Libri > Eragon
Segui la storia  |       
Autore: Immiriel    09/01/2024    1 recensioni
Fanfiction OC sul mondo di Eragon. Ripercorrerò la Caduta dei Cavalieri raccontando la storia di due elfi rimasti orfani durante la guerra. Nella lettura incontrerete molti dei personaggi della storia originale, missing moments, mistero, avventura e chissà, forse anche un tocco di love story!
Un piccolo estratto: Leum volava veloce come una freccia elfica, senza curarsi delle fiamme che lambivano ferocemente le guglie dei palazzi, delle urla dei sofferenti sotto di lui e della pioggia sferzante. Lacrime roventi, lacrime di drago gli scorrevano lungo le squame e subito venivano spazzate via dal vento impetuoso. Un solo pensiero gli attraversava la mente: Devo trovarla per lui. Devo proteggerla. È quello che mi ha chiesto. Devo proteggerla.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

L'acciaio incandescente bruciò come fuoco liquido, un inferno in miniatura pronto ad essere plasmato. Il giovane elfo afferrò un paio di pinze e con fare esperto spostò l'acciaio dalla forgia all'incudine. Intanto si era armato di martello, un arnese rozzo e solido che in tanti anni di lavoro mai l'aveva tradito. Calò il martello sul metallo, acciaio su acciaio, i muscoli del braccio che guizzavano e si contraevano mentre l'incudine iniziava a cantare la sua melodia stridula e cadenzante.

Quello del fabbro era un lavoro duro e lo aveva reso forte fin dal momento in cui, quando ancora era un bambino, gli era stato messo tra le mani quello stesso martello. Gli anni di apprendistato lo avevano reso più robusto della maggior parte degli elfi, che di norma avevano spalle strette e corpi snelli e affusolati.

Gynliae si fermò solo un momento per asciugarsi la fronte dalle goccioline di sudore che rischiavano di cadergli sugli occhi, per poi riprendere il suo lavoro con ancora più energia. Continuò a colpire con insistenza la sagoma d'acciaio che presto avrebbe preso la forma di una spada lunga da combattimento.

Nella mente del ragazzo l'immagine della lama ultimata emerse chiaramente: un'arma elegante la cui sommità curvava dolcemente in un artiglio di acciaio affilato e letale, la scanalatura decorata di antiche rune propiziatrici e l'elsa che terminava con il pomolo argentato e arricchito da una pietra preziosa.

A commissionarla era stato lord Yidrë, un valoroso comandante che aveva combattuto nella battaglia di Ilirea. La mascella di Gynliae si serrò. La battaglia di Ilirea. Non voleva nemmeno pensarci. Da quella battaglia, così come dal disastro che aveva distrutto Doru Araeba, erano ormai passati dieci anni. Dieci anni da quando l'umano traditore Galbatorix sedeva sul trono di quella che un tempo era Ilirea e che ora si chiamava Urû'baen, dieci anni dalla sconfitta degli alfakyn.

Gynliae ricordò che era proprio dopo la morte della sua amata che il lord era impazzito di rabbia e una furia omicida lo aveva portato a trucidare alcuni dei più fervidi sostenitori di Galbatorix. Yidrë non conservava alcuna memoria dell'avvenimento: i soldati di Evandar lo avevano trovato riverso a terra privo di sensi, circondato come in uno strano rito dai corpi macellati dei suoi nemici.

Il sole era già basso all'orizzonte quando Rhunön tornò alla forgia. Era un'elfa vecchia quanto la Du Weldenvarden: il suo viso era solcato da rughe fitte e profonde quanto quelle della corteccia di un albero, era alta di statura, ma aveva spalle curve simili a quelle di un umano giunto alla fine dei suoi giorni vigorosi. Le mani erano ancora forti, ma raggrinzite e nodose. I capelli dell'elfa erano l'unica parte rimasta intatta della sua antica bellezza: una chioma lunga e argentea, la stessa sfumatura che caratterizzava anche il taglio corto e scarmigliato di Gynliae.

