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Autore: Orso Scrive    13/02/2024    2 recensioni
Durante la torrida estate del 2022, la Toscana è sconvolta da alcuni misteriosi e brutali omicidi. Omicidi che vedono, come vittime, tombaroli sorpresi a scavare all’interno di antiche sepolture etrusche.
Per questo motivo, il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani vengono inviati a San Gimignano, in provincia di Siena, nel cuore dell’antica Etruria, per indagare sugli strani avvenimenti.
Riusciranno Alberto e Aurora a fare luce su questo nuovo caso, che affonda le sue radici ai tempi della guerra tra Roma e gli Etruschi, e forse a tempi ancora più remoti?
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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6.

 

 

 

Clevsins, 514 a.C.

 

 

 

Il re Larth, scortato da dodici cavalieri, spronò il cavallo e varcò al passo la monumentale porta di Clevsins, costruita in forma di arco, sulla cui volta erano appese delle antefisse in terracotta raffiguranti i visi austeri delle divinità protettrici della città.

Il mantello variopinto, che indossava al di sopra del chitone azzurro e dorato che gli arrivava alle cosce, ondeggiava con pigrizia, ripiegato con cura sulle spalle. Il diadema d’oro che gli ornava la fronte, un cerchio finemente cesellato con la tecnica della granulazione, nel cui centro si trovava un turchese giunto dalla lontana terra di Kemet, emanava riflessi rossastri quando i raggi del sole lo accarezzavano, dando il benvenuto divino al nuovo sovrano.

Ai lati della strada, trovò ad accoglierlo una folla festante che, lanciando fiori variegati e profumati, acclamava con grida di giubilo l’uomo che aveva sconfitto il mostro e trionfato sul male.

Gli ultimi cinque anni, Larth li aveva trascorsi a Volsinii.

Per volontà dell’intera popolazione, ne era stato eletto lucumone e, ricoprendo tale carica, aveva diretto con molta attenzione la ricostruzione della città, partendo dalle nuove opere di fortificazione che avevano preso il posto delle antiche e ormai inservibili mura poligonali erette dagli ausoni migliaia di anni addietro. Inoltre, adempiendo al suo voto, aveva eretto templi e altari per le divinità, compreso Velch, la cui furia sembrava per il momento essersi placata.

Erano stati cinque anni felici.

Larth, con il consenso del popolo, aveva mantenuto il suo ruolo di lucumone anche dopo lo scadere dell’anno di carica. Gli era quindi stato posto sul capo il diadema ed era stato incoronato re con il nome di Purth’Nas.

Aveva preso moglie, sposando Lariza, la figlia di Luvces, il vecchio che l’aveva accolto al suo primo arrivo nella città abbandonata. Nel volgere di meno di un anno, da Lariza era nato un bambino a cui Larth aveva imposto il nome di Aruns Purth’Nas, indicandolo così come proprio legittimo successore.

Sembrava che tutto dovesse continuare in quel modo per lungo tempo. Larth era certo di aver compiuto il proprio destino. Ma il dio Soranus, il nume protettore del sovrano, non si era mostrato d’accordo con tale stato delle cose.

Una notte, mentre compiva i riti sacrificali in onore di Voltumna, il re era caduto preda di un sonno repentino. I suoi occhi, incapaci di rimanere aperti, si erano chiusi ed era stato come se il suo spirito fosse uscito dal suo corpo. Gli era sembrato di scivolare in un mondo fumoso e dai contorni incerti e, per un attimo, aveva creduto di essere stato accolto nel regno dei celesti. A quel punto gli si era parata davanti agli occhi una nuvola da cui fuoriuscivano folgori e tuoni.

«Che fai, dunque, Larth Purth’Nas?» era risuonata una voce stentorea. «Ti accontenti di una piccola città? Non aspiri a nulla di più? Io ti ho dato la mia spada per essere re della Terra d’Ausonia! Reclama il regno che fu di tuo padre, chiama al tuo cospetto i lucumoni della Lega e sarai signore non di una singola città, bensì delle Dodici Capitali della Patria dei Rasenna!»

«È dunque questo, il mio fato?» aveva chiesto il re, tenendo il capo basso per rispetto al suo signore, di cui non avrebbe potuto sostenere la vista senza esserne annientato.

