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Autore: Adeia Di Elferas    05/01/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La notizia della morte del papa, arrivata quel 19 ottobre a Firenze, aveva scosso gli animi di tutti, in particolar modo di Niccolò Machiavelli che già da tempo sapeva che presto sarebbe stato inviato a Roma, ma che ora era certo di vedere la data della partenza avvicinarsi vertiginosamente.

Dall'essere un semplice inviato con il compito di vagliare le posizioni del prossimo futuro successore di Pio III, ora sarebbe stato il legato fiorentino incaricato di seguire i maneggi del Conclave che si sarebbe tenuto nell'arco di meno di dieci giorni. Per quanto riguardava la sua carriera, di certo si sarebbe trattato di un bel passo avanti, ma il compito sarebbe stato molto più complesso di quanto si fosse aspettato.

Così, quando quel giorno andò a incontrare Soderini, varcò la porta che lo separava dal Gonfaloniere con il cuore in gola e le mani sudate.

Con le labbra ripiegate verso il basso e lo sguardo cupo come suo solito, il cinquantatreenne a mala pena salutò Niccolò, che aveva ben diciannove anni meno di lui e sembrava infastidirlo anche solo con la sua gioventù.

Quasi voltandogli le spalle, tenne comunque nel suo raggio visivo il naso adunco di Machiavelli e lo indicò con l'indice nodoso: “In Romagna la situazione è confusa. Gli uomini del Valentino sono in rotta... Una parte s'è data agli Orsini e una al Collegio dei Cardinali...” fece una breve pausa, come indeciso se proseguire o meno e poi sospirò: “Si dice che una parte ancora si sia data al soldo del Cardinale Sansoni Riario, che la vuole usare da mandare costà in favore di Madonna Sforza e dei parenti suoi... Si dice che abbia avuto anche i contrassegni delle fortezze di Imola e Forlì...”

“Si dice e basta, o è davvero così?” si informò Niccolò, stupito da quel risvolto.

Aveva sempre saputo, nel profondo, che la Leonessa di Romagna fosse la vera regina dello scacchiere italiano, ma se quella mossa era stata davvero fatta e lei ne era la remota artefice, allora significava che sapeva giocare molto meglio di quanto Machiavelli credesse.

“Non sappiamo ancora quanto ci sia di vero e anche su questo voglio che indaghiate, quando sarete a Roma.” spiegò Soderini, mettendosi a fissare l'altro: “So che tra voi e quella gente non scorre buon sangue, ma voi vi dovrete fare amico, amicissimo anzi, della Sforza e degli sforzeschi, affinché vi dicano la verità.

“Se i partigiani della Sforza avessero davvero un esercito su cui contare...” iniziò a dire Machiavelli, una mano che correva al ciuffo di ricci scapigliati, che necessitavano un'urgente taglio prima della partenza: “Firenze che farebbe? Parteggerebbe ancora per l'Ordelaffi? Prenderebbe le parti della Tigre? Si svincolerebbe dal conflitto..?”

Pier Soderini sporse in fuori le labbra sottili e poi scosse il capo: “Prima va sentita la campana sforzesca a Roma, poi andrà visto che papa verrà eletto e poi, solo allora, noi si deciderà.”

“Quando partirò?” chiese allora Niccolò, all'improvviso smanioso di mettersi in strada e prendere parte ai grandi giochi della politica mondiale.

“Tenetevi pronto.” rispose il Gonfaloniere: “Nel giro di un giorno o al massimo due saranno pronte le consegne per la vostra missione e potrete partire.”

Machiavelli ringraziò, si profuse in lunghi inchini e poi raggiunse l'uscita trattenendo a stento qualche saltello di eccitazione. I suoi trentaquattro anni lo facevano esplodere di intraprendenza e sicurezza di sé – o arroganza, come spesso la definiva sua moglie Marietta – e quasi gli impedirono di sentire il mezzo sussurro del Soderini, che lo stava richiamando un momento.

Solo sull'uscio Niccolò riuscì a capire il richiamo e si voltò con aria interrogativa, restando poi attonito davanti alle parole del Gonfaloniere: “State attento, Machiavelli carissimo. A Roma c'è anche il Duca Valentino, ma ricordate che non è lui la vostra priorità, ormai...”

