzione di rimandare il più possibile il sonno.

“Ne parleremo meglio domani...” sussurrò, non trovando la forza di dire che fosse dipeso solo da lei non avrebbe aspettato un bel niente: “Comunque, perdonami se ti ho trattenuto qui tutto il giorno, ma tu sei l'unico di cui possa fidarmi veramente. So che, tra tutti, tu sei l'unico che non mi mentirebbe mai...”

Quelle parole, appena soffiate, resero orgoglioso Galeazzo, che, allargando ben bene le spalle, ribatté: “Sono qui per servirvi, madre.”

La Leonessa fece un debole sorriso e fu tentata di chiedere al figlio di far entrare Creobola, per aiutarla a cambiarsi e rinfrescarsi, ma sapeva che c'era qualcosa di molto più importante che andava fatto prima. La sua storia personale le aveva insegnato, a volte con risvolti tragici, quanto fosse importante non dare ai propri figli l'impressione di essere trascurati.

“Adesso, per favore, fai entrare il mio bambino... Voglio stare un po' con lui.” disse piano la donna.

“Anche Bernardino ha voglia di vedervi...” provò a dire Galeazzo, sapendo quanto il vedersi preferire anche Giovannino avrebbe pesato sull'animo sensibile del Feo: “Mentre eravate indisposta, non trovava pace...”

Il Riario non comprese l'espressione dura che attraversò il volto provato della madre, né si spiegò la lunga esitazione che le impedì di parlare per quasi due minuti. Era sicuro che la Tigre amasse Bernardino moltissimo, sia perché era suo figlio, ma soprattutto perché era il figlio nato dal suo amore con Giacomo Feo. Dunque, perché a tratti sembrava volerlo evitare?

“No.” concluse alla fine la Sforza, con tono duro, guardando altrove: “Prima voglio vedere Giovannino.”

Capendo che non avrebbe avuto senso insistere, il Riario annuì e la salutò per andare a chiamare il piccolo Medici. Lo trovò appena fuori dalla porta, mano per mano a Fortunati, che, era evidente, aveva atteso in zona per tutto il tempo o quasi.

Galeazzo riferì il desiderio della madre e il piovano accettò di buon grado che il bambino entrasse in stanza da solo. Francesco aveva ancora gli occhi rossi e un sorriso incredulo in viso. Il pianto colmo di gioia in cui era scoppiato quando Caterina si era risvegliata, forse, era tornato a scuoterlo due o tre volte nell'arco della giornata, lasciandogli quell'aria festosa e mesta allo stesso tempo.

“Dov'è Carlo?” domandò il Riario, sforzandosi di usare il nome che suo fratello preferiva.

Fortunati sollevò le sopracciglia e scosse il capo: “Non lo vedo da un po'... All'inizio ha atteso qui fuori, ma poi se n'è andato senza dire nulla.”

Galeazzo, un po' preoccupato, cominciò a battere palmo a palmo la villa, un po' come aveva fatto anche quella mattina, ma questa volta non dovette andare fino nel bosco per rintracciare il fratello minore.

Il Feo era seduto sui gradini di una delle scale di servizio, i gomiti piantati nelle ginocchia e lo sguardo distante, quasi annoiato. Le sclere rosse e le palpebre gonfie lasciavano intendere che, probabilmente, si fosse abbandonato a qualche momento di pianto, ma per il resto sembrava più pensieroso che altro. Quando si accorse dell'arrivo del Riario, gli dedicò un breve cenno di saluto, ma non disse nulla, non chiese nemmeno come stesse la madre.

“Ti stavo cercando...” fece Galeazzo, mettendosi in piedi dinnanzi a lui: “Nostra madre ti vorrà vedere a breve...”

“Ha preferito vedere prima Giovannino, non è vero?” chiese Bernardino, con un tono tagliente.

“Non devi esserne geloso... Lui è più piccolo, e...” provò a dire il maggiore.

“Non sono geloso di lui.” la voce del Feo lasciava intendere che quello che stava dicendo fosse vero: “Solo...” deglutì un paio di volte e rimase in silenzio.

