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Autore: Adeia Di Elferas    24/01/2024    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca stava finendo di leggere una delle accorate richieste che quotidianamente si accumulavano sulla sua scrivania personale. Sembrava impossibile che nelle terre di pertinenza di San Secondo vivessero così tante persone, o meglio, che ce ne fossero così tante necessitanti la sua intercessione, il suo aiuto o un suo giudizio legale su una qualsiasi questione.

La Riario si era prestata subito volentieri alla gestione diretta di molti contenziosi, avvallata da Troilo, che si era fidato ciecamente, senza nemmeno volerla vedere messa alla prova, sicuro che la lunga convivenza con una madre quale Caterina Sforza, che di rado aveva lasciato ad altri l'amministrazione di quel genere di faccende, avesse fatto della sua sposa una giudice imparziale e acuta.

In effetti la giovane si stava dimostrando abile nell'incastrare quel genere di impegno con tutti gli altri che si era assunta. Stava seguendo i lavori alla rocca, dando consigli che spesso stupivano i capimastri che aveva ingaggiato lei stessa. Gestiva la servitù e ne aveva rivisto attentamente la composizione, andando a implementare le aree di servizio carenti e sfrondando quelle con personale in eccesso. Il più delle volte si premurava di controllare anche le voci di spesa della rocca, in particolare delle cucine, e non era raro che apportasse variazioni a quanto deciso dalla cuoca. In linea di massima, però, non si impicciava troppo in quello che riguardava le spese delle stalle, né quelle dell'armeria, non sentendosi abbastanza competente per dare un giudizio oggettivo.

Mentre ancora cercava di capire dalla grafia incerta di un loro mezzadro, quale fosse la diatriba che le veniva chiesto di risolvere, il pianto della piccola Costanza arrivò a dirle che oltre a tutto quanto detto sopra, aveva anche il dovere di accudire una figlia di circa un mese.

La balia era in riposo, per volere della stessa Riario, che riteneva di potersi occupare della neonata mentre finiva di vagliare la corrispondenza. La bambina era stata bravissima, fino a quel momento, e aveva dormito profondamente, senza sosta, svegliandosi poi all'improvviso, disperata, affamata.

Con pazienza, Bianca, mise da parte la missiva, andò a recuperare la piccola e la prese in braccio, sentendo le piccole spalle avvolte in morbidissime fasce bianche, tremare a ogni respiro pregno di lacrime. Si andò a sedere comoda sull'ottomana imbottita davanti al camino acceso e poi, canticchiando un motivetto a caso, si scoprì il seno e attese che Costanza vi si attaccasse. Lo fece subito, iniziando a sfamarsi con l'urgenza della fame più vera.

Più succhiava, più la sua piccola fronte si imperlava di sudore e i suoi occhi si stringevano per lo sforzo. Non accennava a smettere, come se, facendolo, avesse potuto morire di stenti all'improvviso.

Per qualche istante, la Riario si domandò se la balia non fosse troppo magra: forse non riusciva a dare abbastanza latte alla bambina, anche se lei stessa spesso l'allattava...

Poi, quasi volesse tranquillizzare la madre, Costanza si calmò e riprese a mangiare con la sua solita lentezza, assumendo un'espressione beata e tranquilla. Bianca fece un sorriso e, sperando di conciliare il sonno che sarebbe arrivato dopo la poppata, riprese a canticchiare, questa volta puntando su una canzone che arrivava dalla terra d'origine di sua madre Caterina.

Quelle note, che accompagnavano il racconto di gesta di antichi condottieri milanesi, ebbe un effetto pressoché istantaneo sulla bambina che, fissando con i grandi occhi chiari la madre, continuò a bere il latte, ma spostando interamente l'attenzione sulla voce di Bianca.

Mentre si perdeva nei lineamenti di Costanza, la Riario si lasciò prendere dai ricordi e ripensò a Pier Maria, a quando era nato e a come l'aveva curato, nei primi mesi, così come stava facendo con sua figlia. Sapeva che il suo primogenito era al sicuro, a Castello, e doveva ammettere di sentirne la mancanza solo di rado, benché si vergognasse ad ammetterlo, eppure quando capitava era come se una parte di sé mancasse, come se le fosse stato tolto un pezzo di carne e la ferita ancora sanguinasse... In quei momenti si sentiva in colpa, per averlo lasciato da sua madre, per essersi trovata di nuovo incinta troppo presto, andando a ritardare il ritorno del bambino tra le sue braccia, per aver voluto quel figlio prima di essere sposata...

