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Autore: Zobeyde    04/01/2024    2 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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 IL VUOTO
– Prima parte –

 

 
The patron saint of heartache
Can’t see the world is falling
My world is falling down

 
-Byronic man, Cradle of Filth & Ville Valo

 
 


Come Solomon aveva previsto, il coinvolgimento di doña Madragana nell’attentato al museo non ebbe effetti particolarmente gravi sugli Ascanor. Alvaro e Tristan convinsero il Decanato di aver risolto la cosa in famiglia, e i dieci saggi stregoni, che non avevano mai nutrito reale interesse per le sorti di quella buffonata di museo sulla scienza, non fecero una piega nel mettere da parte l’intera faccenda.
L’unica conseguenza davvero significativa fu l’inaspettata partenza della matrona degli Ascanor, insieme al marito malato:
«So che ne discutevano da tempo» aveva spiegato Melkisedek, quando i figli pretesero di sapere da lui che fine avessero fatto i genitori, visto che al cigarral nessuno li vedeva da giorni. «Sebastian voleva rivedere la Spagna prima di morire, e vostra madre ha espresso il desiderio di trascorrere insieme a lui gli ultimi momenti, lontano da Arcanta.»
«Toccante» era stato l’aspro commento di Isabel alla notizia. «E tipico della mamma, direi: perché affrontare le conseguenze delle proprie azioni, quando si può optare per un’elegante uscita di scena?»
Alvaro e Tristan l’avevano persuasa a riappacificarsi con la madre, alla fine, ma Isabel covava ancora parecchio risentimento per quanto accaduto. Se non altro, però, il Cerchio d’Oro era stato costretto ad approvare la riapertura del museo, il che aveva contribuito a tirarle su il morale nei giorni a venire.
«Le ragazze sono al settimo cielo!» esclamò raggiante, dopo aver raggiunto Solomon nell’armeria della Corte dei Sofisti venerdì mattina, per la loro prima lezione di difesa. «E i tuoi studenti sono stati così carini a offrirsi di riportare tutte le mie attrezzature al museo!» (Solomon di questo era sicuro, visto che aveva minacciato di trasformarli tutti in fenicotteri se si fossero sottratti)
«Visto? Non tutti i mali vengono per nuocere» approvò lui, sorridendo. «Hai più avuto notizie di tua madre?»
L’entusiasmo di Isabel si smorzò un po’. «Mi ha scritto che lei e papà si sono trasferiti in un castello fuori Toledo. Dice che è un posto incantevole, con vigneti, mulini a vento, campi di girasole…» Mentre parlava, aveva iniziato a camminare per la stanza, passando in rassegna la varietà di armi affisse alle pareti di acciaio spazzolato, spade, daghe, alabarde, fruste, mazze e archi. «Almeno, papà potrà godersi quel poco che gli rimane in un paradiso autentico, e non in mezzo alle illusioni.»
«E tu?» chiese Solomon, con prudenza. «Tu come stai?»
La risposta di Isabel fu una risata fiacca. «Come credi che stia? Mia madre ha preferito autoimporsi l’esilio nel Mondo Esterno piuttosto che vedermi gestire un laboratorio di alchimia!»
«Forse lo ha fatto per lasciarti spazio» replicò Solomon.
«Forse» concesse lei. «O forse è solo troppo vigliacca per ammettere i propri errori.»
«Lo siamo tutti a volte.»
Isabel sganciò una grossa ascia dalla parete, facendola poi ruotare con maestria, e Solomon intuì che aveva fretta di cambiare argomento. Oppure di sfogarsi con la violenza bruta. Oppure, perché no, entrambe le cose.
«Be’, iniziamo la lezione? Io ho già scelto la mia arma.»
Lo stregone scosse la testa e la affiancò. «E hai già commesso il primo errore: mai dare per scontato che l’arma più grossa faccia più danni.»
«Ti assicuro che un colpo di questa ne fa eccome di danni. Boris dice…»
«Boris ha delle evidenti carenze da compensare» replicò Solomon, prendendo l’arma dalle sue mani e riponendola al proprio posto. «Se gli piacciono così tanto le grosse asce.»
