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Autore: Glenda    01/01/2024    4 recensioni
In un mondo in cui la magia è rara e con un grande peso politico, ed i maghi figure temute e inquietanti, Heze, un giovane viaggiatore dal cuore limpido e il carattere solare, viene ingaggiato da uno di loro perché lo accompagni fino alla capitale a consegnare un messaggio segreto. Ma la persona con cui si trova ad affrontare questa avventura è completamente diversa dalle aspettative che si era costruito: svagato, onesto, gentile e smaccatamente vulnerabile, Yèlveran diventa per Heze un mistero da svelare, e finisce per legarsi a lui al punto di farsi trascinare in un complotto che potrebbe costare la vita a entrambi...
Storia di avventura con una componente politica, ma principalmente focalizzata sulla relazione tra i personaggi (a cui sono affezionatissima e dei quali ho volentieri indugiato nel descrivere i pensieri). Un bel po' di bromance e molto drama.
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Heze si era abituato alla compagnia di quel Persuasore così diverso dai pochi che aveva visto e dai molti di cui aveva sentito raccontare: aveva imparato a vedere oltre la sua estraniata introversione, a cogliere le sue espressioni di entusiasmo sotterranee, le tenui manifestazioni di gioia e le innumerevoli ma quasi impercettibili alterazioni dello sguardo che erano la sola parte visibile di un mondo interiore precluso agli altri. Ma il modo in cui si relazionava con la piccola Fortuna trasformava quei segnali in autentica comunicazione; da quando si erano accampati attorno al fuoco, si era intrattenuto con lei con un’affabilità che era inconsueta per entrambi: per lui che evitava volentieri la vicinanza, e per lei, che diffidava degli estranei.

Si erano fermati per la notte in uno spiazzo ai margini della strada, affacciato su un bel campo in piena fioritura: se il tempo era buono, la Carovana dei Folli preferiva dormire sul carro invece che nei rifugi dei viaggiatori, ma a due passi c’era un capanno atto a quell’uso se loro due avessero preferito dormire sotto un tetto.

Era stato il suo compagno in persona a sorprenderlo accettando di accamparsi con loro, nonostante la rigidità che assumeva di fronte alle avances di Pagliaccio.

Mentre gli attori bivaccavano e schiamazzavano, ogni tanto improvvisando qualche numero, Fortuna si era accoccolata sulle sue gambe e gli stava mostrando giochi di abilità con le pedine. Ogni tanto le sussurrava qualcosa che la faceva ridere e, qualcuna di quelle volte, rideva anche lui. Era talmente difficile vederlo ridere: sorrideva spesso – per posa o per gentilezza, più che per manifestare un’emozione – ma che ridesse di cuore era un evento raro. Eppure, le poche volte che lo faceva, lo trovava di una bellezza disarmante: non c’era da stupirsi che avesse fatto perdere la testa a Pagliaccio in meno di mezza giornata.

“Da quanto tempo viaggiate insieme?”

Innamorata stava distesa accanto a lui, masticando un filo d’erba.

“Un paio di settimane.”

“Sei molto protettivo, per conoscerlo da così poco!”

“Sono la sua guida: è mio compito che il suo viaggio sia sicuro e mi piacerebbe che fosse anche gradevole.”

Ma non era solo quello, Innamorata aveva la vista lunga. Nonostante avesse avanzato mille riserve sull’assumersi la responsabilità di altri, gli ci era voluto pochissimo tempo per prendersi a cuore lui: all’inizio ne era solo rimasto affascinato, poi, però, la fascinazione aveva ceduto il posto a sentimenti diversi. Era un Mago: uno di quegli esseri spaventosi che potevano piegare la realtà alle proprie leggi, aveva influenza, intelligenza, cultura… e però si svegliava terrorizzato nel cuore della notte, si negava il diritto a lasciarsi andare e gli aveva detto soffro di essere me.

Sì, era protettivo perché quell’uomo aveva bisogno di essere protetto, anche se gli taceva da che cosa.

“Perché ti rivolgi a lui in modo così… boh… come se parlassi con uno molto importante?”