A volte si interrogava su quanta differenza ci fosse tra lei e sua madre nel modo di curare i figli. Si riproponeva di continuo di essere una madre migliore di quanto non fosse stata la bellicosa e iraconda Caterina Sforza, ma poi, più ci pensava, più si diceva che la Tigre di Forlì non era stata una madre pessima, tutt'altro. Le aveva lasciato la libertà, le aveva garantito un'istruzione, l'aveva perfino appoggiata quando l'aveva saputa innamorata del De Rossi, malgrado tutto, le aveva sempre dimostrato la sua immensa fiducia, affidandole perfino Giovannino, il suo figlio più indifeso e prezioso... Aveva avuto molte mancanze, ma chi se ne poteva dire privo?

E ripensare alla madre, le faceva tornare alla mente il fatto che le sue ultime tre lettere erano partite per Castello senza ricevere mai una risposta. Poteva essere accaduto qualcosa? Oppure qualcuno le intercettava? Era strano che nemmeno Galeazzo le scrivesse... Se fosse successo qualcosa di brutto alla loro madre, Galeazzo glielo avrebbe scritto subito?

Assorta nei suoi pensieri, ancora immersa nei canti che richiamavano il milanese, la giovane non si accorse che sulla porta si era palesato Troilo. L'uomo attese paziente e solo quando Costanza lo notò, staccandosi dal seno e guardando verso di lui con espressione allegra, si permise di fare mezzo passo avanti.

“Non mi ero accorta di te...” fece la Riario, sistemandosi un po' meglio sull'ottomana: “Da quanto sei qui?” soggiunse, improvvisamente preoccupata dal fatto che lui potesse aver notato quanto fosse corrucciata mentre cantava a voce bassa.

“Abbastanza da restare come sempre ammaliato dal modo meraviglioso in cui canti.” rispose lui, gli occhi dorati che faticavano a non correre al seno scoperto.

La donna se ne accorse e si lasciò scappare una mezza risata. Sistemandosi la scollatura dell'abito, dato che Costanza non accennava più ad attaccarsi al capezzolo, chiese al marito se la stesse cercando per qualche motivo in particolare.

L'uomo annuì, avvicinandosi a lei e porgendole una lettera: “Di tuo fratello Galeazzo, è appena arrivata.”

Bianca vide le mani del De Rossi sporche di grasso e fuliggine e immaginò che fosse ancora alle prese con la vecchia santabarbara che da giorni stava cercando di ripulire assieme a un paio di uomini fidati. Ammirava il fatto che Troilo non si tirasse indietro dinnanzi ai lavori pesanti che molti altri uomini del suo rango avrebbero delegato ad altri.

“Vuoi tenere in braccio Costanza?” chiese la giovane, pensando che senza la bambina sarebbe stato più agevole leggere quella lettera che aspettava da giorni e che non sapeva che genere di notizie potesse riportare.

“Non credi che la farei tossire con tutta la polvere che ho addosso..?” domandò lui, ma già tendendo le braccia.

Senza rispondere, la Riario gli diede la figlia, che gorgogliò tutta contenta nel trovarsi contro l'ampio petto del padre, e prese la lettera, aprendola immediatamente. Lesse in fretta, con il fiato sospeso, ma già dopo due righe, si permise di tranquillizzarsi. Galeazzo le scriveva di una strana febbre occorsa alla madre, non troppo diversa da quelle che l'avevano colta a volte negli anni addietro, ma la rassicurava sul fatto che ormai stesse bene e si fosse ripresa.

La missiva si chiudeva con delle considerazioni in merito alla situazione generale, al prossimo Conclave e alle opportunità che questo comportava. Il fratello si raccomandava con la sorella si stare in salute e di pensare agli amici che avrebbero potuto far loro comodo, e la pregava, infine, di non allentare i contatti con Raffaele Sansoni Riario, che avrebbe potuto fare per loro da tramite con il nuovo papa, sia che fosse Giuliano Della Rovere, sia che fosse chiunque altro, visto che il cugino sapeva essere alleato di tutti, quando serviva.

“Quando gli risponderò, stasera – sospirò Bianca, dopo aver riassunto al marito il contenuto del messaggio – gli farò presente che gradirei essere informata subito, nel caso mia madre stesse di nuovo male...”