Deglutendo, la baldanza quasi del tutto sparita, Niccolò chinò il capo in segno di rispetto e, senza aggiungere altro, se ne andò, con un passo molto meno entusiasta e la strana sensazione di essere sotto esame come un ragazzino davanti a un precettore particolarmente esigente e manesco.

 

Le febbri della Tigre non erano più tornate e la donna, fin dal risveglio di quella mattina, aveva deciso di comportarsi nel modo più normale possibile. Era debole e le bastava un nonnulla per sudare e affaticarsi, ma era tale la sofferenza nel mostrarsi, secondo lei, debole, che recitare la parte della forte era indispensabile.

Così, in presenza di testimoni, minimizzava il suo malessere, e addirittura, prima di pranzo, aveva preteso di uscire all'aperto per guardare Giovannino cavalcare. In realtà il bambino si limitava a stare seduto su una sella troppo grande per lui, mentre Bernardino e Galeazzo si alternavano alle briglie del destriero, facendolo andare avanti e indietro in un esercizio molto monotono, ma che divertiva parecchio il piccolo Medici.

“Bisognerà comprargli un cavallo della stazza giusta per lui...” valutò alla fine le Leonessa, mentre cominciava a scendere dal cielo un po' di acqua mista a neve: “Certo, appena avrò abbastanza denaro...”

Fortunati, che era stato il depositario di questa considerazione, annuì e provò a dire, con un certo ottimismo: “Magari se intercettassi la volontà di qualche tuo vecchio partigiano di omaggiarti con un animale, potrei suggerire un piccolo cavallo adatto a Giovannino...”

La Sforza si disse d'accordo, e poi, detestandosi per il fiato corto che già aveva nel tornare al portone della villa, si strinse un momento nelle spalle, mascherando la fatica con un'espressione pensierosa: “Fammi preparare un bagno caldo. Fammelo portare in stanza.”

“Ma sei sicura..?” la voce di Francesco si era fatta sottile, appena udibile tra le risate di Giovannino e Bernardino, che stavano andando con Galeazzo a rimettere il cavallo nella stalla: “Ti sei ripresa ieri... Non mangi come si deve da giorni... L'acqua potrebbe farti male... Non credo che...”

“Sono stata a letto per giorni, la sensazione di prurito che ho mi ricorda troppo quella che aveva quando ero in cella... Voglio sentirmi pulita.” tagliò corto la donna, assaporando il tepore della casa, una volta che varcò l'uscio: “Che l'acqua sia molto calda. Voglio potermi rilassare...”

Il piovano evitò di esprimere di nuovo il suo dissenso, sapendo che sarebbe servito solo a far arrabbiare la donna che amava e così fece un breve sospiro e disse: “Va bene, vado subito a riferire alle serve...”

 

L'Oratore veneto in quel 19 ottobre non riusciva a capire se quella che aveva dinnanzi era ancora Roma o se, piuttosto, si fosse trasformata in una qualche città governata dai sultani e dai mori. Il papa era morto da un giorno e il Vaticano si era trasformato in un mercato aperto.

Senza più rispetto di Dio né del buoncostume, le trattative sia per il Conclave sia per altri favoritismi avvenivano alla luce del sole, senza nemmeno quell'ipocrita velo di segretezza che di norma celava certi maneggi.

Il Cardinale Della Rovere sguazzava come un pesce in quell'oceano di proposte e controproposte e così facevano tutti i suoi sostenitori, eccezion fatta per il Cardinale Sansoni Riario, che invece sembrava non apprezzare quell'ostentazione, preferendo i metodi classici, silenziosi, ma altrettanto efficaci.

Giustinian cercava, nelle sue missive dirette al Doge, di misurare le parole, ma quella mattina l'Urbe lo stava nauseando. Era uscito un momento dai palazzi dorati della Chiesa per cercare alcune cose al mercato, e la divergenza tra il lusso e lo spreco del Vaticano con la povertà e la confusione della gente comune lo stava mettendo a dura prova.