Heze pensò che se le avesse risposto con sincerità le avrebbe riso in faccia. Grande Mago invece forse ci avrebbe creduto e poi si sarebbe sentito artisticamente mortificato perché la sua parodia del personaggio non rispecchiava nemmeno da lontano quel Persuasore lì.

“Mi ha dato lavoro e mi… beh, mi paga parecchio.”

“Aaaah! È uno ricco, allora! Di che famiglia? Proprietari di terre? Esercito? Usurai?” gli lanciò un occhiata in tralice e ridacchiò “Chissà quanto è disgustato di viaggiare su questa carovana pulciosa!”

“Ti sei fatta un’idea sbagliata.” negò prontamente “Lui non… non è per niente uno con la puzza sotto il naso. E non guarda mai la gente di sotto in su. È molto umile. Gentile.”

Innamorata lo scrutò con aria ambigua.

“Ci vai a letto?”

Heze sgranò gli occhi.

“Che cazzo dici?”

Lei diede in una risatina seducente.

“Beh? Cos’è quella faccia? Nel caso, non sono mica gelosa!” si sollevò a sedere e gli passò le braccia intorno alla schiena “E comunque è carino, e se piace a Fortuna deve essere anche onesto. Mpf, un ricco onesto, pensa tu! Ma Fortuna non fallisce mai nel fiutare le persone che vogliono fregarci.”

Heze non credeva alla virtù fatata che i Folli attribuivano alla loro piccola mascotte, ma era anche vero che quella bambina era incredibilmente intuitiva: del resto, chi nasce con uno svantaggio deve sviluppare le attitudini necessarie a sopravvivere.

“Non ci vado a letto.” ribadì.

Innamorata fece spallucce.

“Allora potresti smetterla di fissarlo e rivolgere le tue attenzioni a qualcun altro. Oggi siamo vivi e domani non lo sappiamo.” le sue labbra gli sfiorarono il collo “Restiamo svegli, stanotte.”

Ma sì, perché no. Tanto finiva tutte le volte così.

Lui le piaceva, lei gli piaceva: ogni tanto le loro strade si incrociavano, facevano sesso, si scambiavano un po’ di tenerezza da serbare per i momenti bui e poi riprendevano ciascuno il proprio cammino senza promettersi niente.

L’amore dei randagi era fatto di questo, e a volte era una cosa bellissima, altre gli lasciava addosso una struggente nostalgia. Nostalgia di casa: nostalgia di un desiderio di ritorno.

I pastori eshkarti, nelle lunghe notti di solitudine, cantavano la lontananza.

Ma lui non era lontano da niente: non aveva una terra che sentiva propria, non aveva una famiglia, non aveva affetti profondi, non aveva più nemmeno un passato. Poteva cantare solo il non appartenere e il non ritornare.

 

Fortuna si era addormentata e Yèlveran era rimasto immobile con la testa di lei sulle ginocchia, incapace di spostarla da lì. Il fuoco scoppiettava ancora, ma alcuni degli attori si erano già ritirati sul carro a dormire, Grande Mago strimpellava un motivo dolce su uno strano strumento a corde e Innamorato stava improvvisando un monologo strappalacrime ad una Innamorata assente.

“Non credo tu voglia restare fermo come una statua tutta la notte, o domattina avrai la schiena rotta!” gli disse Pagliaccio, chinandosi su di lui e prendendo la figlia in braccio.

“Non volevo svegliarla…”

“Se si sveglia, si riaddormenta.” fece lei, sbrigativa, e la caricò sul carro, balzando poi di nuovo giù con un aggraziato salto acrobatico “Non è il tipo di bambina che fa i capricci, altrimenti non sarebbe durata un anno con una stronza come me!”

Yèlveran si sgranchì le gambe e si portò le ginocchia al petto.

“Da piccoli non si può scegliere. Si deve durare per forza.”

“Ehi, signor galanteria, quando una donna ti dice sono brutta, sono stupida o, come nel caso in questione, sono stronza, un uomo deve rispondere…” gli afferrò la mano e sfoderò due occhioni languidi “ma no, cara! Cosa dici mai!”

Yèlveran diede in una mezza risata, ma al tempo stesso si sottrasse al contatto.