“Avresti potuto fare qualcosa..?” si informò Troilo, cullando lentamente Costanza, che si era addormentata: “Saresti corsa a Castello..?”

“Avrei... Avrei valutato.” rispose la giovane, con un po' di secchezza, comprendendo che, in effetti, non avrebbe saputo come agire, in quel caso.

Dato che la piccola era immersa in un sonno profondo, il De Rossi la sistemò con cura nel suo lettino e poi, tornando alla moglie, le chiese, con un filo di voce: “La balia..?”

La Riario, che si era alzata, più per sgranchirsi le gambe che non perché dovesse fare qualcosa in particolare, sollevò le sopracciglia e rispose: “L'ho mandata a riposare... Sta sveglia spesso di notte, perché Costanza non la fa dormire... Ho paura che abbia poco latte.”

“Se ha poco latte, possiamo cercarne un'altra.” propose l'uomo, cercando di non suonare allarmato.

“Non è necessario... Può capitare. Anche io, quando è nato Pier Maria, ho passato una decina di giorni con poco latte, ma poi è passata...” sospirò la donna, prendendo una delle grandi mani del marito tra le sue: “Le ho dato una pausa fino al tramonto.”

“Fino al tramonto? La vizi.” ribatté lui, severo.

“È solo una ragazzina.” fece notare lei, che aveva scelto personalmente la balia per l'aspetto florido, e perché la sapeva bisognosa di denaro, ma che era sempre stata un po' perplessa per la giovanissima età.

“Sì, ma è pagata per fare il suo lavoro.” fece notare il De Rossi.

“Non cambierò balia.” tagliò corto Bianca: “E comunque, finché allatto un po' anche io, possiamo stare un po' più tranquilli... Difficilmente si resta incinta, quando si allatta.”

L'emiliano, a quelle parole, si morse il labbro e non osò controbattere oltre. Quella gli sembrava una stoccata diretta e un po' crudele. Era più che cosciente dell'importanza di non aspettare di nuovo un figlio troppo presto. Dovevano lasciar passare un numero di mesi sufficiente da far sì che si potesse inscenare la nascita di Pier Maria e presentarlo, a tempo debito, come il loro secondogenito nonché primo figlio maschio. Tuttavia, gli sembrava che fosse più colpa di sua moglie che non sua, se non passava notte senza che tra loro la passione si facesse difficile da contenere...

Quasi gli stesse leggendo nel pensiero, Bianca si puntellò sui piedi, costringendolo a chinarsi un po' su di lei e lo baciò: “Lo so che non è facile. Quando tra qualche mese andrò a Castello da mia madre, però, sarà più semplice. Stando lontani, non...”

“Non sarà per nulla facile.” scosse il capo lui, ricambiando a sua volta con un bacio e mettendole le mani sui fianchi.

“Nel frattempo – riprese lei, come se il quarantunenne non avesse parlato – l'allattamento ci farà da scudo e poi comincerò a prendere la mia pozione... Vedrai che andrà bene e non dovremo rinunciare a troppe cose...”

Siccome Troilo si stava facendo sempre più insistente, Bianca si sentì a malincuore in dovere di ricordargli che c'era Costanza e che avrebbe potuto entrare chiunque da un momento all'altro. In più gli fece un breve elenco di tutto quello che ancora doveva fare lei, ipotizzando che pure lui avesse mille compiti difficili da rimandare.

“E va bene...” sospirò lui, guardando la sua sposa, che avrebbe compiuto ventidue anni nel giro di una settimana circa: “Allora dimmi quando potrò avere udienza con mia moglie, tra tutti questi fitti impegni...”

“Stanotte sarò tutta tua.” promise lei e, come a suggellare un patto solenne, gli prese il volto tra le mani e lo baciò di nuovo, con una voracità che lasciò un sorriso compiaciuto sul volto del marito, che non svanì nemmeno quando la Riario soggiunse: “Prima, però, dovremo parlare un momento di quanto mi ha scritto mio fratello. Se il nuovo papa sarà mio cugino Giuliano, dobbiamo fare in modo di ottenere tutto quello che possiamo dalla sua elezione, e dobbiamo pensare fin da ora a come fare.”