Di quando in quando in alcune strade si aprivano fulminei, e altrettanto fulminei si chiudevano, degli scontri tra soldati degli Orsini e quelli degli spagnoli. Allo stesso tempo nelle osterie si vedevano scene di fratellanza tra soldati degli Orsini e dei Colonna, cosa che stupiva perfino i romani meno addentro alle questioni politiche. I soldati dei Baglioni, poi, andavano d'accordo con tutti, come se quello stallo fosse per loro una manna utile a creare nuove amicizie a valutare nel contempo la forza dei possibili nemici.

A dare il peggior spettacolo di sé erano i soldati francesi giunti a Roma in rotta dopo aver lasciato Gaeta. Erano tutti fanti, e vagavano senza meta per la città mezzi nudi malgrado il freddo e molti di loro erano prossimi alla morte per la fame. L'indifferenza o, più spesso, l'aperta ostilità dei romani nei loro confronti andava solo a peggiorare il loro stato e non era infrequente trovarne qualcuno morto all'angolo della strada, per freddo, fame o malattia.

Giustinian, comprato quel che doveva al mercato, incappò proprio in un cadavere di un francese mentre cercava una scorciatoia per scappare il prima possibile da quella Gomorra turbinante di odori, topi e borseggiatori. Passando accanto al morto si fece velocemente il segno della croce con la mano libera dagli acquisti e accelerò il passo. Molti francesi erano a Rocca Secca, a tener d'assedio con le artiglierie quasi duemila spagnoli... Se lui fosse stato un armigero d'Oltralpe, forse avrebbe cercato di unirsi a quei plotoni, piuttosto che finire morto di freddo e stenti sul bordo di una strada piena di fango...

Tornato finalmente dentro i confini Vaticani, Antonio si scrollò di dosso lo schifo e la puzza, andandosi perfino a lavare le mani e il volto, per essere certo che nulla della miseria che aveva attraversato gli restasse incollato sulla pelle.

Per ricrearsi, dopo essersi anche cambiato gli abiti, andò nei giardini vaticani. Quel giorno il cielo era grigio, ma tutto sommato il clima era piacevole, e poi girovagando a quel modo poteva svolgere il suo lavoro in modo semplice e discreto. Non c'era angolo di quei giardini, infatti, che non brulicasse di porporati e loro servi intenti a tramare qualche intrigo o contrattare qualche compravendita di favori.

Era assorto nell'ascoltare due prelati spagnoli che discutevano animatamente tra loro sull'opportunità o meno di accettare le proposte avanzate da Raffaele Sansoni Riario, quando la voce di Giuliano Della Rovere lo fece sobbalzare: “Che cosa ne pensate, di quello che vede, messer Antonio?”

Il tono era strano, quasi velato di tristezza, ma gli occhi acuti del Cardinale lasciavano trasparire il suo interesse profondo. La sua non era solo una domanda per far conversazione, né un'indiretta esternazione di delusione nei confronti della venalità della Chiesa: la sua era un'indagine puntuale e ogni parola del veneziano sarebbe stata vagliata con immensa attenzione.

Perciò, prima di parlare, Giustinian ripercorse tutte le sue considerazioni di quelle ore e riassunse, senza paura di suonare pungente: “Trovo che le pratiche che si stanno tenendo si tengono spesso con poco rispetto a Dio e alla dignità che tengono...” disse, abbassando lo sguardo: “I contratti si fanno pubblicamente e sembra adesso che sia inconveniente a chi non lo fa! E non se ne parla a centinaia, ma a migliaia, a decine di migliaia, con grandissimo obbrobrio della religione nostra e offesa del Signor Dio, perché ormai non è differenza dal pontificato al sultanato.”

Giuliano non si era atteso una simile durezza dall'Oratore, ma lo trovò coraggioso e acuto, tanto che, invece di arrabbiarsi, emise una risata bassa, quasi gutturale e, posandogli una mano sulla spalla, ribatté: “Avete proprio ragione, perché plus offerenti, datur. E credo che sia una legge che voi a Venezia conoscete molto bene.”

Basito da quel contrattacco, Antonio rimase in silenzio e fissò per un lungo momento il Cardinale, che, avendo notato in lontananza un porporato con cui desiderava parlare, lo salutò con tono gioviale, dicendo: “Quando mi eleggeranno papa, vestitevi bene. Non voglio che la mia incoronazione venga rovinata dagli abiti sciatti di un povero veneziano... Se il Doge non vi paga abbastanza per comprarvi un mantello nuovo, non avete che da chiedere... E ora, con permesso...”