«Questo è il mio volere, Larth Purth’Nas», aveva replicato la voce, prima che Larth si risvegliasse con un sussulto ai piedi dell’altare.

Essendo addentro alla scienza dei sogni, Larth non aveva avuto bisogno di rivolgersi agli auguri per dare un’interpretazione a quella visione.

Quello era il volere del dio Soranus.

Lui lo avrebbe rispettato.

A ogni costo.

Così, dopo aver organizzato gli affari della città affinché tutto potesse procedere al meglio anche in sua assenza e aver nominato suo suocero come reggente nel suo nome, Larth si era messo alla testa di quel piccolo drappello di cavalieri, ciascuno in rappresentanza di una città della Dodecapoli di cui gli dèi gli conferivano il comando, e si era mosso alla volta della sua patria d’origine, quella in cui risiedeva il capo della Lega.

Tenendo le briglie con la mano sinistra, il re alzò più volte il braccio destro, indirizzando cenni di saluto alla folla che chiamava il suo nome e cantava le sue lodi. Non aveva osato sperare in una simile, festosa accoglienza. Ma c’era qualcosa che lo turbava. Come avrebbe reagito, suo fratello Tarx, alla prospettiva di doversi piegare al volere divino e cedere il trono a lui, il figlio cadetto?

Larth era pronto a tutto, pur di adempiere al disegno di Soranus. Se quella era la volontà del dio, lui l’avrebbe fatta rispettare, senza lasciarsi fermare da nulla e da nessuno. Eppure, nel profondo del proprio cuore, pregò gli dèi che gli risparmiassero il dolore di dover scatenare una guerra contro il proprio fratello per potersi appropriare del trono.

La lunga via che stava percorrendo si aprì nella piazza principale. Il suo cuore provò una stretta, nel riconoscere quei luoghi che erano stati tanto familiari nel tempo della sua infanzia.

Da una parte, alto sopra una piattaforma a cui si accedeva per mezzo di una scalinata, si innalzava il tempio dedicato alla suprema triade composta da Uni, Tinia e Menvra; il santuario, seppure quasi del tutto di legno, incuteva rispetto e timore, e le rigide statue di terracotta, poste sul frontone sorretto da cinque tozze colonne tuscaniche, sembravano fronteggiare i fedeli con i loro sguardi fissati nel tempo.

Al capo opposto della piazza – nel cui centro gorgogliava una fontana, nella quale l’acqua potabile era stata incanalata con un complesso sistema idraulico sotterraneo, collegato a un acquedotto che si snodava fino alle lontani sorgenti – sorgeva invece il palazzo reale. Era costituito da quattro bassi edifici con i tetti coperti di tegole rosse, disposti in forma quadrangolare a delimitare un vasto cortile interno. La facciata dell’edificio principale, quello rivolto verso la piazza, presentava grandi porte rivestite di bronzo lavorato a sbalzo con scene mitologiche.

Porte che, in quel momento, erano chiuse.

Larth fece fermare il cavallo e rimase immobile, gli occhi rivolti verso le porte serrate. I dodici cavalieri, sei per lato, si arrestarono pochi metri alle sue spalle.

«Vienimi incontro, fratello», mormorò tra sé il re, senza smettere di guardare le porte.

Il cavallo nitrì, nervoso. L’animale percepiva il turbamento del suo cavaliere. Inoltre, sebbene la piazza fosse deserta, il clamore della folla rimasta sulla strada giungeva fin lì, infastidendolo ancora di più. Gli zoccoli batterono il selciato, più volte. Il re dovette accarezzarlo sulla testa e chinarsi a sussurrargli alcune parole all’orecchio. Mentre si rialzava, vide le porte del palazzo aprirsi.

Tarx apparve oltre la soglia. Sembrava invecchiato di un secolo, rispetto all’ultima volta che Larth lo aveva incontrato. I suoi capelli, lunghi fin sotto le spalle, si erano incanutiti prima del tempo e il suo volto appariva segnato da mille preoccupazioni.