Avvampando, Isabel cercò di mascherare l’imbarazzo con un colpetto di tosse. «Tu quale arma avresti scelto?»
«Io ne avrei già un paio addosso. Ma il mio avversario se ne accorgerebbe quando è troppo tardi.»
Ruotò il polso in un unico, sciolto scatto, e sotto l’orlo della manica scintillò una lama d’argento, sottile come uno spillo.
«Oh» fece Isabel, colpita. «Quel che si dice “avere un asso nella manica”.»
Solomon estrasse lo stilo. «Un movimento rapido e silenzioso per una morte rapida e silenziosa. E poi, si abbina ai gemelli.»
«Certo» replicò lei, ironica. «Essere eleganti è prioritario in un duello.»
«Accortezza e moda hanno più cose in comune di quanto si pensi» disse Solomon. «Entrambe si basano sul compiere le scelte appropriate. Per esempio…»
Prima che lei potesse protestare, si avvicinò per infilare lo spillo d’argento nel suo chignon. Solo poi si ricordò di cosa gli aveva acceso dentro l’ultima volta che aveva accorciato le distanze tra loro. Rispetto all’altra sera, fortunatamente, niente fuochi d’artificio, solo un leggero formicolio lungo la spina dorsale. «Ecco, così dovrebbe svolgere il suo lavoro.»
Isabel si tastò l’acconciatura. «Vuoi che lo tenga io?»
«Ne possiedo a volontà. Ben nascosti, nei punti più impensabili.»
«Lo devo prendere come un regalo?»
«Ero indeciso tra questo e un collier di diamanti» sorrise lui. «Ma ho pensato che le armi letali ti donassero di più.»
Finalmente, riuscì a strapparle una vera risata. «Bello sapere che un uomo che ho incontrato pochi mesi fa conosca i miei gusti meglio della mia famiglia.»
«È raro che le famiglie ci conoscano per davvero» replicò Solomon, e dopo un momento aggiunse: «Spesso è meglio che sia così. Meno mostriamo di noi, minore è il rischio che le persone che abbiamo intorno ci feriscano.»
Isabel lo guardò, il divertimento che svaniva lentamente dal suo viso. «È per questo che hai deciso di tenere lontano tuo padre? A parte quella volta al matrimonio, non mi pare di averlo mai visto ad Arcanta.»
«È un cocciuto aristocratico di campagna» rispose Solomon. «Arcanta è troppo caotica per i suoi standard. E poi, qui non avrebbe niente a cui dare la caccia, a parte i dodo...»
«Ho sentito delle storie sul suo conto.»
«Che tipo di storie?»
Isabel si strinse nelle spalle. «Mio padre diceva che i Blake hanno sempre avuto difficoltà a integrarsi nella società magica, malgrado vantassero un’antica discendenza. Divergenze di opinioni con il Decanato, almeno secondo lui.»
«Chiamiamole così» rispose Solomon, evasivo. «Mio padre ha sempre avuto le proprie idee riguardo la magia. E sottostare a regole imposte da altri non gli è mai andato a genio.»
«Nemmeno a te» intuì Isabel. «Anche se sei più bravo di lui a fingere.»
Lui aggrottò le sopracciglia, e Isabel disse: «Me ne sono accorta, sai? Anche quando facevi tutti quei discorsi sullo stare al proprio posto, sull’importanza di mantenere il profilo basso… hai dovuto imparare a scendere a compromessi, ma ti costa sempre farlo. Riesco a leggertelo negli occhi, ogni volta che nomini il Decanato: vedo la rabbia che ti brucia dentro.»
Solomon contrasse impercettibilmente la mascella. L’acume di quella donna spesso lo preoccupava. «È così. Ho dovuto imparare l’arte del compromesso, della pazienza, e che il non agire spesso è la via più efficace per innescare il cambiamento.»
«Allora avevo ragione io» disse Isabel, con l’accenno di un sorriso. «Anche tu vuoi che le cose cambino in questa città. Solo, mi piacerebbe comprendere le tue motivazioni.»