 

Fortunati pensò che il tempo necessario a un buon bagno rilassante fosse passato e dunque, quando entrò nella stanza della Tigre senza nemmeno bussare, un po' si sorprese nel trovarla ancora immersa fino al mento nella tinozza che, ormai, non fumava più per tepore dell'acqua.

Dal profumo d'aria fresca che si mescolava a quello degli olii balsamici, il piovano capì che la Sforza doveva aver tenuto la finestra aperta per un bel po', forse per togliersi di dosso l'odore stantio della stanza che era rimasta chiusa per giorni.

“Sei arrivato al momento giusto...” fece lei, quando lo vide: “Così mi aiuti tu ad asciugarmi... Lo voleva fare Creobola, ma non avevo voglia di averla intorno... E da sola...”

Francesco capì che la naturale prosecuzione di quella frase sarebbe stata 'avrei fatto troppa fatica', ma l'orgoglio testardo della sua amata Caterina le impediva di ammettere una cosa tanto banale.

“Prendimi quel telo, quello più grande... L'altro lo uso dopo...” ordinò la donna, indicando verso il letto, che era stato rifatto, con lenzuola pulite e dal leggero profumo di menta e rosmarino.

Il piovano annusò con discrezione la nota che arrivava dalla biancheria fresca di bucato. Aveva sempre ammirato le nozioni che la Tigre inculcava nelle sue serve – a Castello così come aveva fatto a Ravaldino – circa l'importanza delle stoffe linde e rese gradevoli con lunghe immersioni in acqua aromatizzata ora a questa ora a quell'erba o fiore.

Tornando al presente, l'uomo l'aiutò a uscire dalla tinozza, senza lamentarsi per come lei, aggrappandosi con forza alle sue braccia, gli stesse infradiciando le maniche. I suoi occhi correvano di continuo al corpo della Leonessa, indugiando giusto un secondo di troppo sulla grande cicatrice che campeggiava nel mezzo della sua coscia. La Sforza se ne accorse, ma finse di non darvi peso, mentre si arrotolava nel telo asciutto.

“Ravviva il fuoco, per favore...” gli disse, con un tono un pochino più dolce del solito.

Il piovano eseguì, solerte come sempre, mentre lei finiva di asciugarsi. Caterina sentiva la pelle più morbida, ristorata, e anche la tensione che aveva avvertito fino a quel momento all'altezza del collo e delle spalle si era allentata del tutto. Era stanca, stanchissima, e ancora si sentiva debole per i giorni di digiuno che, per il momento, aveva potuto compensare poco, dato che ogni boccone di cibo le metteva la nausea, però si sentiva fondamentalmente bene. Era una sensazione a cui non era molto abituata. Era come se il malessere fisico, che l'aveva allontanata dal mondo per un po' l'avesse costretta a tornare all'essenziale: il respiro, il battito del cuore, i muscoli che si distendevano...

Il mostro collerico che albergava da sempre in lei e che aveva dominato buona parte della sua vita era quiescente. C'era, a momenti le dava qualche sferzata di tristezza o di amarezza, ma era sotto controllo.

Mentre guardava la schiena dritta del piovano che stava rintuzzando il fuoco, si ricordò all'improvviso di quanto lui fosse stato felice nel vederle riaprire gli occhi. Ricordava di come le aveva baciato le mani, trattenendosi a stento, probabilmente dal baciarle le labbra solo perché con loro c'erano due serve e la balia... Ricordava il suo pianto dirotto di gioia, la sua voce strozzata...

L'amore che Fortunati le riservava sempre e che le aveva dimostrato in ogni modo che gli era stato possibile, aiutandola e proteggendola, la faceva, però, quasi sentire in colpa. Lei gli era affezionata, lo stimava, lo apprezzava anche come amante e si sentiva più sicura, sapendo di poter contare sempre sul suo appoggio. Eppure non poteva dire di amarlo. Non, almeno, quanto aveva amato Giovanni o, ancor di più, il suo Giacomo...