Mentre si avvicinava all'incudine Rhunön si infilò un paio di spessi guanti di cuoio: «Ragazzo, se batti ancora un po' il martello su quella lama, diventerà sottile quanto un fairth».

Gynliae immerse quella che ora era una lama in un secchio d'acqua per poi porla all'elfa. Si scostò in silenzio in attesa del suo giudizio.

Rhunön sollevò la lama all'altezza degli occhi e la analizzò con fare scrupoloso sia di piatto che di taglio. La soppesò e la rigirò mentre Gynliae osservava vigile ogni suo movimento. Rhunön aveva modi bruschi che altri elfi avrebbero sicuramente definito sgarbati, ma ogni abitante di Ellesméra la rispettava profondamente, Gynliae più di ogni altro.

Dopo un'attesa che gli sembrò infinita l'elfa parlò: «Sì, è un po' sottile per i miei gusti, ma credo che a uno come Yidrë piacerà. L'hai temprata bene. Entro venti, venticinque anni al massimo forse potrai dire di forgiare spade buone quanto le mie... Cos'è quella faccia? Pensavi di superarmi in così poco tempo? Hai ancora da imparare molto, ragazzo».

Gynliae aveva inarcato impercettibilmente le sopracciglia, ma Rhunön non era tipo da lasciarsi sfuggire il più minimo dettaglio, sia sulle lame che sui visi delle persone.

L'elfo sorrise: «In realtà, Rhunön, non hai mai parlato così bene di un mio lavoro. È per questo che sono sorpreso».

Negli anni in cui era stato suo apprendista Gynliae aveva forgiato mille spade, daghe, coltelli e stiletti, armature e cotte di maglia, picche e martelli da guerra, ma raramente Rhunön ne era stata soddisfatta. Gynliae era un fabbro tutt'altro che mediocre, ma la sua era un'insegnante severa e quasi impossibile da accontentare. Eppure quella stessa insegnante aveva appena ammesso che in pochi decenni il suo allievo l'avrebbe eguagliata.

«Beh» iniziò Rhunön con il suo solito tono ironico: «prima o poi dovevi pur migliorare».
Gynliae però sapeva che in fondo era fiera di lui.

La mattina seguente Gynliae si svegliò particolarmente presto. Il suo era stato un sonno agitato, ma non ricordò nulla di quanto sognato quella notte. Colto da un'improvvisa inquietudine scese alla forgia con gli occhi ancora pieni di sonno.

Rhunön era già al lavoro. Gynliae si sedette in un angolo del laboratorio e osservò l'elfa con interesse. Si era appena rimboccata le maniche della veste fino ai gomiti e sfiorava la lama che lui aveva forgiato il giorno prima con delicatezza, quasi temesse di spezzarla con il solo tocco delle dita.

Un attimo dopo la sua maestra iniziò a cantare un incantesimo lungo e complesso, un'antica formula che Gynliae non era ancora riuscito a padroneggiare, ma che sapeva essere essenziale per conferire alle lame elfiche l'eccezionale resistenza di cui erano dotate.

Qualche minuto dopo il canto roco di Rhunön si fece più lento e debole, infine le sue parole si confusero con il silenzio. L'elfa brandì la spada ormai ultimata con soddisfazione. L'elsa era semplice e disadorna eccetto che per il pomolo, che Yidrë aveva richiesto di arricchire con una grossa ametista dal taglio ovale.

«Ci pensi tu a consegnarla?» domandò Rhunön.

«Certo»

Gynliae si avvicinò per esaminare il lavoro completo. Era un'arma così bella che fece dimenticare all'elfo che le spade erano, prima di ogni altra cosa, un letale strumento di morte.

«Non potrai trattenerti a lungo, o farai tardi alla commemorazione»

Gynliae annuì, distratto dai riflessi violetti della pietra preziosa.

«So cosa ti passa per la testa» soggiunse Rhunön con un tono indagatore: «verrà il giorno in cui sarai pronto a forgiare una lama tutta tua e temo che quel momento sarà prima di quanto vorrei».