«Hai visto di cosa è stata capace Arcanta col tuo laboratorio. Non ti basta come motivazione?»
«Quella del laboratorio era la mia battaglia» obiettò Isabel. «E ti sono grata per avermi sostenuta. Ma quali sono i tuoi obiettivi, Solomon? Tu per cosa combatti?»
La domanda lo spiazzò. Ci aveva riflettuto a lungo, ci aveva riflettuto per anni, domandandosi se la strada che aveva scelto di seguire fosse quella giusta, se tutto ciò che aveva costruito – reputazione, conoscenze, potere – avrebbe prima o poi saziato la fame vorace che lo inseguiva da sempre, ovunque andasse, qualunque traguardo raggiungesse, o se almeno le avrebbe dato un qualche sollievo. Per cosa lottava? Quale motivazione lo aveva spinto scalare le vette di quella società che così tanto disprezzava?
«Molto tempo fa, una persona a me molto cara subì un torto a causa di questa città. E io giurai che non avrei avuto pace finché non avessi trovato il modo di dargli giustizia.»
«Di chi si trattava?»
«Di mio fratello.»
«Non sapevo che ne avessi uno.»
Ecco, adesso avrebbe fatto comodo a Solomon un buon pretesto per cambiare argomento. O per sguainare un’ascia.
«Ti va di bere qualcosa?» propose invece, senza riflettere. «Un Martini, magari?»
«Ecco» fece Isabel, colta alla sprovvista. «Sono solo le nove del mattino...»
«Oh, sono certo che da qualche parte nel mondo sia un ottimo momento per un Martini.»
Perplessa, Isabel si fece guidare verso un salotto adiacente all’armeria. «Ehm, e la lezione?»
«Hai imparato a sufficienza per oggi» disse Solomon con la massima nonchalance, facendo scorrere un pannello di legno tra due librerie e rivelando l’armadietto dei liquori. Proprio come le armi, anche quelli erano ben nascosti nei posti più impensabili della Corte dei Sofisti.  «È il momento della ricreazione!»
Malgrado dovesse trovare la situazione alquanto insolita, Isabel decise di assecondarlo e si accomodò sul bordo di un sofà. Solomon, intanto, miscelò tre quarti di gin e un quarto di vermouth dry, e filtrò il tutto in due bicchieri a coppa. «Se c’è una cosa che questa città mi ha insegnato» disse. «È che vivere alla grande è sempre la miglior forma di vendetta.»
«Vendetta verso chi?»
«Ah, be’» Solomon alzò le spalle, mentre tornava da lei coi due bicchieri pieni fino all’orlo. «Verso chiunque. Anche le madri invadenti, se lo desideri.»
Isabel si sforzò di non ridere, ma anche questa volta, non ci riuscì. Afferrò il drink che lui le porgeva e si schiarì la gola. «Allora, propongo di brindare a loro.»
Solomon prese posto accanto a lei. «Ai genitori.»
«A tutte le decisioni pessime che abbiamo preso e che prenderemo nel disperato tentativo di renderli orgogliosi di noi.»
«Ovviamente, senza mai riuscirci.»
Fecero tintinnare i bicchieri, dopodiché Solomon tracannò il suo Martini in pochi sorsi, mentre Isabel si bagnò appena le labbra.
Mentre sentiva la piacevole ondata di calore data dall’alcol che entrava in circolo, Solomon pensò a quanto fosse strano stare così in compagnia di sua moglie, senza pressioni o obblighi sociali, e senza sentire su di sé lo sguardo gravido di aspettative della gente. Solo un uomo e una donna che parlano e bevono insieme, per il semplice gusto di farlo. Di nuovo, gli tornarono in mente le sensazioni provate qualche sera prima, quando erano seduti vicini sul prato davanti al cigarral e lei lo aveva preso per mano. Ricordò quanto si era sentito vulnerabile e smarrito, come un bambino gettato di forza e senza preavviso nel frastornante caos del mondo. 
Anche adesso erano molto vicini, e, per di più, completamente soli in quell’enorme accademia deserta, ma Isabel sembrava piuttosto a suo agio; la sua postura aveva perso rigidità e giocherellava con l’oliva del suo drink con un sorriso sereno a fior di labbra.