Il De Rossi fece un profondo inchino e assicurò che avrebbero fatto così. Diede un ultimo bacio veloce a Bianca, accarezzò il viso rotondo di Costanza che dormiva nel suo lettuccio, e poi andò alla porta, chiedendosi come avesse fatto a essere così fortunato da trovare una persona eccezionale come la Riario, capace di essere allo stesso tempo una madre dolce, una moglie focosa e una donna di potere capace e ambiziosa.

 

Il messaggero che era stato mandato da Ottaviano a Imola cominciava a dubitare della propria missione. Il Riario gli aveva assicurato che non correva alcun rischio e che, anzi, se avesse fatto sapere ancor prima di entrare in città che portava con sé una sua lettera, sarebbe stato accolto come un profeta atteso da secoli.

L'uomo, quindi, che per sicurezza aveva indossato i simboli dei Bentivoglio, sperando che bastassero a proteggerlo dalla maggior parte dei malintenzionati, aveva iniziato a spargere la voce del motivo della propria venuta già prima di arrivare in vista di Imola, ma si era accorto molto presto che se i colori rosso e giallo dei bolognesi attirava una discreta simpatia, appena nominava Ottaviano Riario i volti si incupivano e le battute a mezza bocca si facevano truci.

A mezzogiorno, finalmente, sotto il sole piccolo e freddo di fine ottobre, il messaggero arrivò in città e, senza trovare ostacoli, riuscì a ottenere un'udienza con gli Anziani.

Quello che accadde, lo stranì. Diede il messaggio all'Anziano che gli era più prossimo, ma questi, dopo aver guardato a lungo la lettera chiusa, la porse a quello che gli stava accanto, il quale fece altrettanto, passando la missiva a un altro Anziano ancora e così via finché metà della congrega non ebbe preso tra le dita il messaggio per poi decidere di non aprirlo.

Alla fin fine, uno dei più vecchi, persa la pazienza, ruppe il sigillo con le mani nodose e lesse a voce altissima le parole di Ottaviano Riario che si proponeva come Signore di Imola.

Il silenzio che seguì fu raggelante. Nessuno alzava lo sguardo, nessuno profferiva parola. Solo quello che aveva letto a voce alta alla fine si sentì in dovere di fare una dichiarazione.

“Buon cavallaro, andate a bevere e tornate, che vi sarà data risposta.” disse, con tono funereo.

Il messaggero accettò e si allontanò subito, lasciandosi accompagnare a una vicina fontana, dove si dissetò e aspettò un tempo che gli parve ragionevole, prima di ripresentarsi a sentire il verdetto degli Anziani.

Quando rientrò nel palazzo, il clima che lo attendeva era completamente cambiato. Da silenzioso e cupo, s'era fatto minaccioso e colmo di rabbia.

“Se non fosse che siete sotto la protezione di messer Giovanni Bentivoglio, vi avremmo impiccato per la gola!” gridò Paolo Codronchi.

“Andate a prendere il boia!” propose Annibale da Verona.

Michele da Dozza, che voleva come gli altri spaventare il bolognese, ma senza fargli credere che davvero volessero ucciderlo, si premurò di spiegare: “Questa lettera di messer Ottaviano non ci interessa. Quel diavolo ha passato anni a insozzar le donne nostre, a bere il nostro vino e spendere i nostri denari...” fece un lungo sospiro e concluse: “Tutto il prestigio sta in Caterina e senza la sua presenza nulla si risolve.”

Terrorizzato, ma abituato per via del suo lavoro a ricordare a memoria espressioni e parole dei destinatari dei messaggi che veicolava, il bolognese farfugliò delle scuse e disse che sarebbe ripartito immediatamente.

“Il popolo vi farà a pezzi, se non partite subito.” convenne Annibale da Verona.

Il messaggero non se lo fece ripetere e uscì quasi di corsa da palazzo, inforcando il proprio cavallo veloce come il fulmine.

Dopo poco, però, si rese conto di essere inseguito. Paolo Codronchi e un altro uomo cavalcavano appena dietro di lui. Suo malgrado, venne raggiunto, ma, quando già temeva il peggio per sé, i due gli chiesero con toni cordiali di seguirlo fino in casa di Annibale. Mostrandosi accondiscendente, il bolognese fece come richiesto e in breve si trovò davanti a un camino acceso a sorbirsi un lungo sermone di Paolo, che si scusava per i modi mostrati davanti agli Anziani, ma ribadiva con fermezza l'importanza cruciale di un coinvolgimento diretto di Caterina Sforza.

