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Autore: Adeia Di Elferas    30/01/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Machiavelli era partito da poche ore, giusto quella mattina, lasciandosi alle spalle una Firenze fredda e coperta da una coltre che prometteva neve, quando un messaggero lo raggiunse al galoppo, per porgergli una lettera a suo dire molto urgente scritta dai Dieci di Balia.

L'uomo ringraziò, e, senza chiedere alla sua piccola scorta di fermarsi, domandò se ci fosse bisogno di dare una risposta immediata. Quando il messo scosse il capo, Niccolò fece imperiosamente cenno ai suoi sparuti accompagnatori – giusto un paio di servi che gli sarebbero serviti anche una volta giunto a Roma – di ritornare al passo svelto di poco prima.

Ondeggiando all'andatura cadenzata del suo cavallo, Machiavelli si tolse un momento la berretta, passandosi una mano tra i capelli tagliati di fresco. Gli dava sempre una strana impressione trovarsi senza il suo consueto ciuffo di ricci ribelli, ma aveva valutato che una bella spuntatina fosse indispensabile, per apparire serio e composto davanti ai grandi prelati dell'Urbe. Sua moglie Marietta gli aveva fatto notare che, conciato a quel modo, si vedeva che stava cominciando a perdere un po' i capelli, ma lui vi aveva dato poco peso. La Corsini era vicina al parto – non poteva mancare più di un mese – ed essendo già la seconda gravidanza, Niccolò sapeva che la moglie tendeva a farsi estremamente critica nei suoi confronti in quei frangenti, anche quando non ve ne era reale motivo.

Mettendo da parte le preoccupazioni verso la calvizie incipiente, l'uomo si rimise in testa la berretta e, tenendo le redini con una mano sola, aprì la missiva dei Dieci e cominciò a leggere, sicuro che sarebbero bastati gli occhi del cavallo, per non perdere la via.

Dopo i convenevoli, la lettera riportava scritto: 'Questa mattina, immediate dopo la partita tua, ci furono nuove lettere da Roma, et intendiamo per esse il reverendissimo cardinale di San Giorgio dolersi gravemente di noi che disfavoriamo e nipoti suoi al ritornare in Furlì, ricettando et aiutando lo Ordelaffo; di che abbiamo avuto dispiacere grandissimo per la qualità dell'uomo, ad chi abbiamo sempre fatto volentieri piacere, et per notarci tacitamente di ingratitudine, da che sempre questa città fu aliena quanto verun'altra'.

Machiavelli fece un lungo sospiro e passò a leggere la parte che più lo interessava. I Dieci gli spiegavano come fosse importante che lui sottolineasse, con il Cardinale Sansoni Riario, come il rischio di far cadere la Romagna in mano ai veneziani fosse tangibile, tanto che 'ogni dì ci pareva vederveli drento'. Doveva poi ricordare come i figli della Tigre non fossero molto apprezzati, in Romagna, Firenze non se l'era sentita di far pressioni per far tornare uno di loro al comando. Di fatto, anzi, la Repubblica non aveva favorito né l'uno né l'altro, lasciando che le cose andassero come dovevano, come da volontà degli stessi romagnoli.

I Dieci consigliavano anche di far presente come l'Ordelaffi, per i Riario, fosse il male minore: sarebbe infatti stato molto più facile un domani prendere le terre a lui, infermo e senza figli, che non a Venezia. In questo caso, Firenze sarebbe stata a disposizione.

'Et ogni volta che si possi sperare di rimettervi questi suoi nipoti, noi vogliamo essere i primi ad favorirli, perché con lo Ordelaffo non si ha obbligo alcuno, et con i suoi nipoti se ne ha infiniti' si arrivava a leggere nella missiva.

I Dieci si raccomandavano di fare un discorso accorato, convincente, animoso se necessario, pieno di ipocrisia, secondo Machiavelli, ma che non lasciasse dubbi al Cardinale Raffaele Sansoni Riario sull'appoggio sicuro di Firenze.