“Ridi, eh? Per forza: i luoghi comuni fanno ridere sempre! Ridiamo perché in quel momento pensiamo a quante volte abbiamo visto quegli atteggiamenti negli altri e ci sentiamo più intelligenti… ma in realtà siamo tutti ugualmente imbecilli, e l’attore lo sa!”

Lui la guardò con stupore.

“Che c’è? Non mi facevi tanto acuta, eh?” proseguì la ragazza.

“La verità? Mi sei sembrata così…”

“Pazza? Esibizionista? Un’oca cretina?”

“No. Più…” scosse la testa “dammi un attimo: ho il concetto ma non la parola.”

“Ecco perché te la intendi con mia figlia! Lei ha sempre i concetti: non è scema come sua madre…”

“Mm.”

“Eh no, non ci siamo! Cosa ti ho appena detto che si deve fare quando una donna si denigra…?”

Lui abbassò lo sguardo.

“È che tu mi sembri… mi sei sembrata… vuota.” disse “Mi è sembrato che cercassi l’attenzione con degli strumenti che poi però non ti danno il tipo di attenzione che vorresti. Mi è sembrato che la tua risata fosse solo un paravento. Mi è sembrato che non fossi felice. Ma nemmeno infelice. Mi è sembrato che dietro alla maschera non ci fosse niente.

Pagliaccio si spinse vicinissima a lui e gli sollevò il mento con le dita.

“Cazzo, biondino…quanto alle arti della cortesia sei meno di uno zero, ma non posso dire di non sentirmi guardata.”

“Scusami.”

“Oh, con due occhi come quelli, ti scuso tutte le volte che vuoi.”

“Ora stai di nuovo mettendo la maschera, però…”

Pagliaccio abbozzò un sorriso malinconico, e fece scivolare la mano sotto la sua camicia.

“Fai l’amore con me.”

“Adesso sembri triste.”

“Fai l’amore con me e me ne dimenticherò…”

Quella vicinanza era proprio troppa. Il miscuglio di emozioni che gli arrivava da lei era troppo. La dita che accarezzavano il suo petto e facevano rabbrividire la sua pelle erano troppo. Ed era troppo quel desiderio di dimenticare, l’urgenza di quella donna di annullarsi, di diventare solo corpo, solo materia.

“Penso… di non potere.”

Lei avvicinò le labbra al suo orecchio.

“Che scemenza…”

Lui si ritrasse, e fermò la sua mano con un gesto incerto.

“Dimenticarsi… di sé… Io non lo posso fare.”

Pagliaccio lo guardò per un attimo con espressione seria, poi diede di nuovo in una risata chiassosa.

“Questa è la prima volta che un uomo mi rifiuta, sai? Ma porca puttana, il tuo modo è così assurdo che non c’è verso nemmeno di offendersi!”

 

Pagliaccio non capiva come mai stesse raccontando i fatti propri a quello sconosciuto e soprattutto come mai trovasse tanto liberatorio farlo. Solo i Folli conoscevano la sua storia, e lei sapeva che, al di fuori dalla compagnia, il mondo era capace unicamente di giudicare e di puntare il dito. Ma lui era piaciuto a Fortuna, e questo doveva pur voler dire qualcosa…