Per un istante, i due fratelli si fissarono senza dire nulla. Sull’intera città, come se dal cielo stesso fosse stato inviato un cenno perentorio, calò un silenzio assoluto. Anche il cavallo si acquietò, dopo aver sbuffato un’ultima volta. Larth, pur restando impassibile, non poté fare a meno di ripensare al momento di strana quiete che aveva preceduto il suo scontro con Velch, cinque anni prima.

Fu Tarx a rompere il misterioso incanto che aveva avvolto Clavisins.

«E così ci rivediamo, fratello. Dopo quasi quindici anni di lontananza, sei tornato per reclamare ciò che pensi ti appartenga.»

«Sono venuto in pace, fratello», replicò Larth, pronto. «Non è un esercito, quello che conduco con me. Questi dodici uomini che mi accompagnano sono nobili principi della Dodecapoli. Guarda: tra di loro riconoscerai anche tuo figlio, in rappresentanza di questa stessa città. Non è la guerra, che mi spinge da te.»

«Eppure questo non cambia che tu creda di doverti sedere sul trono che, da nostro padre e dai vaticini degli auguri, fu riservato a me», obiettò Tarx, impassibile.

«Io credo di dover adempiere al volere di Soranus, l’antico signore di tutta la terra d’Ausonia», disse Larth.

Per un istante, Tarx parve riflettere. Infine, cominciò ad avanzare a passo lento verso il centro della piazza. Larth comprese di dover fare lo stesso, appiedato. Per quanto lui fosse un inviato degli dèi, non poteva essere tanto presuntuoso da rimanere a cavallo dinnanzi a un altro sovrano, per di più suo fratello maggiore. Quindi, smontato dalla groppa, si avviò a sua volta con incedere tranquillo verso la fontana.

Fu lì, vicino alle statue in forma di delfini dalle cui bocche si riversavano le acque che riempivano la vasca sottostante, dove nell’infanzia avevano trascorso tante ore felici, che i due fratelli si incontrarono. Il primo, vero incontro dopo una vita intera.

Tarx e Larth si guardarono negli occhi, ripensando al passato.

«Lasciasti la nostra casa per andare ospite dai nostri parenti», rammentò Tarx in un sussurro. C’era una punta di malinconia nella sua voce, adesso che nessuno poteva udire i loro discorsi. «Ti saresti dovuto assentare per quindici giorni soltanto, e invece ciascuno di quei giorni è divenuto un anno. Nostro padre, affranto dalla tua scomparsa, morì senza sapere che cosa ne fosse stato di te.» La voce del vecchio re si incrinò un poco. «Nostra madre lo seguì poco dopo nella tomba. I nostri zii e cugini, al contrario, festeggiarono la tua assenza, temendo che avresti potuto aspirare al trono mettendo così a repentaglio la pace della nostra città. Io stesso, all’inizio, non piansi la tua lontananza.»

Tarx prese un respiro profondo.

Larth restò in silenzio, in attesa che riprendesse a parlare.

«Eppure non mi è possibile negare di aver a lungo vegliato nella notte, interrogando le stelle per sapere in quale sorte fosse incorso mio fratello. E le stelle mi parlarono. Mi dissero cose che, in quel momento, non compresi: ma le comprendo adesso. Losna venne a me, rivelandomi che, quando fosse giunto colui che avrebbe recato la spada di Soranus, avrei dovuto riconoscerlo come mio signore.»

Tarx abbassò per un momento gli occhi alla fontana. Osservò i giochi dell’acqua, seguendo i piccoli e freschi zampilli. Tornò a sollevare lo sguardo in quello del fratello.

«Ebbene, quel momento è giunto, e io non sarò empio. Gli dèi hanno dichiarato il loro volere e io accetterò il fato che hanno stabilito.»

Detto questo, Tarx si sfilò dalle spalle il mantello color porpora che indicava la sua regalità e, con un gesto rapido, lo drappeggiò addosso al fratello. Poi cadde in ginocchio.

«Salute a te, Larth Purth’Nas, signore delle Dodici Città!» proclamò a gran voce, chinando il capo in segno di ossequio.

Il re restò immobile, lo sguardo rivolto al cielo. Dall’alto dell’eterea purezza della volta celeste, risuonò un tuono.

Il volere di Soranus, signore della terra d’Ausonia, era stato compiuto.

 

 
   
 
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