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Autore: Glenda    23/01/2024    4 recensioni
In un mondo in cui la magia è rara e con un grande peso politico, ed i maghi figure temute e inquietanti, Heze, un giovane viaggiatore dal cuore limpido e il carattere solare, viene ingaggiato da uno di loro perché lo accompagni fino alla capitale a consegnare un messaggio segreto. Ma la persona con cui si trova ad affrontare questa avventura è completamente diversa dalle aspettative che si era costruito: svagato, onesto, gentile e smaccatamente vulnerabile, Yèlveran diventa per Heze un mistero da svelare, e finisce per legarsi a lui al punto di farsi trascinare in un complotto che potrebbe costare la vita a entrambi...
Storia di avventura con una componente politica, ma principalmente focalizzata sulla relazione tra i personaggi (a cui sono affezionatissima e dei quali ho volentieri indugiato nel descrivere i pensieri). Un bel po' di bromance e molto drama.
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando arrivarono ai piedi del ramo orientale dei Monti di Vetro erano ancora piuttosto indietro sulla tabella di marcia, ma avevano comunque recuperato alcuni giorni e il tragitto che li aspettava era molto più agevole in confronto al Valico del Vento, innanzi tutto per la minore presenza di mirdev, e poi perché i versanti erano più dolci e l’altitudine inferiore.

“Ma c’è una probabilità su due di incontrare altri neshpa! Ormai staranno uscendo dal letargo!”

Heze studiò il suo compagno per vedere che faccia avrebbe fatto alla notizia, ma lui si strinse nelle spalle e disse: “Beh, tanto ci sei tu che ci vai d’accordo.”

Era proprio vero che le insidie del viaggio lo turbavano meno rispetto alle relazioni umane: di fronte alla natura, il suo spavento soccombeva alla meraviglia.

Raggiunsero Pedimonte prima del calare del sole e si fermarono in una piccola locanda che Heze conosceva: il Valico Basso era un punto di passaggio abbastanza frequentato rispetto a quello del Vento; i mercanti con carichi leggeri ma preziosi, i messaggeri, alcuni viaggiatori lo utilizzavano come scorciatoia per arrivare da Lafargau a Capovalle o a Ponte al Lungo, e Pedimonte, per quanto cittadina di poche anime, aveva fatto di questo viavai una fonte di guadagno, se non altro nella buona stagione.

“Non aspettatevi lo stesso calore che abbiamo ricevuto a Marvino: qua non sono amico della proprietaria. A meno che…” gli strizzò l’occhio “voi non vogliate presentarvi come un Persuasore in missione!”

L’altro scrollò le testa senza aver colto, nemmeno quella volta, la battuta.

“Meglio di no, credo.”

“Eh già,” la scrollò a sua volta Heze, rassegnato “meglio di no.”

Il posto era un piccolo edificio di due piani, asimmetrico, con un tetto a spiovente su un solo lato ed un pezzo di legno intagliato a forma di casetta, che pendeva da una trave, appeso a due catene arrugginite a fungere da insegna. La porta era aperta su una corte condivisa con altri due edifici: una casa dalla stessa struttura e una legnaia.

Heze diede un’occhiata generale dalla soglia studiando i presenti prima di entrare.

“Il locandiere è a posto,” disse, come a dover giustificare quella cautela “ma non è uno sveglio, e dal Valico Basso passa anche brutta gente.”

“Non sarò certo io a insistere per socializzare,” sorrise l’altro “desidero solo poter lavare me stesso e i miei vestiti prima di affrontare la mia seconda esperienza di scalata.”

Togfaran era un ometto piccolo e canuto con baffi spessi come setole: gestiva quel posto da tutta la vita, ma non brillava per buona memoria, tanto che Heze dovette ripresentarsi, come faceva ogni volta che passava di lì, nonostante, tra un viaggio e un altro, gli capitasse di vederlo piuttosto spesso. Era un tipo posato: fermarsi da lui significava rassegnarsi ai suoi tempi, mangiare sempre la stessa cosa e accettare di sentirsi porre la stessa domanda due o più volte, ma il posto era pulito e i letti comodi e il suo compagno di viaggio apprezzava quel genere di dettagli.