“… Quando ho cominciato a mendicare ero una bambina: facevo giochetti e acrobazie agli angoli delle strade o nelle piazze in cambio di cibo, ma non sempre funzionava, anzi, se il giorno era quello sbagliato, e capitava che ci fosse una qualche celebrazione o venisse in visita in città qualche persona importante, accadeva anche di prendersi una manciata di legnate. Passai presto al furto, era più redditizio e paradossalmente meno rischioso. Sono sempre stata agile e la gente al mercato è distratta, almeno finché non viene derubata la prima volta. Poi un giorno venni beccata e l’uomo che mi prese mi disse che non mi avrebbe fatto niente di male se io fossi andata a letto con lui. Ci andai, e fu meglio rispetto ad essere riempita di botte. A Ponte al Lungo c’è un intero mercato di vecchi rimbecilliti che pagano fior di quattrini per le ragazzine, sai? O per i ragazzini, non fa molta differenza, purché diano l’impressione di essere ancora puri ed ingenui. Deve essere stato così che ho imparato a recitare. Mi è andata bene per un po’, poi sono rimasta incinta. A dirla tutta non sapevo neppure come funzionava, avevo tredici, quattordici anni, che ne so… mi sono resa conto di aspettare un figlio quando ha cominciato a crescermi la pancia. Ho tenuto la bambina perché non avevo scelta: per abortire non avevo i soldi e poi avevo una paura fottuta di morire… Per carità, oggi sono felice che sia andata così, mia figlia è una delle cose migliori che io abbia combinato nella vita, ma a quel tempo la maledicevo in continuazione. In quelle condizioni nessuno mi voleva, di rubare non ero in grado, ero pesante, impacciata, non sapevo come sopravvivere… un casino, insomma. Ricominciai a mendicare e fare giocoleria… fu così che incontrai Grande Mago. Oggi immagino che mi offrì un lavoro per pietà, ma a me disse che aveva visto in sogno che una neonata avrebbe benedetto la carovana: è per questo che l’abbiamo chiamata Fortuna.”

Reclinò la testa sulla sua spalla e lui la lasciò fare, anzi, per una volta le passò un braccio dietro la schiena affinché potesse appoggiarsi meglio. Le piaceva il suo modo di ascoltare: era diverso da qualsiasi forma di attenzione che avesse mai ricevuto, era assolutamente presente ma assolutamente disinteressato, non si aspettava niente di più di quel racconto, e così il racconto le usciva fuori autentico e ripulito. Non doveva ottenere nulla da lui, non gli doveva dimostrare niente.

“Fortuna non ha mai imparato a parlare. Il perché non si sa: forse non ne è in grado… o magari non vuole. Se non vuole, non sta a me pretenderlo. Va bene così.”

Lui sorrise.

“Hai detto una cosa molto bella.”

“Davvero?”

“Sì.”

Lo trovava incantevole: sembrava perso chissà dove e al tempo stesso riusciva a rimanere così presente.

“Mia figlia è molto diversa da me. Tiene le distanze, ha paura di tutti.”

“No, la paura sei tu che ce l’hai. Lei diffida.”

“Da dove ti viene una simile stronzata, saputello?”

“Mm. Dal fatto che tu cerchi di annullare subito le distanze. Che hai una prossemica un po’… emh… aggressiva. È un modo per mettere in chiaro chi ha il potere nella relazione, ed è anche quella una forma di difesa. Fortuna è più cauta: vede te affrontare il mondo di petto senza darti il tempo di prendergli le misure, così le prende lei per entrambe.”

Pagliaccio allungò una mano sulla sua testa e gli scompigliò i capelli.

“Uhuh! Dette da te queste grandissime puttanate sembrano quasi avere senso!”

Lui abbozzò un sorriso.

“E tu, invece…?” incalzò lei “Com’è che non bevi, non fumi e non scopi? È una roba religiosa?”

Nel dirlo, estrasse dalla tasca un sacchetto di tela e prese ad arrotolare erba celeste in una foglia.

“Mm… no. È che mi sono vietate cose che mi facciano perdere il controllo su me stesso… Il sesso rientra nella categoria, credo…”

“Credi…?” Pagliaccio scoppiò a ridere per l’ennesima volta poi accese l’estremità della foglia sulle braci del fuoco e inspirò profondamente.

“Comunque non sai cosa ti perdi…”

“Lo dice anche Heze.”

Il profumo dolciastro dell’erba celeste si diffuse nell’aria.

“Quindi cosa fai per renderti la vita piacevole?”

“Non ci ho mai pensato, credo…”

“Questa è la più epica tra le cazzate che hai detto.”

“Perché?”

“Perché è naturale che un essere umano viva cercando di ottenere il massimo del bene!”

Lui contrasse appena le sopracciglia, lasciando vagare lo sguardo nel buio della notte.

“O cercando di fare il minimo del male…” mormorò.

