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Autore: Loony_is_in_love    12/01/2024    0 recensioni
[John Doe]
Che Lyssa fosse nel giusto o nel torto, che ciò che era successo in Italia fosse stata effettivamente colpa sua non importava più a molto, e non perché ciò non avesse comportato un cadavere, ma perché Alyssa sarebbe morta lo stesso.
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[John Doe/NotYou!Oc]
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Eccolo lì, la tua variabile impazzita preferita, nervoso come un teenager al ballo della scuola.
John Doe se ne sta sull’uscio del locale, le mani artigliate strette tra di loro, entra vagamente titubante, pigolando un “Buona sera” per nulla convinto e cominciando a percorrere le file di scaffali, gli occhi gialli puntati su nulla in particolare.
Tu lo osservi, poggiata pigramente coi comiti sul balcone, lo osservi come un falco osserva un gattino che gironzola in un prato, la tua preda.

Ad essere completamente sinceri non riesci a pensare che quell’imbranato ragazzo -uomo?- possa essere -e con ogni probabilità sia- uno stalker, ti sembra così impacciato mentre prende una scatola di croccantini per cani, se la rigira tra le mani per qualche secondo e poi la rimette a posto quasi facendosela sfugge dalla presa, rosso e sudaticcio.

È vestito come ieri, con la medesima felpa drappeggiata come una sciarpa sulle braccia pallide.

Lo stai ancora fissando intensamente quando questo ti si avvicina con fare nervoso, scolli i gomiti dal bancone e ti rizzi in piedi, come un serpente pronto a scattare, anche John sembra notare la tua insistente attenzione, deglutisce rumorosamente, senza mai osservarti direttamente in viso.
«Mi scusi -pigola- mi chiedevo se aveste una macchinetta per il caffe dentro, quella fuori è fuori servizio.»
La macchinetta accanto al distributore automatico di bibite è rotta da almeno due mesi e non conforme alle norme di sanità pubblica da almeno vent’anni, lo sai bene, non sai però come e quando John se ne sia accorto, non da segni di averti riconosciuta, ti da del lei e non si approccia in modo diverso da come è normale approcciarsi ad uno sconosciuto.

Questa resta comunque la tua migliore occasione per avere a che fare con l’unica variante umana -più o meno- del loop, sfili le chiavi della sala staff dal cassetto sempre aperto del bancone.
«Non è per i clienti ma ce ne è una in sala staff, vieni ti ci porto.»

«Eccola qui!» trilli allegra, inserendo la spina della macchinetta staccata per “risparmiare energia” tirchi di merda.
«Ci mette un po’ a scaldarsi, allora, che ci fai di bello da queste parti?» perfetto, non troppo familiare, non troppo distaccato; l’esca perfetta.
John ti occhieggia di scatto, come se non si aspettasse gli parlassi; vagamente sudaticcio, in palese contropiede.
«Nulla!» afferma quasi sulla difensiva -suspicious as fuck my boy- «cercavo un posto dove bere un caffe.» si riprende improvvisamente, tentando di aggiustare il tiro; inarchi un sopracciglio quasi divertita.
«Nel bel mezzo della notte?» John arrossisce.
«Non posso dormire ora.»
«E non hai caffe a casa?»
«Io-» la macchinetta tintinna, troncandoti un’opportunità d’oro; ma avresti allentato la corda lo stesso, sei sicura che se John continuasse a sudare così presto o tardi finirebbe per sciogliersi completamente.
«Ah la chiavetta vero» 


Non hai la più pallida idea di come definirlo ma nell’istante in cui ti volti nuovamente verso John, la chiavetta in mano, pronta a fare un caffe John Doe è diventato John Doe.
Perché questo John non è John, cristo nemmeno sai chi sia l’uomo davanti a te, i capelli troppo ordinati, i denti troppi pochi, troppo bianchi; arretri di qualche passo, ignorando il più possibile il male agli occhi che improvvisamente ti trapassa come uno spillone in ogni bulbo oculare.

«Signorina sta bene?» ti porge una mano a cinque -cinque?- dita, senza davvero toccarti, come se potesse sostenerti a distanza.
«Io... io no, scusi sono di fretta.» John ti osserva con gli innaturali occhi falsi che indossa per occhi, un sentimento di tristezza dilaniante dietro una facciata speranzosa.
Riesci a scrutare il momento esatto in cui le tue parole gli raggiungono veramente il cervello.
Senza nemmeno ben sapere perché tu abbia proprio scelto quel tipo di parole.
«Oh. Mi perdoni non volevo disturbarla.»
«No no; io, davvero, io- sono addolorata, non so non voglio fare casini.»
Le parole ti si incastrano in gola, un conato ti sale fino all’esofago e solo per miracolo lo ributti giù, la stanza ha iniziato a vorticare, ti senti debole, poi non senti più nulla.