La lettera, poi, si concludeva rinverdendo l'invito a esporre l'offerta fiorentina per l'elezione del nuovo pontefice, e Niccolò comprese che tutto il panegirico letto appena prima non avrebbe avuto alcuna ragione d'essere, se la Repubblica non fosse stata letteralmente terrorizzata all'idea che venisse eletto Giuliano Della Rovere e, di conseguenza, che il nuovo papa ritenesse i fiorentini dei mezzi traditori per colpa di quanto accaduto in Romagna, ai danni delle terre che sarebbero spettate, nell'ottica dei Riario, a Caterina Sforza o, al massimo, a uno dei di lei figli.

Scuotendo il capo, Machiavelli mise a posto la lettera in una delle tasche interne del suo mantello e tornò a guardare la strada.

Sentì il cuore perdere un colpo quando vide che i suoi due accompagnatori non erano più al suo fianco, ma molto più avanti: “Voi!” gridò, con rabbia, dando di sprone al suo ronzino: “Che si sta scherzando? Perché non m'avete atteso? Chi sono io, il servo? Siete voi che dovete seguire me!”

Nessuno dei due uomini parve dar peso alle sue parole e Niccolò fu costretto a correre di più per star loro dietro. Non volle polemizzare oltre, imbarazzato dalla noncuranza con cui veniva trattato, e si chiese come fosse possibile che lui, a trentatré anni suonati, investito di una carica importante per la Repubblica fiorentina, istruito e capace, venisse ancora trattato da tutti come un ragazzino un po' goffo e tardo, bersaglio perfetto di lazzi e scherzi di ogni sorta.

 

Caterina ascoltava in silenzio Lucrezia Medici, che le stava riferendo le ultimissime notizie giunte dalla Romagna.

“Firenze ha dovuto necessariamente appoggiare Franceschetto Manfredi – spiegò la fiorentina, mentre Caterina tratteneva una risata amara nel ricordare la lettera di suo figlio Ottaviano, che era riuscito a confondere Franceschetto Manfredi e Franceschetto Cybo – per non far cadere Faenza nelle mani di Venezia.”

“Mi sfugge come il Manfredi sia riuscito dal punto di vista pratico e prendere la città... Il Governatore lasciato dai Borja non si è opposto?” chiese la Tigre, inclinando la testa di lato.

La sala della villa in cui aveva deciso di incontrare la Medici era forse la più luminosa, ma in quel giorno tetro di fine ottobre era stato necessario accendere una dozzina di candele, per permettere alle due donne di guardarsi in viso senza dover stringere gli occhi per scorgere qualcosa nella penombra.

“Il Governatore era un partigiano dei Manfredi, in realtà...” rivelò Lucrezia, con un tono piatto che ben si sposava con gli occhi così spenti rispetto al solito: “Ha fatto chiudere le porte verso Forlì, ha murato Porta Ravegnana e Porta Imolese, perché erano a rischio maggiore di invasione veneziana, e ha lasciato libera solo Porta Montanara, per permettere l'ingresso delle truppe fiorentine di sostegno a Franceschetto.”

Caterina strinse il morso, senza lasciarsi, per il momento, scappare nemmeno mezza parola sulla sua delusione nel non essere stata nemmeno avvisata di tutti quei maneggi fiorentini. Non solo la Repubblica la deludeva, ma anche e soprattutto i Salviati, che si erano formalmente impegnati con lei in una collaborazione dallo scopo molto preciso.

“In ogni caso – riprese Lucrezia, una mano nell'altra – i nobili della città erano favorevoli al rientro di un Manfredi e anche la popolazione, quando ieri Franceschetto è entrato in città, l'ha accolto con gioia, quasi fosse il naturale erede dello sventurato Astorre. Anzi, pare che per rispetto proprio a quel povero ragazzino, chiamino Franceschetto col nome di Astorre IV...”

“Mi avete detto, prima, che il castello di Brisighella è stato comprato dai veneziani...” fece Caterina, accigliandosi, mentre nella sua testa cominciava a crearsi una sorta di mappa molto simile a quelle che aveva usato per anni, quando, da Contessa di Forlì, organizzava attacchi e difese.