Quasi come se avesse potuto sentire i suoi pensieri, Francesco lasciò perdere il fuoco e si voltò verso di lei, proprio mentre la donna si toglieva il telo bagnato, gettandolo nella tinozza da svuotare, per cingersi con quello più piccolo, ma asciutto.

“Stai bene?” le chiese, ma era ovvio che si trattasse solo di una domanda per rompere quel momento di silenzio, tant'è che il fiorentino non attese nemmeno una risposta, avvicinandosi a lei e proseguendo, cauto: “Sai... Mentre eri incosciente... Ho passato tante ore a chiedermi cosa sarebbe successo se...”

“Se fossi morta..?” indagò la donna, accigliandosi.

Francesco si grattò la guancia, su cui cresceva disordinata la barba scura di almeno una settimana, e quando parlò lo fece con un'angoscia di fondo che alla Tigre non piacque affatto: “Cosa siamo, io e te?”

“Seriamente?” domandò lei, inarcando le sopracciglia, colta alla sprovvista.

Il silenzio protratto dell'uomo la fece sudare freddo. Perché mai doveva uscirsene con una domanda del genere proprio in quel momento? Non c'erano già abbastanza problemi da affrontare, senza fissarsi su come definire il loro rapporto..?

“Siamo amanti.” rispose Caterina, trattenendosi a stento dall'aggiungere 'mi pare ovvio'.

Il fiorentino tacque di nuovo, questa volta corrucciandosi ancora di più. La Leonessa, di contro, iniziava a sentirsi agitata. Aveva affrontato anche in passato confronti del genere, anche con Ottaviano Manfredi, un uomo che, in fondo, aveva amato davvero, pur con tutti i limiti del caso, ma anche quella volta non era stata in grado di dare una definizione che andasse oltre la stessa fornita a Fortunati.

Trasformando la paura che stava nascendo in lei in aggressività, la milanese scattò in piedi ed esclamò: “Se non ti basta, non so cosa dire! Sapevi benissimo cosa cercavo in te, quando hai accettato di essere il mio amante.”

Il modo in cui l'uomo perseverava nel suo silenzio stava facendo battere il cuore della Tigre come un tamburo. In quel momento lo stava quasi odiando, altro che amore...

“Cosa vorresti?” gli chiese allora, con rabbia, attaccando per difendersi: “Vorresti diventare mio marito? Proprio tu che ci tieni tanto che nessuno ne sappia nulla? Ti immagini cosa direbbero, lo immagini? Direbbero: quel sant'uomo di Francesco Fortunati ha abbandonato l'abito talare per sposare quella meretrice spergiura e volgare di Caterina Sforza! Ti abbasseresti a tanto? E per cosa, poi? Cosa cambierebbe, tra noi due? Cos'altro ti serve?”

Il volto del piovano mostrava quanto fosse combattuto. Le parole della sua amante avevano colpito un nervo scoperto e lo avevano ferito, perché avevano un fondo di verità che faticava ad ammettere.

“Il punto è che...” cominciò a balbettare lui, in parte per spiegarsi davvero e non essere frainteso e in parte per scacciare dalla propria mente l'idea di essere più superbo di quanto volesse: “Quando stavi male... Io non sapevo come giustificare appieno il mio dolore a chi me ne chiedeva il motivo...”

“Ah.” il tono di Caterina si svuotò di ogni rabbia, lasciando il posto a una sorta di fredda delusione che fece precipitare Francesco nel panico, specie quando lei riprese, ironica: “Hai paura che se morissi e tu ti comportassi come un vedovo affranto, dovresti rispondere a troppe domande scomode?”

“Perché... Perché sei sempre così..?” fece lui, la lingua impaniata, sentendosi minuscolo dinnanzi a quella donna così imponente anche vestita solo di un telo da bagno.

Così come?” lo incalzò lei, gelida.

“Cinica.” riassunse lui, che pur avrebbe voluto usare aggettivi più simili a 'crudele' e 'cattiva'.

“Sono solo realista.” ribatté lei, sfinita: “E comunque di mariti ne ho già avuti abbastanza, non me ne serve certo un altro... Lo sai da tempo che non ho alcuna intenzione di risposarmi, mai più.”