 

Yèlveran fu contento che Togfaran gli avesse servito le nuvolotte: oltre al fatto che gli erano piaciute molto, ormai associava quel sapore ad una sensazione di cura che lo faceva sentire a casa. Aveva altri ricordi di quel genere – la mano di Luxei sulla sua testa, il profumo delle tisane di Garlan, ancora Luxei che gli scrollava la spalla quando si addormentava nel chiostro – ma quello era il primo fuori dall’enclave e il primo legato ad una situazione sociale che non gli facesse paura. Istintivamente portò la mano in tasca e ci trovò la biglia che Fortuna aveva voluto ad ogni costo dargli quando si erano salutati: gli attori erano stati davvero gentili con lui, era contento che Heze gli avesse forzato un po’ la mano trascinandolo sul loro carro. E non aveva neppure dovuto forzare più di tanto: Heze riusciva con naturalezza a fargli attraversare le persone così come gli aveva fatto attraversare il Valico del Vento. Gli dava parole a cui appoggiarsi. Parole facili. Sicure. Guardate la mia schiena. Tenetevi alla corda. E ancora: Condividete una bella giornata con me. La felicità è un vostro dovere.

Rendeva le cose solide e chiare: quando era con lui, il mondo riusciva a sembrargli un posto amichevole e in certi momenti finiva pure per illudersi che lo fosse realmente.

“Heze,” chiese “a te chi ha insegnato a…” cercò la domanda giusta massaggiandosi la fronte con le dita “a vivere nel mondo?”

Lui lo guardò per qualche attimo con divertita perplessità e poi rise.

“Ehi, vi rendete conto delle domande buffe che fate?”

“È una domanda buffa?”

“Presuppone che a vivere qualcuno ti debba insegnare. Sì: è buffa. È come se mi chiedeste chi mi ha insegnato a camminare: a meno che non ci sia qualcosa di rotto, prima o poi succede.”

“Qualcosa di rotto. Mm.”

Heze si versò del vino, fece per offrirlo, poi si ricordò e rimise la brocca a posto.

“Ognuno impara cose diverse: quelle che ho imparato non sono quelle che avete imparato voi, ma non esiste un’arte del vivere nel mondo. Io ho dovuto imparare molto in fretta a sopravvivere, a mangiare poco e male, a difendermi… e poi ho imparato a orientarmi, a viaggiare, a scegliere di chi fidarmi o meno. Ma nulla mi garantisce che tutto questo mi servirà per svegliarmi vivo domattina: oggi, magari, potrebbe capitare che mi sarebbe servito quello che sapete fare voi. Per questo gli esseri umani sono fatti per cooperare: solo che molti non lo capiscono e… ”

La porta della locanda si aprì, e la figura che si stagliò sulla soglia catturò subito l’attenzione di Heze. Era un uomo imponente con una cicatrice sul viso, seguito da altri due uomini, uno anch’egli grande e grosso, l’altro che sembrava sparire al confronto. Togfaran si affrettò ad andar loro incontro con un’urgenza piena di timore, scambiò qualche parola con lo sfregiato, che pareva il capo, e li guidò a sedere ad un tavolo vicino alla porta sul retro mentre un muto disagio serpeggiava tra i presenti.

A Yèlveran non ci volle molto per rendersi conto che i due più alti erano armati e non avevano alcuna preoccupazione di nasconderlo: non erano militari, però, né dovevano far parte, dal modo in cui si erano posti, di un qualche Guardia locale agli ordini di un magistrato.

“È il tipo di brutta gente a cui ti riferivi?” chiese sottovoce alla sua guida, ma l’espressione che trovò sul volto di Heze non gli piacque affatto. La sua postura era tesa e i suoi occhi avevano assunto un’espressione che Yèlveran non vi aveva mai colto: non allarme o diffidenza, ma qualcosa di molto vicino alla tristezza. Stava fissando i movimenti del più piccolo del gruppo, una figura minuta coperta da un ampio mantello con cappuccio che sedeva a disagio accanto all’uomo con la cicatrice. Anche Yèlveran spostò lo sguardo in quella direzione e fu allora che si accorse di due cose: che l’oggetto dell’interesse di Heze era un ragazzo – o forse una ragazza – eshkarti e che al suo polso era appesa una catena.

“Non guardateli in quel modo. Sì, è brutta gente. Orrenda.” Yèlveran non reagì subito, allora Heze lo scrollò per una spalla bruscamente “Mi avete sentito? Non fatevi notare!”

Non era abituato a vederlo tanto in allarme: ubbidì, abbassando la testa sul piatto.

“Chi sono…?”