Gynliae non comprese le sue parole. Il Re Nero sedeva stabilmente sul trono di quella che un tempo era Ilirea da ormai dieci anni e da quel momento in avanti la regina Islanzadi si era limitata a nascondere il suo popolo nei meandri più profondi della foresta, innalzando alte barriere magiche per proteggerne i confini.

L'elfo finse un tono disinvolto: «Non c'è nessuna guerra alle porte, Rhunön. Galbatorix ci teme ancora, sono sicuro che ci lascerà in pace»

Gli occhi di Rhunön si infiammarono di antica rabbia mentre gli puntava un dito nodoso al petto: «Il Traditore si è preso tutto. Tutto! Prima o poi verrà a reclamare anche la nostra foresta. Ma prima che ciò accada tenteremo qualcosa».

Gynliae indietreggiò istintivamente, ma notò che nell'espressione della vecchia elfa c'era anche qualcosa di diverso. Speranza? O semplice ostinazione? Gynliae non sapeva dirlo.

«Tenteremo qualcosa» ripetè lei, più a se stessa che al giovane elfo.

Rhunön afferrò una cotta di maglia e un paio di tenaglie e tornò alle sue faccende. Gynliae capì che non era il caso di insistere. L'elfa covava un risentimento così profondo nei confronti del Re Nero che a volte era meglio lasciarle il tempo di rabbonirsi con qualche sana ora di duro lavoro.

Così, Gynliae ripose la spada nell'elegante fodero di cuoio che aveva realizzato appositamente per il lord e uscì di casa, desideroso di respirare un po' di aria fresca.

Gynliae era in ritardo. Spalancò la porta, il cuore che sembrava volergli uscire dal petto dopo la corsa forsennata. Eppure Rhunön lo aveva avvertito poco prima che varcasse la soglia del laboratorio!

Non potrai trattenerti a lungo, o farai tardi alla commemorazione.

Afferrò una camicia pulita e si cambiò velocemente. Si precipitò fuori in fretta e furia e cercò di ravviarsi i capelli spettinati passandosi le mani tra le ciocche.

Quel giorno il popolo elfico avrebbe ricordato le vittime della guerra che dieci anni prima aveva portato alla fine dei Cavalieri e alla presa al potere di Galbatorix.

Gli abitanti di Ellesméra si riunivano ogni anno per onorare le vittime e piangere i propri cari perduti: la regina teneva un discorso mentre il popolo sceglieva alcuni rappresentanti che avrebbero cantato un nuovo albero come simbolo di rinascita dopo la disfatta.

Quell'anno erano gli orfani di guerra ad essere stati scelti e nelle settimane precedenti Gynliae aveva preso sul serio la questione impegnandosi a studiare i canti magici che gli aveva indicato Rhunön, ma cantare il legno era una magia estremamente complessa e Gynliae, che aveva dedicato l'ultimo decennio all'incudine e al martello, non si era mai concentrato troppo nello studio delle innumerevoli branche della magia.

A dire il vero Rhunön lo aveva istruito personalmente e riusciva a destreggiarsi nelle arti magiche basilari con sufficiente abilità, ma spesso l'elfa doveva ricorrere alle minacce per distoglierlo dalla forgia e convincerlo a dedicarsi almeno per una manciata di ore ad un libro di incantesimi abbandonato sulla scrivania parecchie settimane addietro.

Gynliae svoltò con ampie falcate imboccando una via che lo avrebbe condotto nei pressi del palazzo di Tialdarì, la residenza della regina e della sua corte.

Lungo la strada incontrò alcuni ritardatari che, pensò Gynliae, potevano permettersi di indugiare considerando che non avrebbero dovuto cantare l'albero della rinascita davanti a tutta la popolazione di Ellesméra. A quel pensiero affrettò il passo e sbucò in uno spiazzo erboso circondato da alti pini. Alcuni elfi - i più giovani, notò - si erano arrampicati tra le fronde aghiformi per conquistarsi la vista migliore e stavano accovacciati sui rami robusti.

Sgomitando nella folla che si faceva sempre più fitta e provocando diverse smorfie contrariate tra i suoi concittadini, Gynliae riuscì a raggiungere Hunithie, un elfo pallido come gesso e con un sottile naso aquilino che gli conferiva un elegante volto rapace: «Dov'eri finito?» gli intimò sottovoce «sei arrivato appena in tempo».

«Commissioni per Rhunön» disse Gynliae a mo' di scusa mentre con la coda dell'occhio vide Ydrë avvicinarsi agli scranni riservati ai nobili con Maydias, l'arma da lui forgiata, stretta al fianco. Per l'occasione aveva scelto un farsetto dello stesso viola dell'ametista che decorava il pomolo della spada nuova di zecca.

Oltre a loro due altri giovani elfi si erano riuniti alla base del palco. Li conosceva entrambi: Ilion era figlio di Ydrë ed orfano di madre, Arien invece era un ragazzo allegro i cui genitori erano stati entrambi Cavalieri rispettati.

Ilion si avvicinò con aria boriosa: «Ho saputo che sei stato tu a forgiare l'arma di mio padre. Quando l'ho saputo gli ho detto che secondo me Rhunön lo ha ingannato. Abbiamo pagato per una sua spada, non per una delle tue».

Non aveva idea del perché Ilion lo trovasse così antipatico. Era sempre stato così, fin da quando aveva memoria. Replicò stancamente alla sua provocazione: «Sì, sì, come dici tu. Perché non ti decidi a starmi lontano?»

Ilion gli rivolse uno sguardo sprezzante e si allontanò senza una parola.

«Dovevamo essere in cinque» lo informò Hunithie con tono risentito: «Credi che riusciremo a cantare l'albero con una persona in meno?»

Gynliae bofonchiò un "non so" in risposta. Non aveva bisogno che Hunithie gli mettesse altra pressione addosso e dopo il commento di Ilion i suoi nervi erano già a fior di pelle.

Fu in quel momento che la regina fece il suo ingresso accompagnata dalla corte e da Blagden, un corvo parlante candido come neve. Era stato re Evandar a conferire inavvertitamente al corvo le sue particolari abilità oracolari, conseguenza inaspettata dopo un incantesimo che in teoria avrebbe dovuto donargli solamente una lunga vita.

Islanzadi camminava altera verso il palco, le spalle coperte da un morbido mantello di piume di cigno e i capelli lunghi e neri, ali di corvo che sembravano aver derubato Blagden del suo colore. Gli elfi si scostarono per lasciare passare la loro regina portando una mano al petto nel consueto segno di rispetto rivolto ai reali.

A chiudere il corteo vi era una giovane elfa dagli occhi smeraldini che teneva per mano la piccola principessa Arya. Rhunön gli aveva raccontato che quella ragazza era l'unica sopravvissuta all'esplosione magica che aveva distrutto Doru Araeba e impedito a qualsiasi essere vivente di stabilirsi nuovamente a Vroengard. Anche i suoi genitori erano morti in guerra e a conferma di ciò Gynliae la vide dirigersi verso di lui e gli altri orfani.

Il bagliore di potere irradiato dalla sua pelle diafana non era normale, così come non lo era il timore reverenziale che Gynliae provò nei suoi confronti. L'elfa gli sembrò una creatura inafferrabile ed estranea, diversa da ogni altro alfakyn.

Firnen si unì al gruppo accennando un saluto a cui gli orfani risposero con movimenti del capo garbati, ma rigidi: Gynliae capì che anche loro si sentivano a disagio in sua presenza. Lei sembrò ignorare l'atteggiamento retrivo dei suoi compagni e si mantenne in disparte, riservando la sua attenzione al corteo composto da Islanzadi e dagli altri nobili che nel frattempo avevano raggiunto la pedana dalla quale la regina avrebbe pronunciato la sua arringa.

Si vociferava che la madre di Firnen fosse una parente alla lontana di Islanzadi, ma nonostante questo la regina aveva deciso di affidarla alle cure di qualcun altro quando dieci anni prima era arrivata a Ellesméra inspiegabilmente illesa. Si diceva poi che Leum, il drago di suo padre, le avesse salvato la vita. Il modo in cui ciò era accaduto era rimasto un mistero. Inizialmente quel punto di domanda aveva provocato accese discussioni in seguito alle quali gli elfi avevano espresso il loro verdetto imputando la salvezza di Firnen alla dea fortuna.

Quando la voce misurata della regina ruppe il silenzio Gynliae si riscosse dai suoi pensieri: «Popolo di Ellesméra. Nel decimo anno dalla fine della guerra, ci ritroviamo qui per commemorare i nostri caduti. Quante vite sono state strappate a causa dell'avarizia di un solo uomo! Quanta sofferenza e dolore subiti dalla nostra gente per colpa di Galbatorix! Piangiamo la fine dell'Ordine più nobile sulla terra, piangiamo la fine dei draghi e dei loro Cavalieri! Oggi siamo qui insieme, alfakyn, per guarire le ferite dei nostri cuori.»

Ad un cenno della regina Gynliae e gli altri orfani iniziarono a declamare le parole di potere. Si inginocchiarono e affondarono le mani nell'erba umida con le fronti aggrottate per la concentrazione. Il canto, flebile e basso, aveva iniziato ad aumentare di intensità lentamente per poi sovrastare ogni altra cosa. Le voci dei ragazzi si intrecciavano l'una all'altra avvinghiandosi come serpenti danzanti mentre gli altri elfi osservavano rapiti un tronco sottile irrobustirsi sempre di più e crescere, crescere, crescere...

Gynliae, che aveva chiuso gli occhi, aveva la sensazione che il tempo si fosse fermato. Udiva solo le voci dei suoi compagni unite alla sua... Cinque voci... No, sei voci... sei voci? Qualcuno stava cantando insieme a loro, una voce profonda e antica che rimbombò nella mente dell'elfo come un'eco ammaliante e spaventosa al tempo stesso.

Gynliae si lasciò guidare da quel richiamo ancestrale e sconosciuto, continuò a cantare e a perdersi nella melodia e nelle parole di potere dell'incantesimo fino a che il rumore di centinaia di mormorii eccitati lo riportarono alla realtà come un secchio d'acqua gelida.

Un'onda anomala di sbigottimento sembrava essersi infranta sul popolo di Ellesméra: intorno a lui gli elfi bisbigliavano o esclamavano stupefatti. Gynliae si voltò verso Hunithie in cerca di una risposta a quel fracasso, ma lui guardava dritto davanti a sé, gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse di fronte a un albero di pino talmente alto da toccare il cielo.

«Q-quello sarebbe il nostro albero?» chiese Hunithie con un balbettio rivolgendosi a nessuno in particolare.

«E io che mi preoccupavo che non ce l'avremmo fatta!» disse il figlio di Ydrë con un ghigno soddisfatto.

«Wyrda!» aggiunse Blagden gracchiando.

Gynliae si guardò intorno e notò che Firnen era l'unica a non mostrare alcuna sorpresa di fronte a quanto era appena accaduto. Al contrario, la ragazza sembrava spaesata, come se si fosse appena risvegliata da un lungo sonno.

Ad un tratto dalla folla emerse un elfo che si sorreggeva puntellando a terra un lungo bastone di legno. L'uomo si avvicinò alla ragazza, le sussurrò qualcosa all'orecchio e Firnen sembrò riscuotersi d'un tratto. Insieme si mescolarono alla folla e per un secondo, un solo secondo, la pelle diafana della ragazza risplendette come alabastro.

Qualche minuto dopo la calca di curiosi aveva iniziato a dissiparsi, ma i mormorii eccitati degli elfi non erano ancora cessati. Rhunön nel frattempo aveva raggiunto Gynliae esibendo il suo cipiglio più corrucciato e borbottando tra sé e sé: «Si può sapere cosa barzûl è successo?»

Gynliae aveva scosso la testa con decisione: «Non ne ho idea. Era come se qualcuno ci stesse aiutando».

«Chiunque sia stato, non avrebbe dovuto intromettersi» disapprovò lei «anche se ammetto che è stato divertente. La fronte di Islanzadi era così corrucciata che non mi sarei stupita se anche le piume del suo mantello avessero iniziato ad arricciarsi all'improvviso»

«Non era un alfa» bisbigliò Gynliae, immune all'ironia dell'elfa.

«Cosa?»

«Non poteva essere un elfo»

«Certo che no, Gynliae, devono essere stati almeno una decina. E anche ben addestrati negli incantesimi non verbali, direi»

L'elfo aggrottò la fronte. Incantesimi non verbali?
Gli alfakyn più esperti in effetti potevano usare la magia senza pronunciare le parole di potere, ma Gynliae aveva sentito quella voce. Estranea, distante, eppure pur sempre una voce vivida e reale così come poteva udire gli altri elfi attorno a lui: «Intendevo dire che non è stato uno di noi. Era qualcosa di totalmente diverso»

Rhunön scacciò la questione con un gesto della mano: «E chi altri potrebbe essere stato?»

«Anche Firnen se ne è accorta, ne sono sicuro. Sembrava smarrita al punto di non sapere dove si trovasse o cosa fosse appena successo.»

Rhunön lo osservò con rinnovato interesse, ma chiaramente non lo stava ascoltando: «La ragazza di Doru Araeba? Conoscevo suo padre, Ahorin. Era un Cavaliere straordinario. La sua era un'ottima spada, una bella lama verde foresta come le scaglie del suo drago...»

Le parole dell'elfa giunsero ovattate alle orecchie di Gynliae... Non riusciva a capire. Perché nessun altro sembrava essersi accorto di quella voce?

Si guardò intorno. La regina era ancora là, circondata da alcuni consiglieri che avanzavano ipotesi più o meno plausibili nel tentativo di spiegare l'accaduto o forse nella speranza di attirare l'attenzione della sovrana.

Blagden voleva basso sopra le loro teste declamando altri Wyrda! gracchianti di tanto in tanto. Gynliae ebbe un brivido e pensò a quel giorno a Ilirea, quando aveva intravisto alcuni avvoltoi volare in quello stesso modo sopra i cadaveri con cui avrebbero presto banchettato.

Frammenti sparsi di memoria gli si riversarono nella testa, un vortice caotico, confuso e orribile. Era uno di quei momenti. Ecco, poteva vedere una lunga freccia nera attraversare l'occhio di suo padre, poteva udire le urla strazianti dei feriti, poteva sentire sulle labbra il sapore del sangue e della terra e le mani di sua madre che cercavano di tenerlo stretto a sé mentre una folla in fuga di umani, elfi e nani lo spingeva sempre più lontano da lei...

Ora la voce misteriosa non appariva più così interessante. Voleva solo rientrare a casa, gettarsi sotto le coperte e dormire per il resto della giornata.

Gynliae si tastò la fronte. Era gelida, goccioline di sudore freddo gli colavano sugli occhi. Deglutì. Quando parlò, la sua voce sembrò non appartenergli: «Andiamo via».

Quando incrociò lo sguardo di Rhunön un lampo di comprensione attraversò il viso rugoso dell'elfa. Sapeva che avrebbe capito perché quando i ricordi del passato iniziavano a tormentarlo l'elfa se ne accorgeva immediatamente. In quei momenti gli occhi di Rhunön si addolcivano e lo scrutavano con la stessa intensità e benevolenza con cui si erano posati su un bambino zoppicante e smilzo come un giunco dieci anni addietro.

Rhunön gli porse una mano e Gynliae vi si aggrappò come era accaduto il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta: «Sei più pallido della lama di Vrael. Vieni, torniamo a casa».

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Eragon / Vai alla pagina dell'autore: Immiriel