“Ottaviano Riario, noi non lo vogliamo.” concluse, con forza.

“Questo l'ho capito.” rispose il messaggero, stanco di tutte quelle chiacchiere e ancora non abbastanza tranquillo: “Lasciatemi andare, ora.”

“Abbiamo questa da darvi.” fece l'imolese, porgendogli una lettera: “Per messer Giovanni Bentivoglio, non per Ottaviano.”

Il bolognese ringraziò e mise la missiva al sicuro nella sua bisaccia: “Ora posso andare?” chiese di nuovo, lasciando trapelare in parte la sua agitazione.

“Andate.” concesse Codronchi, ma sollevando appena un sopracciglio, aggiunse: “Fate sapere, se potete, a Madonna Sforza che non è vero che si preferisce il diavolo a lei, e lo dice uno che per il cognome che porta dovrebbe odiarla. Se Madonna tornasse, Imola sarebbe con lei. E ditele anche che oggi a Forlì è tornato Antonio Maria Ordelaffi, ne è stato fatto Signore, e non intende andarsene, se non cacciato con le armi. Dite a Madonna di trovare le armi. Per quel che serve, noi abbiamo scritto a messer Giovanni Bentivoglio d'aiutarla, ma solo che suo figlio non avrà nulla a che fare né con Forlì né con Imola.”

 

La giornata ottobrina era frizzante, ma soleggiata, tanto che la Leonessa aveva deciso di far uscire un po' i suoi figli, per aver la scusa di fare altrettanto. Aveva seguito con attenzione le cavalcate virtuose di Galeazzo, spiegandogli con dovizia di particolari come tenere la spada per non sbilanciarsi in sella, e poi si era dedicata a Bernardino e Giovannino, che avevano preferito impratichirsi ancora nella scherma.

Ridendo, la donna aveva commentato che il piccolo Medici avrebbe imparato prima a disarmare un avversario che non a scrivere il proprio nome, sollevando le risate bonarie di tutti – compreso Sforzino, che si era messo a sua volta all'aperto, ma a leggere – tranne che di Fortunati, che aveva borbottato qualcosa sull'importanza di istruire il piccolo Giovannino, che avrebbe compiuto sei anni tra non molti mesi.

Solo quando la Sforza si era sentita troppo stanca si era deciso di tornare alla villa e se ai figli era stato ordinato di andare a fare esercizi di matematica assieme a Frate Lauro, a Francesco era stato chiesto di seguire Caterina in camera.

Il motivo di quella richiesta era stato principalmente uno: ricordargli che non spettava a lui dare indicazioni su come andassero educati i figli. Il fiorentino aveva sospirato e accettato la paternale, e poi si era offerto di andare a vedere come stesse Pier Maria, che quella mattina aveva avuto un po' di raffreddore.

La Tigre non dovette attenderlo molto, perché già dopo una manciata di minuti, Fortunati tornò portando con sé ben tre lettere che erano arrivate in rapida successione l'una dopo l'altra, tutte e tre da Bologna. Siccome due erano di Giambattista Tonello e solo una di Ottaviano, la Tigre reputò che fosse più importante dedicarsi a quelle delle sue spie che non a quella del figlio.

Così prese le due che le interessavano e lasciò l'altra a Fortunati: “Questa leggila tu, non ho voglia di farmi venire il mal di testa...”

Il piovano accettò senza commentare e si apprestò subito a leggere. La missiva del Riario gli sembrava poco sensata. A parte la richiesta di denari – avanzata, come sempre, con la scusa di propugnare la causa materna – il giovane diceva che Antonio Maria Ordelaffi era entrato a Forlì e che Franceschetto Cybo era padrone di Faenza, per poi aggiungere che forse l'Ordelaffi era già uscito da Forlì e chiedeva che la madre ordinasse ai fiorentini, come se ne avesse davvero l'autorità, di impedirgli di tornare.

“Che scrive?” domandò la Sforza, che stava rompendo il sigillo della prima lettera di Tonello.

“Vuole soldi...” riassunse Francesco, incassando uno sbuffo indispettito della donna: “E poi... Non so, prova a leggere quelle, magari si spiega meglio...”