Fortunati non riusciva a trovare le parole. Avrebbe voluto far presente che lui non si vergognava affatto, né dei propri sentimenti, né di lei, avrebbe voluto dirle che sapeva benissimo fin dall'inizio che lei lo avrebbe usato e basta, ma l'aveva accettato, avrebbe voluto dirle che comunque lei era la sua famiglia, non solo un'amante, e che non esisteva più al mondo un posto che avrebbe potuto chiamare casa, senza lei accanto, ma, alla fine, non disse nulla.

“Grazie per avermi aiutata ad asciugarmi... Ora... Ora se vuoi puoi andare.” concluse allora la Sforza, guardando altrove, come a chiudere anche in quel modo la loro conversazione.

Francesco stava per andarsene davvero, ribollendo di rabbia verso se stesso per la sua incapacità di dire la cosa giusta nel momento giusto, quando la porta si spalancò, lasciando entrare Creobola.

La serva guardò con tono interrogativo il piovano, poi scrutò la Tigre, avvolta solo da un telo da bagno, e tornò all'uomo, sollevando un sopracciglio. Parve decidere che quella questione, quale che fosse, non le importasse e che la lettera che stringeva tra le mani fosse molto più importante.

“Da Madonna Lucrezia – disse, andando verso la Leonessa – e il messaggero che l'ha portato dice che il papa è morto e che Firenze ha mandato un certo Machiavelli per vedere come va il Conclave!”

Quella notizia, avvalorata dalle poche righe che Caterina lesse in un batter d'occhio, portò sia la Sforza sia Fortunati ad accantonare momentaneamente tutte le loro possibili divergenze.

“Dobbiamo muoverci e scrivere ai nostri amici – disse la donna, dopo aver congedato una borbottante Creobola – e devo parlarne con mio figlio...”

“Vado a chiamare Galeazzo.” convenne il piovano, chiedendosi se non fosse il caso di informare anche Scipione, che aveva molte amicizie utili che avrebbero potuto tenerli informati anche sugli umori della gente comune di mezza Italia.

“Aspetta... Prima scrivi a quel...” Caterina si accigliò, cercando nella sua memoria il nome giusto, e poi esclamò: “Alessandro Sarti! Scrivigli. Se è ancora in cerca di denaro e ha voglia di andare fino a Roma, è l'uomo giusto per noi.”

Francesco annuì e si mise subito alla scrivania. Sarti era stato un amico fraterno – anche se alcuni a tratti l'avevano descritto come un parassita – nonché editore di Agnolo Poliziano. Proprio questo legame gli aveva permesso di conoscere i Medici, i Salviati e lo stesso Fortunati. Era un uomo molto colto e abile, che non si faceva spaventare facilmente. Ultimamente lui stesso sosteneva di essersi impoverito, e di non avere neppure i soldi per pagare un postiglione in caso di necessità.

Loro non potevano offrire una cifra alta, ma il fiorentino era certo che qualche soldo, unito alla sensazione di poter ancora far parte della cerchia dei Medici, e all'idea di andare a Roma e mescolarsi coi potenti del mondo, sarebbero state motivazioni sufficienti per far accettare l'incarico ad Alessandro.

“Scrivigli che parta subito.” sussurrò Caterina, da sopra la spalla di Francesco: “In modo che non incontri Machiavelli per la via. Quella faina è viscida come una serpe...”

Il piovano si disse d'accordo e scrisse quel che doveva, poi, mentre la Tigre si vestiva, la guardò un attimo. Aveva pesanti occhiaie, era più lenta del solito nei movimenti e anche solo sollevare le braccia per infilare la veste le aveva fatto venire il fiato grosso.

Tuttavia, i suoi occhi verdi erano accesi da una luce che da molto tempo non si faceva vedere e tanto bastò a Fortunati per non provare nemmeno a fermarle e consigliarle di riposare: “Le altre lettere le scrivo in camera mia... Ora vado a chiamare Galeazzo. Qui in stanza parlerete più con calma...”

“Grazie.” fece allora la Leonessa e poi, dopo un brevissimo tentennamento, aggiunse: “E perdonami per come ti ho trattato, prima. Non è facile.”

“Lo so.” soffiò lui e poi, con un breve sorriso, si chiuse la porta alle spalle e andò a cercare il giovane Galeazzo, l'erede designato della sua Caterina.

 

   
 
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