Il ragazzo lanciò un’altra occhiata in tralice al prigioniero e serrò le labbra.

“Mercanti di schiavi. Passano da qui per raggiungere la piana di Feuzte, perché sulle strade principali ci sono i controlli. A meno che” aggiunse con disprezzo “non abbiano già un compratore abbastanza importante. In tal caso, dimenticheranno tutti di averli visti.”

Yèlveran si intendeva poco o niente di faccende come quella, tutto ciò che sapeva aveva a che fare coi suoi studi e con l’educazione ricevuta da bambino.

“La Grande Legge vieta la schiavitù.” avanzò, incerto “Contraddice il Valore dell’Umanità.”

“La Grande Legge vieta anche l’omicidio, e il furto, e un sacco di altre cose, e non per questo non accadono. Scommetterei una mano sul fatto che persino nelle case delle Famiglie possono essere scovati schiavi eshkarti acquistati per sesso, intrattenimento o come ornamento: a Feuzte e dintorni quelli come noi appaiono esotici.”

Un’altra occhiata al ragazzo in catene, che per un attimo parve ricambiare lo sguardo. Non doveva avere nemmeno quindici anni e aveva occhi grandi e scuri, come quelli di Heze.

“Dove sono nato io, la gente muore di fame,” proseguì “e non è solo un modo per modo di dire che c’è povertà. Si muore di fame davvero e di questo la Grande Legge se ne fotte. Dar via un figlio ne può salvare un altro… Ma la gente come questa si sente in pace con la coscienza perché in fondo ha solo acquistato: il crimine morale lo hanno commesso i selvaggi dell’altopiano che vendono i bambini, non i ricchi oziosi che li comprano.”

Era la seconda volta che lo sentiva accalorarsi così: la prima era stata a Marvino, quando lui gli aveva prospettato l’eventualità di non fare niente per salvare la giovane suicida dal destino che si era scelta, e Yèlveran si rese conto con timore che, come quel giorno, se adesso Heze avesse chiesto la sua complicità lui gliela avrebbe data, pur ritenendo qualsiasi tipo di intervento, in una situazione del genere inutile, e persino controproducente.

La chiarezza di quella sensazione era disorientante.

“Andiamocene a dormire.” disse invece il ragazzo “La situazione qui non è sicura.”

“Heze…”

Lui si sforzò di mostrargli l’espressione più rassicurante di cui disponeva in quel momento.

“È brutta gente,” ripeté “abituata al rischio e che non si farebbe certo impressionare dal vostro ruolo né da qualsiasi intervento d’autorità… a meno che l’autorità non parli la lingua della forza e della spada. Non è roba per noi.”

 

Heze si coricò sapendo bene che non avrebbe dormito.

La cena gli era rimasta sullo stomaco e ogni volta che provava a chiudere gli occhi, quelli della mente si riaprivano sul volto del prigioniero, che poi era il suo stesso volto.

Erano passati quattordici anni.

Quattordici anni e la sua vita era cambiata completamente.

Ma gli occhi di quel ragazzo continuavano ad essere i suoi occhi, quel destino il suo destino.

Aveva sette anni quando aveva lasciato la sua famiglia ed era stato portato a Exneirva per essere venduto: non odiava suo padre per questo, anzi, da qualche parte dentro di sé provava ancora nei suoi confronti una vaga compassione, ma tra la compassione e il perdono si apriva una voragine. Sull’altopiano andava così: se le bocche da sfamare diventavano troppe, i figli più piccoli venivano ceduti ai mercanti di schiavi e nessuno percepiva quella pratica come deprecabile, al contrario, si giustificavano con il pensiero che, se avessero avuto la fortuna di essere comprati da qualche famiglia ricca del capoluogo, quei bambini avrebbero avuto una vita di gran lunga migliore rispetto a quella dei pastori. E però. Però nessuno pensava al peso della loro ferita. Nessuno pensava mai che l’essere stati il ramo da tagliare era un marchio da cui, emotivamente, sarebbe stato impossibile liberarsi, per il resto della vita. Che ciascuno di quei bambini sarebbe diventato un adulto convinto di essere una pedina sacrificabile, uno da lasciare indietro quando la barca affonda.