Accigliandosi, la Leonessa spiegò la lunghissima pagina della sua spia e si immerse nella lettura. Si arrabbiò subito, mettendosi a sibilare ingiurie, già dopo le prime righe. A quanto pareva, Ottaviano aveva preso un'iniziativa personale, senza coinvolgerla, scrivendo agli Anziani di Imola affinché lo accettassero come loro Signore. Questi, in pratica, avevano riso in faccia al messaggero, arrivando perfino a minacciarlo.

Giambattista, conoscendo il messaggero, l'aveva intercettato appena l'aveva visto rientrare a Bologna, e si era fatto consegnare la lettera degli imolesi, consegnandola personalmente nelle mani di Ippolita Sforza e Ginevra Sforza, affinché la leggesse, e poi a Giovanni Bentivoglio, suocero della prima e marito della seconda, temendo che altrimenti Ottaviano avrebbe fatto in modo di farla sparire.

Così il Riario era stato convocato in presenza di Giovanni e delle due donne e i tre bolognesi l'avevano persuaso a tenere il sangue freddo e attendere, prima di ogni altra mossa, che Annibale Bentivoglio ritornasse in città il martedì entrante.

Tonello a questo punto si abbandonava a un moto di sconforto, commentando: 'siche Vostra Signoria pensa se questa cosa va a le lunghe: non scio se questa morte del Papa Nuovo Pio, disturbera questa nostra impresa, ogne uento che tira si e contra de nui: horamai sum stracco de tanta lunghezza'.

Dopodiché le parlava di un altro incontro, tra suo figlio Cesare e Ginevra e Ippolita. Con lui, diceva, le due donne avevano parlato in modo molto più franco e duro, così come aveva fatto poco dopo lo stesso Giovanni Bentivoglio. Cesare, a quanto pareva, per non aver a che fare col fratello, gli aveva riferito il tutto tramite Tomaso Riario, un loro parente rintracciato nel bolognese e diventato un suo servo particolare.

Tonello andava avanti nello spiegare i fini maneggi della corte bolognese e Caterina capì quanto sua nipote Ippolita stesse diventando centrale nella politica dei Bentivoglio. Un po' si rammaricò di non averla avuta più vicina: insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.

Sempre la giovane Sforza, per mezzo di Giambattista, la pregava di fare una cosa a suo dire importante. La pregava di scrivere una lettera, indirizzandola a Ottaviano, scrivendola in modo che sembrasse un elenco di consigli di una madre per un figlio primogenito, affinché lei potesse leggerla e capire quali fossero le reali intenzioni della Tigre, in modo da poter condurre al meglio quella difficile partita a scacchi.

Finito di leggere, la Sforza passò la lettera a Fortunati, affinché sapesse anche lui ogni cosa, e poi passò a leggere la seconda missiva di Giambattista.

Sentì il cuore mancare un colpo nel leggere che Forlì si era data all'Ordelaffi e che, soprattutto, c'era riuscito 'per aiuti li ha dati quelli firentini'.

Tonello si abbandonava, come spesso gli succedeva, a un'esternazione personale e accorata, scrivendo: 'Questo si è stato el benefitio li faceviste quando li sagurati se morevano de fame: hora ve hanno pagata de una grande ingratutudine. La S.V. Doveria andare in palazo et li cridare tanto ad alta voce vendetta et far maraviar tutto el populo de tanta ingratitudine ve hanno facto, et farli intendere che lo R.mo Mons.r Ascanio et San Zorzo et tutto el mondo ne farà vendetta de la lor malignità e tradimenti. Ce ne crepa il core a quanti siamo'.

La incitava poi a raccogliere amici e parenti, si lamentava di Annibale Bantivoglio, che ancora non tornava a Bologna, e poi sottolineava come il popolo di Imola l'attendesse con grande devozione, anche se temeva che gli alleati, bolognesi compresi, si sarebbero un po' spenti nel loro ardore, sapendo Forlì ormai perduta.

Chiudeva perentorio: 'V.S. Se adoperi con tuto el vostro ingegno, et qua anco el Sig.re e nui altri faremo el simile scrivendo del tuto particularmente a Roma a Mons.r Ascanio et San Zorzo et a Vinetia, et in tute le parte del mondo del tradimento ve hanno facto questi ladri Firintini che Idio li farà a onni modo venire una ruina adosso per li soy maliss.mi et ribaldi portamenti.'.

Caterina, in silenzio, porse anche questa lettera a Fortunati, e, intanto, si mise alla finestra a guardare fuori, verso il bosco.