La sveglia suona, e poi suona ancora, la senti solo al quarto rinvio.
Wednesday 8th November 2:34 AM
Nonostante il ritardo i tuoi vicini scopano ancora, bhe beati loro.

Fai tutto di corsa, le tempie che ti esplodono non ti lasciano molto spazio per pensare a come tu ci sia effettivamente finita a letto, corri fino alla stazione, giusto in tempo per percepire il classico vuoto d’aria che il 122 in sorpasso ti lascia addosso.
2:51, non ne sei nemmeno stupita.
Ti fai coraggio, accumulando quanta più lucidità mentale il tuo cervello da solo riesca a evocare senza l’ausilio degli psicofarmaci che ovviamente sta mattina ti sei dimenticata nella fretta di correre a lavoro -капиталистические свиньи!-.
Non vuoi ripetere un altro “Incidente Meg”.
Per fortuna questa non ti sta aspettando alla porta, già pronta a staccare.
Strano.
La campana automatica tintinna come le porte scorrevoli si azionano e ti accolgono al loro interno.
Nella stazione regna un silenzio assordante, intervallato dalle ventole degli scaffali frigo, intente a ronzare nel silenzio più assoluto.
«Meg?» ti senti strana, a disagio, sfoderi il telefono e leggi per bene la data Wednesday 8th November 2:58 AM non sei impazzita, anche oggi, come ieri -ha ha bella battuta- è ieri.
Chiami di nuovo il suo nome, questa volta digitando anche il suo numero di cellulare. 

Dalla sala staff si propaga la melodia tacky di “Baby one more time”; sospiri a pieni polmoni, se non c’ha già pensato qualcun altro mo la uccidi.

«Meg, sfaticata del cazzo guarda che tu sei ancora da cartellino qui.» gridi annoiata, per dissipare la tensione che una variabile così grossa nel tuo loop ti ha creato.


Il cellulare vibra amplificato dal metallo del tavolo su cui poggia, lo schermo illuminato nella stanza buia.
Non c’è nessuno.

Ribalti la stazione del gas come un calzino, uno spettacolo molto divertente per chi ispezionerà i nastri di sicurezza, i bagni, la sala staff, le caldaie -Dio porco le caldaie- perfino lo scaffale frigo, nel petto la speranza di trovare Meg casualmente riordinata in uno scaffale a random.
Ma nulla, sei inequivocabilmente sola.

Senti di stare per avere un attacco isterico.
Meg è una variante quindi?
Oddio e se il fatto che tu abbia cambiato lo svolgimento della vostra conversazione ieri le abbia causato qualcosa?
Ma che cosa?
Ti arrovelli come una scema -cogliona tu che non hai preso i farmaci oggi- sugli stessi tre pensieri.
1- È morta
2- Ha la caghetta
3- È a casa a scopare con Gerard.

E giuri sul signore quanto è vero che ti chiami Alyssa che se è vera l’opzione tre rendi vera la numero uno con le tue stesse mani -la due è perfettamente comprensibile e scusabile-.

Il cellulare nella tasca dei tuoi pantaloni squilla, la vibrazione un’ancora di salvezza nel mare della paranoia in cui ti stai auto affogando.
«Pronto?»
Un secondo di silenzio, click «Weirdaphone, servizio clienti, io sono Cortana il tuo ass-»
Gridi, gridi più forte che puoi e scagli il cellulare a terra, spaccandolo in mille pezzi.
Non può essere vero, non ora che inizia a capirci qualcosa.

«Mi scusi.»
La donna del camion ti attende al bancone, uno sguardo preoccupato sul viso, gli occhi su di te, poi sul telefono in mille pezzi.

Ansimi, senza nemmeno volerti immaginare vista da occhi estranei.
Ti senti osservata, a dire il vero ti senti osservata da quando hai messo piede in stazione ma te ne accorgi per davvero solo ora.
La signora sicuramente lo sta facendo.
«Sa come è… Call center, sempre più fastidiosi.»
La dona non risponde.
Malboro rosse, rigide, banconota da sei, uno di resto.