Il solo pensiero che non ci fosse niente a separarli avrebbe dovuto spingerlo a correre via a gambe levate. E invece, tutto ciò che Solomon continuava a pensare era: potrei avvicinarmi un po’ di più. E vedere che succede…
«Sai, ho pensato molto a noi due ultimamente » disse Isabel. «E mi piacerebbe farti una proposta.»
Solomon drizzò le antenne. «Davvero?»
«Be’, sì» disse Isabel. «Dopo tutto quello che hai fatto per restituirmi il museo. E ti sei persino offerto di condividere i tuoi spazi per permettermi di continuare le lezioni. Niente di tutto questo era nel contratto.»
Con molta discrezione, Solomon scivolò verso il suo lato del sofà, il braccio libero dal drink che già si allungava sullo schienale. «Be’, come ho detto, era mio dovere.»
«Perciò, arrivati a questo punto» mormorò Isabel, guardandolo dritto negli occhi. «Ho pensato che magari potremmo…»
«Mhmm?»
«…provare a essere amici!»
«Ah.»
La fitta di delusione che quelle cinque lettere gli inflissero fece quasi male fisicamente. Il suo braccio batté subito in ritirata.
«Be’, perché no?» proseguì Isabel, tutta sorridente. «Siamo una bella squadra! E poi, senza più mia madre tra i piedi, non dovremo più neanche preoccuparci della faccenda dell’erede! È un bel sollievo, non credi?»
«Certo» fece lui, a denti stretti.
«Visto? Ero sicura che alla fine saremmo andati d’accordo!» gioì lei. «Ora è meglio che corra ad aprire il laboratorio, le mie allieve saranno già dietro la porta!»
Si alzò e lasciò il Martini ancora pieno sul tavolino. «Grazie per la chiacchierata e il drink. Magari alla prossima lezione potremmo iniziare con qualcosa di pratico, che ne dici?»
«Perfetto» borbottò Solomon, non trovando nient’altro da aggiungere. All’improvviso, si sentiva molto patetico. «A venerdì prossimo, allora.»
Non appena Isabel ebbe imboccato l’uscita, valutò seriamente di scolarsi anche l’altro drink, ma all’ultimo momento lei tornò indietro. «Oh, stavo quasi per dimenticarmene!»
Solomon si ricompose alla svelta. «Sì?»
«Xavier mi ha detto che vorrebbe parlarti» rispose Isabel. «Lo so, è sembrato assurdo anche a me, solitamente l’ultima cosa che vuole è parlare con le persone. Non voglio spaventarti, ma credo proprio che tu gli piaccia! Ti aspetta in Biblioteca, dopo l’orario di chiusura.»
 
Quella sera, Solomon si presentò all’appuntamento puntuale come un orologio svizzero. Attraversò le gallerie concentriche della Biblioteca, stranamente deserte e illuminate solo da una tenue scia di luci, sforzandosi di non tradire l’eccitazione che gli fermentava nello stomaco per ciò che il Bibliotecario aveva da dirgli.
Xavier lo attendeva fuori dal suo ufficio, immobile in mezzo al corridoio come un iceberg, e con la solita fredda indifferenza nello sguardo.
«Grazie di aver risposto al mio invito, signor Blake. Stavo per effettuare un ultimo controllo delle collezioni prima di chiudere. Le andrebbe di accompagnarmi?»
Senza aspettare risposta, aprì una porta sulla destra e gli cedette il passo.
Entrarono in una sala lunga e stretta, più buia rispetto al corridoio, con librerie illuminate dall’interno, in modo che libri e manufatti esposti risplendessero di un soffuso bagliore dorato. Il perimetro della sala era percorso da lunghe teche di vetro, nelle quali preziosi libri miniati sembravano galleggiare sospesi nel vuoto.
«Sembra tutto in ordine» commentò Solomon. «Anche se, personalmente, darei una spolverata ogni tanto.»
«Quel che è custodito in queste sale non ha bisogno di particolari cure» rispose Xavier. «Questi oggetti, questi libri…hanno assolto ai loro doveri molti secoli fa. Ormai sono alla stregua di ossa in un reliquiario.»