“A Ravenna c'è un Governatore veneto, un certo Cristoforo Moro, e anche Brisighella, sì, è in mano veneziana. Sembra che Dionigi Naldi sia stato fondamentale, per far avere al Doge quel castello.” ammise la Medici, lo sguardo basso e il tono distaccato, quasi che tutte quelle questioni la riguardassero a malapena: “A questo si appella Firenze: alla necessità di impedire a Venezia di avere tutta la Romagna...”

“E c'era bisogno di sostenere l'Ordelaffi a Forlì? Potevano mandare mio figlio.” rispese secca la Sforza, tornando al punto che più le doleva.

“Vostro figlio Ottaviano..?” domandò Lucrezia, rianimandosi appena, con un'espressione scettica che, forse, l'avrebbe portata a una breve risata, se non fosse stata così mesta e incupita dagli abiti a lutto.

“No, mio figlio Galeazzo.” disse la Leonessa.

La Medici si fece pensosa e poi chiese: “Non è troppo giovane?”

“A dicembre compirà diciotto anni.” ribatté la milanese: “Si può definire giovane, ma non troppo giovane per questo genere di cose.”

“Possiamo solo augurarci che il papa che verrà eletto decida di fare qualcosa per aiutare questa nostra causa... Con l'aiuto di Dio, l'Ordelaffi non vivrà a lungo...” soppesò la Medici, con un sospiro che stava a intendere che lei fosse pronta ad andarsene.

“Ancora una volta devo solo augurarmi che un Ordelaffi crepi, dunque...” commentò la Tigre, lasciandosi andare a un paio di bestemmie sussurrate, che strapparono un mezzo sorriso a Lucrezia, che ancora trovava sorprendente quella strana donna, così affascinante, così istruita, eppure a tratti così sgrezza.

“Credete che dal Conclave uscirà un papa Della Rovere?” domandò a quel punto la fiorentina, che in quegli ultimi giorni, presa com'era dal dolore sordo per la morte della figlia Cornelia si era in buona parte disinteressata agli affari del gran mondo, pur non restandone del tutto digiuna.

“La speranza è quella. I miei parenti stanno spingendo in quel senso e spero che possano avere alleati nei Cardinali fiorentini, in particolare in chi porta il vostro stesso cognome.” fece Caterina di rimando.

L'altra annuì appena, senza però dare una conferma certa di quel fatto, e poi chiese: “Prima che me ne vada, posso vedere mio cugino Giovannino?”

La Leonessa, che pur non avrebbe voluto interrompere già quello scambio, non essendo stata in grado di esprimere appieno tutto il suo profondissimo disagio nei confronti dell'atteggiamento di Firenze, fece cenno di sì e aggiunse: “Credo che lo troverete nel cortile interno, assieme a mio figlio Bernardino...”

“Accompagnatemi.” la pregò la Medici.

“Sono sicura che riuscirete ad arrivare da sola al...” iniziò a dire la Sforza, ma l'altra fu categorica.

“Accompagnatemi.” ripeté, senza ammettere repliche, mostrando, forse per la prima volta, la fermezza fiera che affondava le radici nell'importanza del suo cognome.

Non capendo il motivo di tanta insistenza, la Tigre accettò e basta, scortandola senza protestare. In effetti, già dopo pochi passi, capì che Lucrezia aveva desiderato fare quei pochi passi assieme per poter rendere più colloquiale e meno formale la conversazione, andando a toccare un tasto che la milanese avrebbe creduto che non sarebbe nemmeno stato sfiorato quel giorno.

“Pier Maria cresce bene?” le domandò, mentre attardava il passo, al solo scopo di prolungare quell'incontro informale tra due donne, anzi, tra due madri.

“Cresce bene.” annuì Caterina, che provava sempre un po' di ansia, nel sentir nominare il nipote.

“Sono contenta. Immagino per voi sia una gioia vederlo in salute e sereno.” riprese l'ospite.

“In effetti è così.” convenne la Sforza, chiedendosi quanto, in realtà, Fortunati avesse detto ai Salviati su Pier Maria.

“La mia Cornelia era così piccola...” bisbigliò Lucrezia, senza preavviso: “Vederla morire è stato qualcosa a cui non ero preparata.”

“Lo so.” ribatté la Leonessa.