Adesso toccava a lui lasciare indietro quel ragazzo: toccava a lui perché era così che andava, perché nessuno faceva mai un passo fuori dal proprio giardino, perché da solo non poteva niente…Ma quella scelta lo faceva rigirare nel letto senza pace. Forse avrebbe dovuto cedere all’istinto, scagliarsi sui due schiavisti e prenderli a pugni, attirare l’attenzione dei presenti, scrollarli dalla loro gretta indifferenza, sperare che qualcuno reagisse, si indignasse, facesse qualcosa. Dio, qualcosa! E poi…? Poi forse si sarebbe scatenata una rissa, e qualcuno sarebbe morto oppure no, e lo schiavo sarebbe fuggito oppure no, e i mercanti sarebbero finiti davanti a un magistrato oppure no, e lui si sarebbe sentito un po’ più in pace con la coscienza e un po’ meno impotente… Ma una volta che le acque si fossero calmate, tutto sarebbe ricominciato come prima. Esattamente come prima. Non poteva cambiare il mondo e non era il suo compito farlo: era lì per accompagnare un uomo a Feuzte, e non doveva nemmeno ipotizzare di chiedergli di far pesare la sua posizione per scombinare le carte in tavola, strumentalizzarlo per far girare il mondo in un modo che gli piacesse un po’ di più. Anzi, doveva evitare di fargli capire che, in fondo al suo cuore, lo avrebbe desiderato.

Si alzò lentamente, si accertò che il suo compagno di viaggio stesse dormendo e uscì dalla stanza.

Non sapeva neppure lui cosa intendesse fare, ma il suo corpo non era capace di rimanere disteso.

Vagò su e giù per il corridoio come un sonnambulo, quasi in attesa di un cenno chiarificatore; doveva essere notte fonda. Si avvicinò all’altra porta e sbirciò nel buco della serratura.

“Per mille maledizioni, ma che cazzo sto facendo?”

Eppure non riuscì a muoversi da lì finché non fu certo che a dormire in quella camera non vi fossero i due mercanti col loro prigioniero. Scese al piano di sotto: li stava attivamente cercando… perché? Che sperava di ottenere? Non aveva nessuna speranza di affrontarli da solo; erano due, ed armati: forse avrebbe avuto una chance in uno scontro uno contro uno, ma non era nemmeno detto, visto e considerato che almeno uno di loro era alto il doppio di lui.

All’improvviso fu attratto da una voce: stava parlando piano, ma nel silenzio della notte si distingueva bene. Heze ne seguì la provenienza e accostò l’orecchio alla porta: con un sentimento indefinito che era insieme soddisfazione e terrore si rese conto di aver trovato quello che cercava.

“Non mi stai divertendo per niente, bambina: rivestiti e ricominciamo da capo.”

Con un fremito si chinò sul buco della serratura: sapeva benissimo cosa stava succedendo, eppure provava il bisogno di guardare, farlo gli avrebbe annebbiato la testa e dato il coraggio. Dal suo ristretto spiraglio di osservazione, alla luce tremolante di due candele accese, vedeva di profilo il prigioniero – una ragazza, anche se coi capelli cortissimi ed un seno inesistente – che copriva il suo magrissimo corpo con una lunga camicia sdrucita e poi infilava lentamente un paio di pantaloni, incerta sulle proprie gambe. In quel momento non aveva la catena al braccio, ma sia sul polso che sul collo mostrava i segni di averla portata a lungo. Vedeva anche l’altro uomo, quello che non stava parlando, seminudo disteso sul letto, mentre trangugiava vino direttamente dalla brocca. Del compare sentiva solo la voce.

“Adesso spogliati di nuovo e mettici più impegno. Mi devi eccitare, capito?”

La ragazza ristette e piegò appena la testa di lato: a Heze sembrò che lo stesse guardando e quegli occhi avevano conosciuto tutta la ferocia del mondo.

L’uomo entrò nel suo campo visivo: la prese da dietro e le infilò una mano tra le gambe.

“Ubbidisci, puttana!”

Heze sentì il sangue arrivargli alla testa: con tutta la forza che aveva si buttò sulla porta con l’intento di buttarla giù a spallate, ma non ce ne fu bisogno perché era aperta e si spalancò sotto il suo peso. Lui rovinò nella stanza, sbilanciato dalla sua stessa spinta, e si gettò sullo sconosciuto caricando un destro che non andò a segno.

“E tu chi cazzo sei?”