Solomon lo guardò, meravigliato. «Ma rappresentano la memoria della sua famiglia. La storia della nostra razza. Credevo che il compito del Bibliotecario fosse difendere la conoscenza.»
Xavier trasse un respiro profondo, malinconico, cosa che prima di allora Solomon non gli aveva mai visto fare. «Conoscenza…ne parla come se fosse ancora qualcosa di cui prendersi cura, qualcosa di vivo. In passato lo era, quando la magia veniva trasmessa da mago a mago tramite la parola, ed era ancora qualcosa di arcano, pulsante, in continua evoluzione. Ma adesso.» Xavier fece un ampio gesto con il braccio, indicando le teche. «Tutto quel che rimane sono solo pagine ingiallite alla mercè di polvere e insetti. Forse, dopotutto, i miei fratelli hanno ragione sul fatto che la mia professione sia ormai inutile.»
«Io non la penso così» disse Solomon.
«Lo so» replicò l’altro con dolcezza, il riflesso degli occhiali che scintillava nella penombra. «Lei e io siamo molto simili, signor Blake. Ammetto che all’inizio non l’avevo compreso, come non avevo compreso perché mai Isabel l’avesse scelta: quando ci siamo conosciuti, non ho visto niente di particolare in lei. O meglio, niente che la distinguesse dalla maggioranza dei maghi di Arcanta: ambizione, vanità, brama di potere. Tutte cose già viste.»
«E cosa è cambiato da allora?»
«Ho visto quello che ha fatto per mia sorella» rispose Xavier. «Il modo in cui si è schierato non solo contro il Cerchio d’Oro, ma contro gli stessi Ascanor, per permetterle di aprire il suo museo. E questo mi ha colpito. Non pensavo che in questa città esistessero ancora maghi disposti a correre dei rischi.»
Solomon tacque. Xavier riprese a camminare.
«Isabel è sempre stata gentile con me» disse, mentre superavano insieme la sala espositiva. «Tra tutti i miei parenti, lei è la sola a non avermi mai guardato come se avessi qualcosa che non va. Probabilmente, un uomo come lei, potente e ammirato, non può comprendere cosa significhi sentirsi rotti, sbagliati.»
«Mi creda» replicò Solomon, grave. «Lo comprendo molto bene, invece.»
Qualcosa di simile a un sorriso increspò le labbra del Bibliotecario. «In tal caso, credo che apprezzerà ciò che sto per mostrarle.»
Attraversarono un altro paio di gallerie, dopodiché Xavier condusse Solomon in un’ampia sala circolare, dove non erano mai stati prima. Non sembrava nemmeno più di essere alla Cittadella: i muri laggiù non erano di marmo bianco e liscio come la maggior parte degli ambienti, ma di roccia porosa e grigia, e al posto delle calde luci magiche fluttuanti vi erano delle torce, che gettavano lungo le pareti sinistri bagliori blu ghiaccio. Il pavimento era completamente nero e lucido, come la superficie di un lago, attraversato da strani segni a rilievo, protuberanze simili a vecchie cicatrici.
«Dove siamo?» chiese Solomon, e la sua voce gli suonò diversa, più acuta del normale. Quel posto gli trasmetteva sensazioni sgradevoli, come se tutt’a un tratto fossero lontanissimi da Arcanta, da tutto ciò che aveva sempre considerato certo e sicuro.
Xavier attraversò la sala e si fermò alla sua estremità. «In un luogo a cui nessun mago ha accesso da molti secoli, nemmeno i Decani.»
Uno strano nervosismo iniziava a impadronirsi di Solomon. Si schiarì la gola. «E perché ha deciso di mostrarmelo?»
«Perché lei è uno dei pochi in grado di comprendere l’importanza di ciò che è custodito quaggiù» rispose Xavier. «Una volta mi chiese cosa pensassi del Vecchio Mondo, se fosse giusto o meno tramandarne il sapere. E io risposi che niente dovrebbe essere precluso alla conoscenza di un mago.»