 

Giunsero a Capovalle nel vivo di un pomeriggio di festa, con le strade affollate per il passaggio della processione, decorazioni alle finestre e sulle porte delle case, bancarelle che offrivano cibarie e musicisti che suonavano gli inni della Purificazione: in quel giorno si celebrava la cacciata dalla città degli spiriti maligni emersi della Frattura, un rito che, in una forma o in un’altra, si ritrovava quasi in ogni centro abitato; persino a Villanuova, in inverno, il feticcio di paglia della Maledizione veniva bruciato e calato nel pozzo, così gli aveva raccontato Garlan.

Yèlveran per una volta era contento di trovarsi sul carro degli attori, con Fortuna sulle ginocchia, Pagliaccio aggrappata al suo braccio da un lato e Capitan Spavento che quasi lo schiacciava dall’altro: così non avrebbe dovuto camminare in mezzo ad una folla di sconosciuti.

“Odore di nuvolotte!” esclamò Heze, fiutando l’aria, e, scavalcando un paio di attori, raggiunse il fondo del carro e saltò giù, per ritornare poco dopo con un cestino colmo di frittelle fumanti che allungò verso Yèlveran con un sorriso raggiante.

“Dovete assolutamente assaggiarle: è il dolce delle feste, qui. In realtà è un cibo molto semplice, acqua, farina e pezzi di frutta essiccata, ma nell’impasto ci sono i semi di xuro, perciò fuori dalla Valle del Lungo nessuno riesce a farle uguali.”

Fortuna non lo fece finire di parlare che si cacciò una frittella in bocca.

Yèlveran sorrise.

“Grazie…” disse.

“Viaggiare significa anche scoprire come la gente mangia!” sentenziò Heze.

“Perbacco, quanta saggezza!” lo derise Pagliaccio.

Yèlveran intanto masticava lentamente il dolce e si sentiva grato: grato del fatto che quel ragazzo premuroso desiderasse fargli apprezzare il senso del viaggio, grato della benevolenza degli attori nei suoi confronti, grato dei giorni di tempo recuperati e grato che tutto stesse andando bene.

“Allora, è buono?”

“Tanto.”

Heze sorrise.

“Come mi piacete quando usate questa parola!”

Quella parola piaceva anche a lui, se era associata a cose innocue come una frittella di frutta, e Yèlveran avrebbe desiderato circondarsi di cose innocue a migliaia. Avrebbe voluto una vita costruita su meravigliose e insignificanti piccolezze. Ma era la sua stessa identità a non permetterglielo, e Luxei aveva dovuto educarlo in modo che non lo dimenticasse.

Eppure, quei momenti di spensieratezza gli erano preziosi.

La sera, dopo che la processione mascherata ebbe finito di sfilare, la piazza fu ceduta alla Carovana dei Folli per l’esibizione. Yèlveran non aveva mai visto tanta gente tutta insieme: la cacofonia di voci lo mandava in ansia e tutto quel movimento e quei colori gli annebbiavano gli occhi; tuttavia, quando Grande Mago saltò su uno sgabello e tuonò sopra la folla il suo “Signore e signori”, un silenzio di attesa scese piano piano. Era uno di quei silenzi che gli piacevano, un silenzio-pagina-bianca.

Poi iniziò lo spettacolo, e la pagina bianca si riempì di cose: Innamorato con i suoi monologhi sdilinquenti, le scenate di gelosia di Innamorata, i pasticci di Pagliaccio, le escandescenze di Giudice e tutta quella gente che rideva e rideva, come se non ci fosse niente altro di cui preoccuparsi, quella sera… Quando Heze cantò, prima nel modo in cui lo aveva sentito fare sul Valico del Vento, poi insieme a Innamorata, accompagnato dallo strumento a corde di Grande Mago, Yèlveran si accorse di avere la testa completamente confusa e avvertiva all’altezza dello stomaco sensazioni che non riconosceva. Eppure, non aveva accettato di bere niente, non aveva respirato l’erba celeste di cui si era intossicata Pagliaccio prima di andare in scena, aveva solo guardato e ascoltato. Guardato e ascoltato. E gli pareva che se avesse continuato a farlo, poi avrebbe voluto non fare più nient’altro che quello.

 

Heze si arrampicò sul carro, dove il suo compagno si era rintanato mentre i Folli raccoglievano le offerte e si prendevano gli applausi.