Galeazzo attese con pazienza. Aveva visto una lacrima affiorare tra le ciglia lunghe del ragazzino e non voleva forzarlo a parlare, se ciò avesse potuto portarlo a piangere.

Fu Bernardino a decidere quando riprendere il discorso: “Solo speravo che volesse vedere subito anche me.” si alzò, con fare sbrigativo, come se agire in modo burbero lo aiutasse a controllare la voce e il rossore che, comunque, gli stava imporporando le guance: “A volte penso che se io non fossi mai nato, sarebbe stato più semplice per tutti, anche per mio padre...”

“Ma che dici...” sussurrò il Riario, allibito da quell'uscita inattesa.

Il Feo scosse il capo e provò a parlare di nuovo, ma stavolta le parole gli morirono in gola e le lacrime tornarono a bagnargli le guance, e così, per sottrarsi alla vista di Galeazzo, che, per impedirgli di scappare, volendolo in qualche modo consolare, provò ad afferrarlo per il braccio.

Agile come un'anguilla, il ragazzino gli sfuggì e corse via tanto rapido da far passare al fratello ogni voglia di rincorrerlo.

Il Riario, quindi, rimase immobile, accanto alla scala, fissando il punto in cui il Feo era sparito. Si chiese dove si sarebbe andato a nascondere per poter piangere in santa pace, ma non si rispose. Non aveva alcuna intenzione di andarlo a disturbare.

A passi lenti, con lo sguardo basso e la mano allacciate dietro la schiena, Galeazzo tornò verso la stanza della madre, pensando che fosse meglio essere lì, quando la donna avrebbe chiesto di Bernardino, per poter trovare una scusa per la sua assenza.

Tuttavia, congedato Giovannino e incontrato Sforzino, Scipione e perfino frate Lauro, passò la sera, si arrivò alla notte e la Tigre chiese che fosse Fortunati a restare in camera a vegliarla, senza nemmeno citare il Feo.

Non trovando altro da fare, Galeazzo passò dalle cucine e mangiò qualcosa, stando in piedi, e poi andò in camera per dormire qualche ora, ma anche quando si coricò, la sua mente continuava a lambiccarsi solo su una cosa.

Non erano le guerre, la politica, o gli intrighi italiani a tenerlo sveglio: era la perplessità, che gli era rimasta incollata addosso come resina, scatenata dall'atteggiamento avuto dalla madre nei confronti di Bernardino. Era vero, da piccolo l'aveva fatto crescere fuori dalla rocca fino alla morte di Giacomo Feo, ma l'aveva fatto solo per motivi di sicurezza... Tuttavia, pur avendo dei momenti di evidente preferenza nei suoi confronti, era vero, ripensando a tutto, che spesso e volentieri sembrava volerlo evitare.

Qual era il motivo? Lo evitava perché, in fondo, anche quel figlio non era stato davvero voluto? A Galeazzo non sembrava possibile...

Lo evitava perché, come aveva detto lo stesso Bernardino, se non fosse mai nato forse sarebbe stato più semplice orchestrare ogni cosa e tenere al sicuro Giacomo, sottraendolo almeno in parte alla gelosia malata di Ottaviano? Un fondo di verità poteva esserci...

Lo evitava perché in lui rivedeva troppo il fantasma di Giacomo e quindi soffriva più di quanto potesse esprimere, nel pensare a ciò che aveva perso? Forse...

Oppure in Bernardino rivedeva se stessa più che in tutti gli altri figli e proprio quel confronto diretto era per lei difficile da gestire? Non era un'idea così campata per aria...

Tra un sospiro e un nuovo interrogativo, il Riario passò il resto della notte insonne, cercando di capire quella strana creatura che era sua madre, e solo quando il sole si affacciò timidamente all'alba del 19 ottobre, Galeazzo giunse alla conclusione che, verosimilmente, sua madre faticava a cercare un contatto diretto con Bernardino, specie quando si sentiva più vulnerabile, per un insieme confuso e tragico di tutti i motivi che aveva rintracciato nella sua lunga disamina.

Mentre si alzava, il dettaglio che più lo rattristò, fu comunque rendersi conto che suo fratello Bernardino aveva compreso forse da anni quello che lui aveva più o meno capito solo in quel momento.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas