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Autore: __0Chia0__    12/01/2024    1 recensioni
Shiho Miyano: una ragazza qualsiasi.
Sherry: una scienziata di alto livello dell'Organizzazione Karasuma.
Shiho Miyano è Sherry, Sherry è Shiho Miyano, ma solo in parte. Quanto di Sherry c'è in Shiho e quanto di Shiho è presente nella sua maschera? Dettagli, piccole sfaccettature, o qualcosa di più?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Akemi Miyano, Gin | Coppie: Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo II 

Frattura

 

«Elena, stiamo sbagliando. Dai retta a me. Shiho-chan è già forte e indipendente: lo vedi anche tu, non piange mai, è dura. Possiamo, ragionevolmente, discutere con l’Organizzazione, per fare in modo che la lascino con noi qualche mese o anno in più, ma abbiamo sempre saputo che non avremmo potuto tenerle solo per noi, se gli fossero interessate. Lo sapevo io e lo sapevi tu nel momento in cui abbiamo firmato il contratto».

Il laboratorio era buio pesto. I contorni si distinguevano a malapena, grazie alla debole luce del computer dell’ufficio, su cui la coniuge Miyano batteva, senza sosta, per rifinire il rapporto periodico. Sembrava non prestare attenzione alcuna alle parole del marito. Negli ultimi tempi, preferivano non discutere del destino della loro piccola figlia, a casa, per evitare di intristire Akemi. A dir la verità, tentavano di non parlarne affatto. L'avevano fatto diverse volte, a causa delle email e, infine, lettere di richiamo ricevute, ma finivano sempre per litigare. Se Atsushi puntava per una via più moderata, Elena si rifiutava di raggiungere un punto di incontro con la banda di assassini. Secondo lei, avrebbero dovuto ignorare le loro richieste. Voleva obbligarli a venire a prenderle la bambina a casa, se la volevano così tanto, e dovevano persuaderla faccia a faccia, oppure strappargliela dalle mani. Era oltraggioso scrivere due righe in cui si pretendeva di rapire una figlia di pochi mesi a una madre e a un padre, solo perché a quei loro stupidi test infantili aveva dato risultati “non solo superiori alla media, ma, addirittura, strabilianti” e dei tecnici da strapazzo, che avevano osato piazzare elettrodi sulla sua creatura, la pensavano così. Non temeva troppo le ripercussioni. Fino a quel momento, nessuno li aveva importunati in laboratorio. Anzi, Gin era stato più assente rispetto al solito.

Elena sbuffò. Molte volte si era battuta, insistendo sul loro diritto di avere, al minimo, un colloquio in merito. Mai, però, aveva voluto chiederne uno.

In quel frangente, invece, ignorava sia i malviventi, sia suo marito, con suo grande fastidio.

Atsushi scosse il capo, incrociando le braccia. «Fai finta di non capire».

 

Pisco visitava di sovente la famiglia Miyano. Il loro progetto lo interessava, particolarmente, e impegnava molto volentieri il suo denaro nella loro ricerca, sapendo che i due brillanti coniugi erano i capi. Inoltre, da quando la casa era abitata anche da quel piccolo prodigio appena nato, aveva trovato una nuova attrattiva, a giustificare la sua inaspettata presenza. Erano passati pochi mesi dalla nascita della minore e questa già pronunciava le prime parole. Molto di rado l'Organizzazione poteva vantare un nuovo acquisto tanto promettente. Non poteva lasciarsela sfuggire.

Pisco stesso si mise in contatto con Ano kata, il quale fu lapidario. La telefonata durò molto poco. Dopo aver dato le generalità della bambina, Ano kata, apparentemente già a conoscenza degli straordinari riscontri dati da Shiho ad alcuni test, di cui Pisco non sospettava l'esistenza, in modo sbrigativo, si informò circa l'atteggiamento dei genitori. Pisco non mancava, certo, di notare l'atteggiamento remissivo dei genitori nel mostrargliela. Elena, tra i due, era la più ostile. Dopo questa breve risposta, passarono dei secondi silenziosi. Pisco quasi pensò che la chiamata fosse terminata. Poi, Ano kata parlò.

«Bisogna convincerli».

Ma Hell Angel stava diventando un problema. Sembrava non volesse sentire ragioni. Le email furono cancellate e le lettere bruciate. Anche i progressi nella ricerca erano esigui. Iniziò a essere più brusca e oscura nei modi. Il cambiamento era tanto innaturale da fare diffondere voci ambigue.

Atsushi tentava di conciliare. Se, in precedenza, appena entrati nel gruppo, era parso il più duro e autoritario della coppia, adesso, a furia di sorrisi di scuse, era in balia della consorte. Si sentiva scoraggiato, sia in famiglia, sia al lavoro. Iniziò a sabotarsi. Voleva giungere all’infelicità. Scatenava dissapori con Elena per una richiesta disumana, che lo faceva deprimere, ogni notte. Otteneva risultati troppo buoni. Appena erano positivi, li buttava. Gli sembrava ragionevole.

 

«Elena! Non farmi dire quello che rischiamo, opponendoci in questo modo, senza riserve. La ricerca», continuò, alzando la voce, spazzando via i fogli alla destra della moglie, «è sul punto di essere fermata. Non possiamo continuare e nemmeno comportarci come se fossimo indispensabili, qua. Quante pagine hai scritto? Due, tre? Preferisci che le nostre figlie crescano da sole, in totale balia di quei mostri, oppure che possano contare sulla nostra presenza, forse non costante, ma almeno a distanza?»

Elena era assente.

 

Teneva in braccio Shiho. Era il suo primo compleanno, ma la mamma non sembrava molto entusiasta. Akemi voleva, a tutti i costi, prendere sulle spalle la sorellina, eppure Elena preferiva stringerla lei, quasi gelosa. Nell’ultimo periodo, era diventata un pelo paranoica. Era già abituata agli strani controlli a cui i medici e gli esperti dell’Organizzazione sottoponevano i nuovi nati e gli infanti, avendo visto farli, quasi allo stesso modo, alla sua bimba maggiore, tuttavia le visite prescritte per Shiho erano più numerose. Oltretutto, almeno una volta a settimana era costretta a lasciarla all'asilo nido e, tornando a prenderla, le sembrava di trovarla cambiata. Mentre a casa era trattata da neonata, com'era giusto che fosse, circondata di giochi e di amore, dopo quel periodo di lontananza, si metteva molto seria a disegnare strane immagini, rigorosamente con il pastello o il pennarello nero, che variavano da figure geometriche a inquietanti mostri informi (troppo chiari per la sua età). Atsushi, il più positivo della coppia, si abbassava accanto a sua figlia per insegnarle i nomi dei solidi più semplici, oppure le sostituiva il foglio scarabocchiato con un depliant di moda o del supermercato. In questo caso, Shiho tornava, subito, a ridere, sfogliandolo e distruggendone le pagine. Diventava, di nuovo, la loro dolce bambina.

Ogni tanto, si chiedeva se non fosse una buona idea scrivere delle lettere per la sua piccolina in rosso. O, meglio, registrare delle cassette. Una per ogni anno di età sarebbe stato l’ideale. Un regalo di compleanno a distanza, quando gliela avrebbero strappata via. Un ricordo per colmare lo spazio immenso che le avrebbe separate. Se di spazio si poteva parlare, tra vita e morte.

 

Il silenzio poteva spaccare i timpani.

Elena emise un filo di voce: «Atsushi».

Suo marito, tremando appena, si appoggiò al muro del laboratorio. Elena lasciò che il computer andasse in stand-by. I due si osservarono attraverso la schermata nera e lucida. Si conoscevano perfettamente. Elena non avrebbe ceduto e mai Atsushi avrebbe agito contro il suo volere. Costasse quel che costasse.

«Non gli consegnerò nessuna parte di me di mia spontanea volontà. E le mie figlie sono più preziose di qualunque cosa mi appartenga. Hanno più valore di qualsiasi mia parte del corpo».

 

Quando entrambi i suoi genitori erano a lavoro, Akemi restava a scuola tutto il giorno, finché non la venivano a prendere, in macchina. Odiava, profondamente, quel posto. Non era riuscita a farsi nemmeno un amico e, durante le lezioni, preferiva disegnare, piuttosto che risolvere problemi noiosi. Alla fine, aveva passato il suo secondo anno di scuola elementare in linea con gli altri tetri alunni. In ogni caso, aveva deciso, con l’approvazione di mamma e papà, di cambiare istituto, l’anno successivo. Avrebbe frequentato una quinta elementare, invece di una quarta, facendo i necessari test di ingresso. Magari avrebbe trovato delle amiche normali e, finalmente, sarebbe tornata a casa da scuola a piedi, insieme agli altri bambini, che invidiava, quando vedeva camminare a gruppi da soli, per strada.

 

Un’esplosione ruppe la notte silenziosa.

 

Quel giorno, mamma e papà non andarono a prenderla.

Capitava di frequente che dovesse restare con le maestre dell’Organizzazione fino a sera, tanto che la sottoponevano a compiti integrativi, quando sembrava non aver nulla da fare. Tuttavia, i distinti signori Miyano non mancavano di passare prima dell’ora di cena. Erano già le nove di sera di una oscura giornata di febbraio e Akemi era preoccupata. A quell’ora, le insegnanti, in servizio fino alle sette e mezza in punto, avevano lasciato l’istituto e consegnato l’alunna a due sorveglianti di un magazzino poco distante. La signorina Hirotima, che la chiamava, a tutte le lezioni, per leggere i brani di antologia, le aveva preso la mano, stranamente gentile, durante la strada verso l’edificio e l'aveva condotta, con una certa accortezza, in una stanzetta, grigia e semplice, al piano interrato. Akemi era stata fatta accomodare, senza troppo complimenti, su un divanetto scomodo e polveroso, e, da quel momento, non si era più mossa.

Dopo un tempo indefinito, almeno per lei, una donna di mezz’età, in sovrappeso e con una brutta faccia bitorzoluta, scorbutica le aveva imposto di sistemarsi in un cubicolo, privo di finestre, per la notte. La mattina successiva avrebbe dovuto farsi trovare puntuale a scuola. Ci sarebbe andata con le sue gambe, ripercorrendo il percorso che le aveva mostrato la maestra.

Akemi sapeva che le stavano nascondendo qualcosa. Riusciva a sentire anche la verità che nessuno, fino a quel momento, aveva voluto dirle. «Dove sono la mia mamma e il mio papà?»

La signora non le rispose.

Akemi, così, si unì a quel gruppo di ragazzi che andavano e tornavano da scuola a piedi e in gruppetti, come aveva desiderato. Eppure, contrariamente alle sue aspettative, rimpiangeva, con tutto il cuore, i tempi in cui i genitori le davano un bacio in macchina, all’entrata e all’uscita, poco lontani da scuola. Probabilmente, le sarebbe piaciuto di più se avesse potuto trascorrere i pomeriggi a casa sua, con la sua famiglia, e non chiusa in quattro tristi mura.

 

Elena fu scossa, all'improvviso, da un forte tremore. Il marito buttò all'aria le carte sulla scrivania, per abbracciarla più forte possibile. I loro cuori battevano allo stesso ritmo impazzito, le loro lacrime scendevano alla stessa velocità, senza tregua. «Atsushi, amore, ti prego, fai che non sia oggi, Akemi-chan… Shiho-chan…»

«Va tutto bene, tesoro, adesso…» un singhiozzo lo interruppe, «dobbiamo… solo trovare una via di uscita».

Ma Elena non sembrava pensarla allo stesso modo. Lo strinse con tutte le sue forze, trattenendolo, schiacciando il volto nell'incavo del suo collo. «Pensavo di avere più tempo… Il rapporto andava consegnato domani… Amore, perdonami, perdonami, perdonami, è colpa mia».

«Non è colpa tua, amore mio. Sono stato io a trascinarci in questo».

«Le nostre bambine… cosa gli faranno?»

Atsushi guardò il soffitto, chiudendo gli occhi. «Le cresceranno. Avranno ottimi insegnanti. Akemi vivrà la sua vita».

«Ma Shiho?»

«Sarà meglio di noi. Finirà quanto abbiamo iniziato».

«La uccideranno».

«È già morta, Elena, lo sai».

 

Akemi piangeva a dirotto, emettendo gemiti senza trattenersi, il giorno del funerale di Elena e Atsushi. L'orfanotrofio dell'Organizzazione era ancora peggio della scuola, per quanto stentasse a crederci. Non vedeva Shiho da giorni e la sua impotenza l'avrebbe mandata su tutte le furie, se non fosse stata troppo triste per farlo.

Temeva il futuro come mai prima aveva fatto. Non era più stata a casa sua, dall’incidente. Sentiva una infinita nostalgia dei suoi genitori, in particolare, e con loro della normalità, che comportava la sua stanza tinteggiata di rosa, i suoi peluche e il suo orsetto preferito, con il papillon fucsia, che la sua mamma le aveva fatto con un pezzo di stoffa. Voleva i suoi album di disegno e desiderava giocare, di nuovo, ad acchiapparella con il suo papà, che le strappava, sempre, un sorriso.

Non aveva mai pensato alla morte, prima di allora. Credeva che i suoi genitori non l'avrebbero abbandonata, per nulla al mondo. Ascoltando la funzione, pensava di essere nel posto sbagliato. Le poche persone che le davano un abbraccio o un buffetto sulla guancia dovevano aver capito male, come lei, d'altronde. Poi, però, la trascinarono all’interramento.

Tornata all’Orfanotrofio, dopo aver visto le bare dei suoi genitori calare nella tomba di famiglia -orribilmente anonima-, una sorvegliante la riportò, direttamente, nella sua stanza. Di punto in bianco, la fece voltare con uno strattone. Aveva le guance solcate di lacrime e le sembrava di respirare a fatica. Era così da giorni. Uno schiaffo -il primo mai ricevuto- le arrivò dritto sulla guancia. «Smettila,» ringhiò. «È finito. Non puoi più permetterti questi pianti inutili, alla tua età. Da quanto mi hanno riferito, tua sorella già non ci pensa più».

Akemi sentì il sangue arrivarle alla testa. «Sarà perché non è umana quella e non prova emozioni!»

La punizione era stata meritata, quella volta.

Non si era mai sentita così cattiva.

 

«No, no, no, è viva, respira, mangia, beve, piange, parla già, si muove, ride».

 

Shiho non ricordava i suoi genitori. Di loro, aveva solo qualche fotografia, dei nastri con la voce di sua madre, uno per compleanno, degli articoli di giornale e qualche videocassetta, che, però, teneva Akemi. Esisteva anche una tomba, a cui da sola non sarebbe riuscita ad arrivare. A malapena sapeva in quale cimitero fossero sepolti.

I suoi primi anni di vita erano un totale oblio. Restavano vivi pochi momenti, nella sua memoria, e del tutto incomprensibili.

Se, di tanto in tanto, era attirata verso qualche colore o passatempo, pensando che a sua mamma o a suo papà sarebbe piaciuto, ciò non vuol dire che perdesse tempo a invocarli o piangere la loro scomparsa. Stentava quasi a riconoscere di essere nata da un uomo e da una donna, i quali, in circostanze migliori, avrebbe chiamato mamma e papà. Da piccola, si sentiva un po' persa, a dir la verità. Molto diversa, rispetto agli altri.

Se un insegnante faceva qualche battuta sui genitori o un altro bambino o ragazzo si lamentava delle regole troppo strette imposte dai loro tutori biologici, Shiho incrociava le braccia e guardava in basso. Nella sua mente, ripeteva la tavola periodica o, quando ancora non studiava la chimica ad alto livello, una poesia. Era fortunata ad avere una sorella premurosa, la quale le scriveva una lettera appena possibile e le inviava CD, disegni e cartoline di ogni viaggio. Ci metteva un po' e la corrispondenza era saltuaria, ma non dubitava mai della presenza di Akemi. Se la sentiva accanto, in un angolo del suo cuore.

Di tanto in tanto, chiedeva se potesse vederla o, almeno, chiamarla al telefono. In genere, glielo impedivano. Allora, prendeva un libro e si metteva a studiarlo. Si convinceva che la sua priorità era conoscere. Voleva scoprire il più possibile, più di tutti. Il resto era trascurabile.

 

«Respira, ma non le batte il cuore».

 
   
 
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