«Lo ricordo.»
«Anche i Decani in passato erano dello stesso avviso» disse Xavier. «Perciò, scelsero di salvare alcuni testi che oggi definiremmo “proibiti”, a patto che ci fosse sempre qualcuno pronto a vigilare su di loro. Un compito che nei secoli è stato svolto egregiamente dalla mia famiglia.»
Su quelle parole, estrasse da una tasca della tunica un sottile pugnale, rigirandoselo poi tra le lunghe dita.
Solomon si tese. «Che significa?»
«Vede, signor Blake, c’è un motivo per cui nel Decanato c’è sempre stato un Ascanor» disse Xavier, la voce bassa e calma. «Ed è racchiuso nel nostro motto: noi siamo l’essenza di Arcanta, siamo l’Acciaio…»
Si tirò su la manica e premette la lama affilata sull’avambraccio.
«…e siamo il Sangue.»
Ci fu un lampo d’argento e uno schizzo scarlatto. Un paio di gocce scure colarono sul pavimento, depositandovi pozze scintillanti.
Quel che accadde dopo fu un mezzo shock per Solomon.
La stanza fu attraversata da un profondo scossone, che fece ondeggiare la fiamma delle torce. Poi, un suono simile a un lamento animale risalì vibrando dal basso, crescendo di intensità fino a diventare un fragore assordante, che gli fece drizzare i capelli.
La strana pietra nera del pavimento iniziò a liquefarsi, i disegni a rilievo a contorcersi. Agghiacciato, Solomon arretrò fino a urtare la schiena contro la parete di roccia.
Il pavimento ormai stava ribollendo come magma, e a un tratto, da quella melma, si sollevarono uno dopo l’altro lunghi e viscidi tentacoli neri.
«Xavier!» gridò Solomon, setacciando quella mostruosa foresta-piovra in movimento alla ricerca del Bibliotecario.
«Mantenga la calma, Blake. È totalmente al sicuro.»
A conferma di quelle parole, Xavier emerse tra i tentacoli ondeggianti con passo deciso.
«Non le farà niente» disse, sollevando una mano per accarezzare una propaggine. Quella si arricciò e poi si sciolse al suo tocco, come la coda di un gatto. «A dispetto delle apparenze, Rebecca è del tutto innocua.»
«Rebecca!?»
«Sì, è una lei» confermò Xavier, facendogli poi segno di seguirlo. «Da questa parte.»
Riluttante, Solomon si staccò dalla parete e s’immerse tra i tentacoli, stando bene attento a non farsi toccare. Al centro di quello che poco prima era un normale pavimento, adesso si era aperta un’enorme voragine buia.
Solomon si avvicinò cauto e sbirciò oltre il bordo, trattenendo un brivido. Un gelo sotterraneo emergeva dal basso, portando in superficie un odore di rocce fredde, muffa e qualcos’altro di meno naturale. Un’infinita successione di gradini storti e bianchi sprofondava nelle viscere della fossa, fino a perdersi nell’oscurità.
Xavier riapparve al fianco di Solomon, munito di torcia. «Stia attento a dove mette i piedi.»
E iniziò a scendere, con la disinvoltura di chi si reca nella propria cantina a recuperare una bottiglia di vino. Solomon prese un ultimo profondo respiro, sforzandosi di dominare il panico, e gli andò dietro.
«La tua, ehm, amica» gracchiò, cercando di non perdere l’equilibrio. Pensò che fosse meglio sostenersi toccando la parete, e si aspettò di avvertire sotto il palmo il freddo della nuda roccia. Con sua enorme sorpresa invece, era calda e soffice come stoffa. «Rebecca…non ci darà problemi mentre siamo quaggiù, vero?»
«Non ne avrebbe motivo» rispose Xavier. «A meno che non si senta minacciata. Perciò, fossi in lei cercherei di comportarmi da ospite rispettoso.»
Solomon non riusciva a capacitarsi che stesse accadendo davvero. Per anni aveva esplorato la Torre a Spirale in lungo e in largo, e in particolare la Biblioteca, deciso a svelarne tutti i segreti. Ma questo…questo andava ben al di là della sua comprensione. Eppure, allo stesso tempo era come se una parte di lui ne avesse sempre percepito la presenza, sotto le fondamenta della Cittadella, come un qualcosa di indicibile nascosto sotto un letto.