Quando sentì l'uomo ripiegare la pagina, si voltò verso di lui e chiese, a voce bassa: “Credi che qualcun altro abbia letto queste parole? Pensi che possa essere stato intercettato..?”

“Non credo... Il canale dovrebbe essere sicuro.” rispose lui, guardingo.

“Tonello ha ragione: Firenze mi ha tradita. Se non avessi venduto loro il grano, quando nessuno voleva farlo, che ne sarebbe stato dell'altera Firenze? Che statue avrebbe scolpito, che affreschi avrebbero dipinto, se fossero tutti morti di fame!?” i toni si stavano scaldando così tanto che Francesco andò a controllare che la porta della stanza fosse ben chiusa.

La Tigre si abbandonò a una serie lunghissima di recriminazioni, di bestemmie e parolacce che a tratti fecero arrossire il piovano, rimasto, malgrado tutto, un uomo pudico e facile all'imbarazzo.

“Tuttavia – concluse alla fine Caterina – Giovanni sposandomi mi ha resa una fiorentina e se non fosse stato per lui, io adesso non avrei nulla. Invece assicurandomi una cittadinanza e assicurando un'eredità a Giovannino mi ha permesso di sopravvivere degnamente e di prendermi cura dei miei figli...”

Quel cambio repentino di tono fece ben sperare Fortunati, che si morse un labbro, per provare a dire qualcosa, ma la milanese lo zittì con uno sguardo.

“Farò quello che chiede Ippolita, ma non rinuncio a provare a riprendermi quello che è mio. E Giovanni mi appoggerebbe.” decise: “Tu, intanto, cerca di farmi avere un incontro con i Salviati, almeno con uno dei due...”

Francesco schiuse le labbra, per ribattere che per i Salviati era ancora un momento delicato, avendo perso da pochissimo una figlia, ma la Leonessa fu irremovibile.

“Non mi interessa se sono in lutto. La sono stata anche io, in passato, e ho dovuto sempre mettere da parte il dolore per la ragion di Stato: adesso è il loro turno di farlo.” fece un lungo respiro e fece notare: “Non devono credere di aiutare solo me. Se Firenze si lascerà tirare la giacca a destra e a sinistra come sta facendo ora, alla fine si troverà nuda, e non avrà più nulla per cui essere tronfia come ora...”

“Forse dovresti fare come suggerisce Tonello – disse il piovano, senza ironia – andare al palazzo, davanti al Gonfaloniere, e spaventarli.”

Caterina si irrigidì, ripensando a quando l'aveva fatto davvero, alla vigilia dell'arrivo del Valentino nella sua Forlì. Ricordava il viaggio in solitaria, per gli Appennini, ricordava l'arrivo al palazzo, la paura di essere arrestata, la fretta che le aveva impedito di passare perfino sulla tomba di Giovanni...

“Non servirebbe a nulla, nemmeno stavolta.” concluse, amara.

“E allora a cosa credi che serva parlare coi Salviati?” si informò Francesco, ben deciso, comunque, a fare quel che lei chiedeva.

“Non ti basta quello che hai letto su mia nipote Ippolita?” fece la donna, con gli occhi verdi che sembravano fiammeggiare: “Io andavo in guerra con la spada, ma le maggior parte delle donne di potere di oggi hanno altre armi. Basterà un soffio nell'orecchio di Lucrezia Medici per scatenare una tempesta su Firenze.”

Il piovano ne restò convinto a metà, tuttavia annuì: “Farò come dici. Preferisci che vengano loro qui o andare tu da loro?”

La Sforza ci pensò per qualche istante e alla fine si risolse a dire: “Quello che preferiranno loro, per me fa poca differenza. Come hai detto tu: in fondo sono in lutto, è buona norma lasciar loro un po' di respiro.”

“Come la mia signora comanda.” disse allora Francesco, andando alla porta.

“Ascolta...” lo richiamò lei, appena prima che l'uomo uscisse: “Fammi portare la cena in camera, voglio dedicarmi alla corrispondenza. E poi... Stasera, sul tardi, mi fare piacere se venissi in camera mia. Sono stanca di stare sola...”

“Come la mia signora comanda.” ripeté Fortunati, ma questa volta il suo bel viso fu illuminato da un entusiasmo difficile da dissimulare.

 

   
 
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