“Ecco dove eravate finito… Ad un tratto non vi ho visto più e mi sono preoccupato!”

Lui fece spallucce e tirò fuori un sorriso smarrito.

“Non devi preoccuparti. Non stiamo scalando i Monti di Vetro.”

Aveva ragione, eppure a volte gli sembrava più in difficoltà in mezzo agli uomini che davanti al neshpa.

“Che ci fate rimpiattato qua dentro?”

“Mm…” si stropicciò la fronte con quell’espressione da non-sto-trovando-le-parole-giuste che Heze ormai conosceva bene.

“Non vi è piaciuto lo spettacolo?”

Lui scrollò la testa.

“Al contrario. Mi è… piaciuto tanto. E la tua canzone mi è piaciuta tanto tanto. Solo che… Le cose che mi piacciono devono piacermi una alla volta… sennò mi si confonde la testa e…” si portò le mani a coprirsi gli occhi, come per proteggersi da qualcosa “Non lo so. Non sono capace di vivere come fate voi. Le… sensazioni… Le devo capire una per una, perché altrimenti…”

“Perché altrimenti avete paura di non avere tutto sotto controllo.” completò Heze, con un sorriso prosaico.

“Mm.”

Heze lo prese per i polsi e allontanò le sue mani dal viso.

“Statemi a sentire: l’essere contenti, o eccitati, o euforici non implica per forza non essere controllati. Se vi hanno insegnato qualcosa del genere, o c’è stato un vostro fraintendimento o – perdonatemi – sono i vostri maestri che non capiscono nulla. Quando si prova un’emozione forte, come ad esempio l’amore, ma anche la paura, è ovvio che non possiamo avere il controllo assoluto di tutto, perché il cuore vuole dire la sua e il resto del corpo pure: però possiamo averlo abbastanza. Lo faccio continuamente io, che non ho nemmeno particolare attitudine alla moderazione: figuriamoci se non ci riuscite voi che siete allenato! Non dovete prendere tutto in maniera assoluta.

“Lo dice anche…” esitò, nascondendo un nome nei suoi pensieri “il mio addestratore preferito.”

“Ecco, per fortuna! Quindi adesso, prima che tutti si domandino che fine abbiamo fatto, venite a godervi il dopo-spettacolo, che è il momento più importante per qualunque compagnia che si rispetti!”

Gli fece cenno di seguirlo e spostò il telo che copriva il retro del carro, aprendo uno spiraglio sulla piazza dove Pagliaccio stava eseguendo una serie di numeri acrobatici mentre gli altri mettevano in ordine gli oggetti di scena.

“Heze,” lo richiamò lui, che non si era ancora mosso dalla sua posizione “ci sono tante cose che vorrei spiegarti e che non posso. Ma ti sono grato delle attenzioni che hai per me. Credo di non avere gli strumenti per ripagarti abbastanza.

Heze si voltò a guardarlo: che cos’era quella tristezza profonda, adesso? E come mai era piombata addosso anche a lui?

“Oh, accidenti!” esclamò “Ripagate condividendo una bella giornata con me, ad esempio! Voi avete diritto di essere felice. Ma, oltre al diritto, ne avete il dovere. Cominciate a guardare la felicità come un dovere, se questo vi aiuta: dovere verso quelli che in questo preciso istante stanno soffrendo e dovere verso i morti. Non è il mondo a rendere felici noi, siamo noi a rendere felice il mondo e ogni volta che non ci proviamo, ci stiamo tirando indietro dalla battaglia più cruciale dell’umanità.”

L’altro era rimasto immobile con gli occhi spalancati su di lui.

Poi annuì con incredibile convinzione.

“Va bene.” disse “Ho capito.” e saltò giù dal carrozzone.

 

 

*** A tutti coloro che mi leggono, ho voluto postare oggi perché AMO il titolo di questo capitolo, e sento davvero mie le parole di Heze: quando nulla ci rende attivamente infelici, abbiamo il dovere di impegnarci per essere felici e trasmettere felicità, proprio per rispetto di tutti coloro che non possono. BUON 2024. ***

  
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