“So che avete perso un figlio anche voi, anni fa. So che mi potete capire.” sospirò tremula Lucrezia: “Come avete reagito?”

“Avevo uno Stato da mandare avanti.” rispose la Tigre, sperando di arrivare il prima possibile al cortiletto: “E un sacco di problemi. In quell'epidemia, poi, erano morti in tanti, anche mia madre, e io dovevo gestire tutto da sola...”

“Ho capito.” la frenò la Medici, con un sorriso triste, percependo il dolore mai sopito e forse mai davvero affrontato della sua interlocutrice: “Anche mio marito sta reagendo come voi.”

Caterina non aveva intenzione di prorogare oltre quel tipo di discorso, perciò disse, alzando la voce: “Eccoci. Questa porta ci condurrà da Giovannino...”

Lucrezia ringraziò e l'anticipò nella piccola corte interna della villa. Salutò il bambino che correva vispo come un'apetta laboriosa e poi scambiò un cenno anche con Bernardino, che invece la guardava quasi con sospetto. Lasciandoli ai loro giochi turbolenti, la Medici si trovò a chiedersi quando avrebbe concepito di nuovo un figlio. Lei e Jacopo, in quei giorni, sembravano essere capaci di consolarsi solo cercandosi in modo quasi ossessivo ogni notte. Il Salviati si era fatto ancor più taciturno che dopo la morte della madre, Elena, e a tratti era così severo con se stesso e categorico nelle sue esternazioni da spaventare la moglie. Si lasciava andare solo tra le braccia di lei, a volte, accoccolato sul suo seno, piangeva in silenzio, altre volte ancora, sembrava tornare alla vita nel baciarla e nello stringerla a sé. Lei, di contro, si stava prendendo del tempo per riprendersi, ma non riusciva mai, o quasi, a pensare razionalmente a quanto era accaduto. Che i bambini, specie quelli piccoli, morissero era una cosa che stava nell'ordine del mondo. Cornelia non era la prima e non sarebbe stata l'ultima e non esisteva grande famiglia che non contasse dei bambini morti quasi senza motivo, lei lo sapeva bene, lo aveva vissuto sulla sua pelle. Eppure anche lei riusciva a staccarsi da quell'apatia solo quando sapeva che Jacopo l'avrebbe raggiunta. Riusciva a tornare a respirare solo quando lui la pretendeva, riusciva a riaffacciarsi alla vita solo combattendo il buio con la luce della passione che aveva benedetto il loro matrimonio fin quasi da subito.

Sperava che presto il suo ventre le avrebbe dato un nuovo motivo per essere lieta. Non sarebbe stato come sostituire Cornelia, quello non sarebbe stato possibile: ma sarebbe stato un modo per andare avanti, per rinnovare la vita e la speranza.

La Tigre aveva avuto il suo Stato a cui pensare, Lucrezia voleva avere i suoi figli, quelli che già amava e quelli che sarebbero arrivati. Per Firenze, la grandezza dei Medici e i grandi affari del mondo, avrebbe avuto tempo una volta che si fosse ripresa del tutto.

“Giovannino è un bambino bellissimo.” disse, quando si decise ad andarsene davvero e tornare in città: “Spero che un giorno diventi amico dei miei figli e che...”

“E che magari sposi una delle vostre figlie.” concluse Caterina, ma a mo' di battuta divertente.

Lucrezia, invece, la prese seriamente e ribatté: “Quello sarebbe l'ideale. Dovremmo far conoscere i nostri figli, adesso che sono piccoli, in modo che si conoscano senza troppi pregiudizi e si piacciano o meno per natura e non per nostra imposizione. Pensateci... E siete d'accordo, ditelo col piovano, che organizzerà tutto quanto.”

Quella proposta, all'apparenza quasi strampalata, penetrò nella mente della Tigre che, quella sera, quando Fortunati arrivò in camera da letto, si trovò a chiedere: “I Salviati hanno delle figlie di età simile a quella di Giovannino, non è vero..?”

Francesco, nel sentirsi rivolgere una simile richiesta, sollevò le sopracciglia e rispose: “Sì, sì, in effetti sì...”