Afferri la cornetta e infili le monete a manciate nello slot, il numero di casa è un gesto inusuale sulla punta delle tue falangi; ti aggrappi alla cornetta come una disperata, gli occhi strizzati.
L’auto parlante suona e inizia a squillare, qualcuno risponde dall’altro capo.
«Pronto?»
«Mamma!» lo gridi, sollevata.
«Alyssa tesoro, come stai, ci sei mancata a Natale.» l’orologio al tuo polso segna le 4 di mattina dell’8 Novembre, non hai la più pallida idea di che ore siano lì da loro -e se è per questo nemmeno giorno a quanto pare-, tralasci il conato di vomito che l’affermazione ti fa salire; l’interno della cabina un vortice di vetro e metallo; il tempo è un ammasso confuso di fili che ti si attorcigliano in testa e per qualche strana ragione senti che la nuova informazione appena ricevuta -logicamente- dovrebbe farti crollare in un panico ancora più furioso, e invece la accetti, come accetteresti la correzione su di una data qualsiasi.
«Che giorno è oggi?» «Il dodici» «No oggi è l’undici» «Ah hai ragione.»
Fine della storia, così.
«Anche voi, con il lavoro…» lasci a metà, sperando mamma possa capire le tue parole.
«Ma va tutto bene, hai bisogno?» eccola lì; la domanda fatidica, oddio non proprio, in realtà non importa, non è il colpo di grazia, stai già piangendo silenziosamente da quando il primo ramino è scivolato dalle tue dita alla cassetta delle monete.
«No, no va tutto bene, volevo solo salutare.» col culo, la verità è che la voce di tua mamma ti ha sempre calmato, fin da bambina, quando la tua unica fonte di panico era la paura di doverti cavare i dentini da latte.
Senti tuo padre in lontananza dire qualcosa, tua mamma ridere.
Ti manca quell’atmosfera, quell’aria di gioia disimpegnata, persistente, che non va inseguita o costruita con più lacrime che sorrisi.
«Ti saluta anche papà.» Sorridi, anche se sai non possano vederlo, è un bene non possono farlo, sei un macello, si preoccuperebbero il doppio se ti vedessero ora.
Sono 213 giorni che sei pulita -almeno quelli che hai potuto contare- e hai preso qualche chiletto ma l’aspetto malato e morente ti è rimasto tra le vene dei polsi.
«Dagli un bacio.» Tua madre sospira, e tu ti bei della concezione lo faccia ancora, che sia ancora lì, viva e vegeta, e nonostante tutto ancora disposta ad amarti.
«Tesoro, non credi sia arrivato il momento di tornare a casa…»
Passa una macchina sulla strada che costeggia la cabina telefonica a lato della stazione, i fanali ti inondano di luce giallastra sottraendoti al neon freddo sulla tua testa.
«Sto bene, mi piace qui.»
Tua madre sospira ancora dall’altro capo e ti fa strano riuscire a percepire attraverso solo quel singolo dato sia invecchiata, «Non è stata colpa tua Alyssa.»
«Adesso devo andare mamma, volevo solo sentirti, mi mancate, vi voglio bene.»
«Ci manchi tanto anche tu bambina ti prego-»
Riattacchi prima che possa chiudere la frase, la mano ancora salda alla cornetta e il viso basso.
Piangi ancora per qualche minuto.
Tanto il tempo a te non tocca.


Un ragazzino sui vent’anni ed un uomo d’affari, dopo di che sei lasciata a te stessa per le successive sei ore.
Non credi ci sia mai stato giorno in cui tu abbia desiderato più ardentemente di oggi di cavarti la vita.

You ti da il cambio alle 11 e 35, 5 minuti in ritardo, non ti importa, non ti è mai importato perché dovrebbe iniziare a farlo ora, proprio ora che sai non potrebbe -dovrebbe- mai più cambiare, le porgi una sigaretta, le scarmigli i capelli e tiri dritto verso casa.


I sonniferi hanno un peso diverso sulla tua lingua, almeno oggi. 
Come se oggi significasse più qualcosa.





La sveglia trilla, il cellulare si illumina mentre cerchi di capire che giorno sia -di nuovo-
Wednesday 8th November 1:58 AM il tuo cellulare è intonso.
I tuoi vicini scopano anche oggi, ma tu questa volta non hai tempo per nulla.
Nella stanza malamente illuminata dai lampioni in strada si propaga il suono macchinoso del numero composto a memoria.

«Se chiami per dirmi che sei malata ti strozzo.» 
La voce di Meg riempie l’autoparlante che tieni pressato al viso come se non farlo ti impedisse di percepire per bene tutto ciò che ti dice.
Il cuore ti si riempie di gioia.
«No zoccola, sono in anticipo, passo dal bar, vuoi un cappuccino?»
Meg ulula d’all’altra parte del telefono, probabilmente saltellando pure.
«Uhh si si, cappuccino grande due di zucchero e uno shot di sciroppo; grazie cuore ti amo tanto.»
«Hai clienti?» chiedi in un secondo, quasi terrorizzata possa metterti giù «No perché?»
«Fammi compagnia ingrata.» 
Di Gerard e delle sue red flag ne hai piene le palle ma la voce di Meg, stabile, presente, lì ti rassicura oltre ogni misura.

Non hai la più pallida idea del perché il bar dall’altro lato della strada di casa tua sia aperto alle 2:15 di notte, ma lo è sempre stato pertanto non ti fai altre domande inutili.
   
 
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