«Siamo arrivati.»
Davanti a loro si estendevano file e file di scaffali, bianchi e ludici come ossa, che si susseguivano all’infinito nell’oscurità. E, incatenati ad essi con pesanti lucchetti di acciaio alchemico, riposavano centinaia di libri. Libri antichi, dalle pagine corrose dal tempo, chiuse tra pezzi di cuoio marcio.
Una biblioteca nella biblioteca.
Lo spazio tra gli scaffali era totalmente nero e informe, ma Solomon aveva la sensazione che in quell’abisso palpitasse qualcosa di… vivo.
«Questo posto» sussurrò, faticando a dar voce a un pensiero tanto assurdo. «Siamo dentro Rebecca…questa è una Biblioteca Vivente!»
Gli era capitato di leggere qualcosa in proposito, su come fossero in voga ai tempi in cui il Nuovo Credo si era imposto sul Vecchio, e i Mancanti perseguitavano chi praticava la magia e i culti pagani, appiccando fuoco ad accademie e biblioteche.
Xavier si voltò a guardarlo, reggendo la torcia all’altezza degli occhi. Quel bagliore gelido conferiva una sfumatura lugubre alla sua pelle.
«L’ultima rimasta al mondo» rispose, con solennità. «Rebecca è qui dal giorno in cui Arcanta fu fondata, ben prima della Cittadella stessa. I Fondatori ritennero che non ci fosse modo più sicuro per contenere un potere tanto oscuro.»
Gettò uno sguardo attorno a sé, pregno d’orgoglio. «Fu Farabi il primo a prendersene cura» spiegò, spingendo gli occhiali in cima al naso aquilino. «Nutrendola negli anni col proprio sangue. E da allora Rebecca riconosce solo ed esclusivamente il sangue della sua discendenza. Il sangue della famiglia Ascanor.»
Sempre più sbalordito, Solomon studiò da vicino le scaffalature che attraversavano la galleria. Un coro di misteriosi sussurri gli strisciò a tradimento dentro la testa, facendogli accapponare la pelle, e lo stregone si ritrasse. Era solo suggestione, oppure…? «Sono grimori di Magia Vuota!»
«Farabi era dell’idea che tutto il sapere magico andasse tutelato» disse Xavier. «Che solo perché non comprendiamo qualcosa non significa che non possieda valore. Si dedicò assiduamente a trovare in queste pagine le risposte ai suoi innumerevoli interrogativi. A differenza di Malachia e Tolomeo, continuava a sostenere che Arcanta fosse solo il principio, che un giorno i maghi sarebbero tornati abbastanza potenti da rivendicare il posto che spetta loro nel Mondo Esterno. Ma presto gli altri Fondatori iniziarono a nutrire dubbi sulla sua sanità mentale. Finché non si convinsero che il Vuoto lo avesse corrotto. E che fosse più sicuro bandirne il ricordo.»
«E hanno deciso di rinchiuderlo quaggiù» concluse Solomon. «Ma non ha senso, perché non liberarsi di questi testi, se erano considerati così pericolosi?»
«Perché il potere del Vuoto non può essere semplicemente distrutto» rispose Xavier. «Non per mezzo della magia comune. L’unica soluzione era fare in modo che fosse inaccessibile ai più.»
Solomon deglutì con difficoltà. Sentiva nella bocca un sapore amaro. «E per quale motivo hai deciso di mostrarlo proprio a me?»
Xavier gli si avvicinò, lo sguardo fermo. «Ho pensato che dovesse sapere a cosa è andato incontro, il giorno in cui ha sposato mia sorella. Che un mago come lei, dotato di un intelletto fuori dal comune, avrebbe compreso più di chiunque l’importanza della nostra missione. Un giorno, quando io non ci sarò più, Arcanta avrà bisogno che un nuovo Bibliotecario porti avanti il mio lavoro. E quel qualcuno potrebbe essere il figlio di mia sorella. In altre parole, signor Blake: benvenuto in famiglia.»