“Non sarebbe una cattiva idea farli incontrare... Giovannino non vede mai bambini della sua età... I suoi fratelli sono più grandi e Pier Maria è troppo piccolo...” disse, con tono casuale, la donna.

Il piovano si schiarì la voce e concluse: “Se credi che possa fargli bene... Ma bisogna vedere se i Salviati sono d'accordo.”

“Li sono.” assicurò la Sforza: “Però prima lasciamo loro ancora un po' di tempo... Avevi ragione, il lutto li ha colpiti in pieno. Diamo loro qualche settimana per riprendersi ancora un po', e aspettiamo anche di vedere cosa succederà a Roma, al Conclave, e poi faremo organizzeremo...”

 

“Hai fatto bene.” disse Giuliano, rimettendosi subito in bocca il cosciotto di pollo ormai completamente scarnificato, come se potesse trarne ancora qualche godimento: “In fondo sono loro che hanno combinato questo pasticcio...”

Il Cardinale Sansoni Riario guardava il cugino in silenzio. Non era più tanto certo che fossero stati i fiorentini a rimettere a Forlì Antonio Maria Ordelaffi, però quando aveva fatto pressioni con il loro portavoce, messer Machiavelli, affinché parlamentasse con lui e poi con il Cardinale di Rouen, che rappresentava il re di Francia e, di rimando, Cesare Borja, quello non si era tirato indietro.

Con dei modi dimessi si era dapprima inchinato a lui spiegandogli come Firenze, banalmente, non avesse messo naso in quella restaurazione, ma che fosse stata felice di sapere Forlì non in mano veneziana, e poi era corso dal francese a dire altrettanto. Alla fine, aveva rabbonito entrambi e aveva risolto, almeno a parole, un incidente che poteva essere molto complesso da affrontare.

Quando Raffaele, che aveva doverosamente invitato a pranzo il Della Rovere, gli aveva espresso le sue perplessità circa l'opportunità di aver usato quel Niccolò quasi come fosse un suo dipendente, il grosso Cardinale aveva risposto che aveva fatto bene, anzi, più che bene.

“Per fortuna le esequie stanno per finire...” riprese Giuliano, abbandonando una volta per tutte lo scheletro del pollo e buttandosi di nuovo sul vino: “Anche se quegli Orsini e quel dannato Bartolomeo e sopratutto quel gran cane del Baglioni non sono ancora pronti ad andarsene...”

“Sarebbe davvero un problema così grande, iniziare il Conclave con tutti loro ancora in Roma?” si permise di chiedere Raffaele che, in effetti, non capiva quella determinazione nel volerli allontanare prima di iniziare le votazioni.

“Sono infidi e creano un sacco di problemi.” borbottò Giuliano, asciugandosi il labbro con il dorso della mano e facendo cenno al coppiere che portasse altro vino: “Io non li voglio in città, quando diventerò papa. Anche se a parole possono essere miei sostenitori, non voglio che inizino delle guerre intestine con quelli che ancora simpatizzano per il Valentino...”

“E del Valentino che ne sarà?” fu la naturale domanda che uscì dalle labbra del Sansoni Riario.

Il Della Rovere fece un'espressione cupa e poi scoppiò a ridere: “Voleva che mettessi gli Orsini a Castel Sant'Angelo al suo posto! E che a lui dessi un cavallo leggero per permettergli di lasciare Roma!” poi imitò in modo poco realistico la voce del Borja, affibbiandogli un tono lamentoso e acuto: “Non voglio più uscir dall'Italia, ma nemmeno stare nello stato della Chiesa! Lasciate decidere a me dove andarmene! E io sono un povero imbecille, secondo lui!”

Sul finale la voce del Cardinale era tornata feroce, tanto che il cugino preferì non chiedere oltre, dato che era evidente che quella richiesta di Cesare non sarebbe mai stata evasa.

“L'Ordelaffi è a Forlì, il Malatesta è tornato a Rimini e forse Giovanni Sforza si è ripreso la rocca di Pesaro...” tra un sorso e l'altro Giuliano elencava quelle che, a quanto pareva, per lui erano enormi catastrofi: “Lo stato della Chiesa, grazie a quei fanfaroni stranieri, si era allargato e invece, adesso che arrivo io, si sfascia di nuovo...”