Heze si rialzò approfittando del momentaneo sbigottimento e gli fu di nuovo addosso, stavolta assestandogli un pugno sul naso. Il grido di dolore della sua vittima lo fece sentire per un attimo pieno di forze e cancellò ogni sua paura: desiderava vederlo sanguinare, desiderava fargli tutto il male possibile, desiderava sfogare su di lui quattordici anni di rabbia. Quell’uomo lo meritava!

 

Yèlveran si svegliò d’improvviso, come disturbato da qualcosa: da quando era in viaggio, aveva un sonno così leggero che spesso bastava un lieve rumore a richiamarlo nel mondo della veglia, soprattutto se non era andato a dormire con la mente sgombra e le sue serrature perfettamente chiuse.

Lo stato d’animo di Heze lo aveva turbato. Aveva desiderato fargli delle domande, ma le domande gli si erano aggrovigliate nella testa e lui ci si era perso dentro.

Quando aprì gli occhi, percepì subito la sua assenza senza bisogno di guardare. Non si chiese perché Heze fosse uscito senza dirgli niente: si alzò e andò a cercarlo, e quello fu il momento in cui anche il grido proveniente dal piano sottostante raggiunse il corridoio.

Yèlveran corse giù per la scala: vide la porta spalancata, sentì Heze urlare e due voci imprecare.

Un’ondata di angoscia lo assalì: era una sensazione arrivata da molto lontano, dalla sua infanzia, forse, ma era vivida nel presente e lo paralizzava sulla soglia.

Heze stava lottando con lo sfregiato: aveva un labbro spaccato, mente il suo avversario perdeva copiosamente sangue dal naso; la spada di quest’ultimo era ancora appesa ad un chiodo piantato nel muro. In un angolo, tra la testiera del letto e la parete, la ragazza eshkarti tremava e piangeva. Poi l’altro uomo si avvicinò barcollando: Yèlveran fece appena in tempo a vedergli estrarre un coltellaccio dal fodero e lanciarsi, pur se instabile sulle gambe, verso la schiena di Heze.

Voleva pensare e non ci riusciva.

O forse stava pensando ma i pensieri erano troppo veloci e i segnali dal mondo troppo invadenti e non riusciva ad afferrarne nemmeno uno. Non di pensieri. Non di segnali.

Perciò decise senza.

Si gettò nella stanza parandosi tra Heze e il suo aggressore: il tempo di gridare “aiuto” una volta, due, forse… Poi solo dolore e una gran confusione.

Facevano questo i pensieri, quando non si lasciavano afferrare.

Confusione.

 

Heze ritrovò la propria lucidità quando riconobbe la voce del suo compagno di viaggio. Al suo grido fece eco quello della ragazza, la cui voce fino ad allora non aveva mai sentito. Poi arrivarono passi per le scale, si accesero luci di torce all’esterno, sembrò che fosse diventato improvvisamente giorno e tutto il mondo avesse una gran fretta di fare qualcosa. Qualcosa. Qualcosa.

Il suo avversario colse l’attimo di esitazione e lo colpì all’inguine con un calcio.

“Via, via!” ordinò all’altro, strattonando la prigioniera fuori dalla porta.

Avrebbe voluto fermarli, ma il dolore gli impedì di rimettersi in piedi in tempo.

“Heze… stai… bene?”

Si alzò faticosamente.

“Sì. Niente di rotto.”

E invece c’erano tante cose rotte, anche se non erano le ossa. Ma erano rotte da sempre. Ecco perché non era affatto vero che sapeva vivere nel mondo.

 

“Meno male…” disse Yèlveran, e tutta la tensione degli ultimi minuti scivolò via lasciandolo senza forze.

“Voi non dovreste essere qui!” esclamò Heze andandogli incontro.

“Perché…?”

Aveva la vista appannata: sentiva la sua voce molto vicina ma non riusciva a orientarsi nello spazio.

Poi lo sentì di nuovo gridare.

“Oh cazzo! Aiuto!” era spaventato, le sue parole tremavano. “Qualcuno mi aiuti, c’è un ferito!”

Cosa stava succedendo?

Si accorse di provare un intenso dolore che partiva da un fianco e si irradiava in ogni parte del corpo. Portò la mano all’altezza della vita e sentì il sangue bagnargli le dita. La camicia ne era intrisa e la macchia scivolava giù, lungo la gamba. Tutto quel sangue era suo? E come poteva essere ancora in piedi? Ma no, non era affatto in piedi: c’erano le braccia di Heze che lo stavano sorreggendo.

“Oddio…”

Buio.

  
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