E gli diede una pacca sul braccio, così brusca e inaspettata che Solomon sussultò.
«Se per lei va bene, proseguirei la visita» disse poi Xavier, con tutta la calma del mondo. «Abbiamo ancora qualche minuto, prima che Rebecca torni a dormire.»
E riprese il cammino, del tutto inconsapevole della bomba che aveva appena sganciato.
Solomon sentiva il cuore che pulsava ferocemente contro il pomo d'Adamo. Attese che Xavier fosse abbastanza lontano, dopodiché tornò a guardare i libri in catene. Uno in particolare attirò la sua attenzione, e, non appena gli occhi di Solomon vi si posarono, non ebbe dubbi che si trattava proprio di quel che aveva sempre cercato. La fine di un viaggio iniziato molti e molti anni fa.
All’apparenza non aveva nulla di speciale, solo un logoro involucro di pelle nera e unta, cosparso di incrostazioni simili a verruche, o alle bolle in una pozza di catrame. Ma quelle pagine trasudavano della malvagità delle cose antiche e dimenticate, che languivano nel buio da secoli. Coscienze che non si assopivano, livori che non trovavano pace…
Solomon protese una mano verso le catene che lo avviluppavano, ma qualcosa lo trattenne. Un’immagine gli si impiantò di forza nella mente, per quanto indesiderata. L’immagine di lui e Isabel seduti su un prato bagnato dalla luna, la mano di lei che lo sfiorava, il suo sorriso luminoso, la dolcezza con cui il suo nome scivolava fuori da quelle labbra, e lo faceva sentire in grado di compiere qualunque cosa...
Quali sono i tuoi obiettivi, Solomon? Tu per cosa combatti?
 
 
Lucia sapeva sempre quando lui rientrava a casa, anche agli orari più impensabili.
Quando la presenza di Solomon riecheggiava in quelle vaste sale silenziose aveva il potere di colorarle all’improvviso di calore e di vita.  E anche Lucia si era sempre sentita così, pervasa da un'energia tutta nuova ogni volta che lui tornava, persino in quell’ultimo periodo in cui si era rifiutata di parlargli. Ma per quanto fosse in collera, non riusciva a impedire al proprio cuore di impazzire di gioia al solo pensiero di averlo vicino.
Aveva cercato di tenersi impegnata il più possibile, di gettarsi anima e corpo negli studi per non pensare a quanto lui l’avesse fatta soffrire ultimamente. Non aveva intenzione di passare le sue giornate a struggersi come una ragazzina, sicura che tanto non sarebbe comunque servito a niente, così aveva approfittato di quelle settimane di solitudine per cimentarsi negli incantesimi e nelle pozioni più difficili. E infatti era ancora lì, nel suo laboratorio, a trafficare con ampolle e provette, circondata dal vapore dei calderoni, quando percepì la sua presenza sulla porta.
«Bentornato» lo apostrofò, sperando di suonare più indifferente che ostile. «Non ho avuto tempo di cucinare niente, ma magari Valdar è ancora sveglio.»
Lui non disse nulla, e continuò a osservarla da lontano, appoggiato allo stipite con le braccia conserte.
Lucia sospirò, con un velo di esasperazione. «Senti, se hai intenzione di scusarti, cerca di fare in fretta. Queste pozioni vanno controllate costantemente, altrimenti gli ingredienti non si amalgamano…»
«Lascia perdere quella robaccia. Ti ho portato qualcosa di più stimolante.»
Finalmente, Lucia si convinse a guardarlo, stupita dall’eccitazione a stento trattenuta che vibrava nella sua voce. «Di cosa stai parlando?»
Solomon Blake le rivolse un sorriso feroce e impetuoso come un tuono, gli occhi azzurri che brillavano in un modo che solitamente non prometteva nulla di buono. Con un gesto teatrale, le mostrò qualcosa che teneva nascosto sotto la giacca. Un libro dall’aria malconcia, rivestito di sudicia pelle nera.
«È arrivato il momento di giocare sul serio.»
  
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