“Una volta eletto papa, c'è nostra cugina, su cui contare...” provò a proporre Raffaele.

Gli occhi acuti del Della Rovere lo colpirono come una freccia, ma poi l'uomo ammise: “Quella donna è peggio di un demonio: è quello che farebbe a caso nostro... Ma dicono che sia invecchiata in fretta, che si sia spenta... Il Valentino è riuscito a rovinare perfino una come lei...”

“Madonna è ancora molto capace e decisa. Le manca solo un esercito.” fece presente il Sansoni Riario.

Anche se Giuliano si era detto fin dal principio abbastanza bendisposto verso i Riario e, soprattutto, verso Caterina, più il Conclave si avvicinava, più pareva tentennare. Il nome della Tigre di Forlì era più scomodo di quanto sembrasse e anche se in molti avrebbero voluto sfruttarla per rimettere ordine in Romagna, altrettanti la temevano così tanto da preferire farne a meno.

Il Cardinale Della Rovere, però, in quei giorni aveva anche un altro cruccio. Sua nipote Maria Giovanna, vedova del Da Varano, cominciava a essere impossibile da gestire. Non aveva alcuna intenzione di chiuderla in convento e temeva che un marito qualsiasi non sarebbe stato capace di tenerle testa, così come uno altolocato e utile ai fini politici e militari non avrebbe accettato una donna con già tre figli e un amante che ormai non veniva nemmeno più tenuto nascosto, dando scandalo in tutta Venezia, facendo arrivare le chiacchiere più piccanti perfino più a sud, a Roma.

Poteva un pontefice avere una nipote del genere? Era indispensabile porre un freno a quella sua follia. Non poteva farne uccidere l'amante, perché Maria Giovanna era pur sempre sanguigna, una Della Rovere, e chissà come avrebbe reagito... Giuliano aveva giurato a suo fratello Giovanni di aiutarla e proteggerla, ed era uno dei pochissimi giuramenti che intendeva onorare in vita sua...

“Ma è vero che quel Galeazzo, il figlio di Madonna, è un giovane di così buon carattere?” chiese quindi, di punto in bianco, seguendo il filo dei suoi pensieri.

Raffaele, cadendo dalle nuvole, si schiarì la voce e rispose: “Sì, Galeazzo è un giovane molto educato, istruito e promette molto bene come militare, anche se per il momento non ha avuto molte occasioni per dimostrare le sue capacità.”

“Sì, ma dico... Lui è davvero di buon carattere come dicono?” insistette il Della Rovere: “Perché sui figli di nostra cugina si spettegola molto, e come dicono che il figlio dello stalliere è una peste e che Ottaviano è un buono a nulla, di Galeazzo dicono che sia una sorta di santo... Dicono perfino che non abbia ancora mai conosciuto una donna... Ma quanti anni ha?”

“Non credo che qui a Roma possano sapere se quel ragazzo abbia o meno mai conosciuto una donna... E mi auguro che nostra cugina non venga a sapere che si fanno certe chiacchiere su di lui, perché Galeazzo è il suo figlio prediletto, e potrebbe risentirsene molto.” fece Raffaele, prendendo un po' di colore, trovando imbarazzante affrontare quel genere di discorso: “Comunque compie a breve diciotto anni.” concluse, con la sicurezza di un cugino che conosceva alla perfezione le date di nascita dei figli della cugina e si premurava, compatibilmente con il periodo, di mandare sempre a ciascuno un dono di compleanno o, quanto meno, un augurio per iscritto.

Giuliano si stava passando il calice ormai vuoto da una mano all'altra, assorto, e poi, dopo un paio di minuti di totale mutismo, domandò: “Credi che nostra cugina Caterina venderebbe suo adorato Galeazzo in cambio di un esercito?”

Preso alla sprovvista, il Cardinale Sansoni Riario schiuse le labbra e poi sussurrò: “Non lo so...” e subito dopo ammise, quasi con tristezza, intuendo dove Giuliano volesse andare a parare: “Forse sì.”

   
 
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