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Autore: Adeia Di Elferas    18/02/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca aveva chiesto espressamente di non indire feste sfarzose o banchetti dalle mille portate, malgrado il tentativo strenuo di sua suocera di convincerla del contrario. Suo marito, dopo un breve confronto, era stato d'accordo con lei e così avevano deciso di sì, fare un pranzo più ricco del solito, ma senza esagerare e senza invitare persone esterne alla famiglia.

L'idea della Riario era semplice: nelle ultime settimane, anzi, fin da quando era arrivata a San Secondo, era diventata una persona molto in vista. La gente la vedeva per strada, al mercato, in mezzo ai soldati, assisa in trono in tribunale, a leggere le rime dei poeti della zona che cercavano di farsi notare e finanche a canticchiare nei salotti con le figlie delle famiglie più abbienti, insegnando loro vecchie ballate che arrivavano fin dalla tradizione viscontea. I suoi modi dolci, ma allo stesso tempo fermi, e la sua grande cultura, che traspariva anche dai gesti più semplici, la stava facendo adorare da tutti. La situazione economica e sociale di San Secondo, però, era ancora critica e le ferite lasciate dal malgoverno degli anni addietro erano ben lungi dal rimarginarsi, dunque indire una festa in grande stile, di certo, sarebbe stata una decisione sbagliata.

Se per il matrimonio e per il suo arrivo era stato giusto sottolineare il clima di giubilo, per un semplice compleanno non era il caso di dare l'impressione di voler spennare il popolo per mangiare qualche pietanza più speziata del solito o bere del vino più esotico di quello che normalmente si poteva trovare sulle tavole di tutti gli emiliani.

“Be', se mi proponi una bella faraona ripiena, non posso rifiutare...” sorrise la Riario, quando quel mattino il marito avvisò, trionfante, di aver trovato ben quattro faraone da far cuocere per il pranzo, donate da un loro fittavolo che aveva chiesto l'onore di poter almeno offrire qualcosa per il pranzo di compleanno della sua signora.

“Ne farò fare due ripiene e una arrotolata, con i fegatini e...” iniziò a dire Troilo, accigliandosi, come se scegliere la portata principale fosse il più grande dilemma della sua vita.

Bianca rise, vedendo nel viso da quarantunenne del suo sposo la stessa espressione che avrebbe potuto scorgere in un ragazzino eccitato. Non voleva smorzare il suo entusiasmo, ma non voleva nemmeno che il De Rossi perdesse troppo tempo in una cosa che lei per prima riteneva di secondaria importanza.

Così, con tono calmo, gli disse: “Per me va benissimo, lo sai che la faraona mi piace molto, cucinata in ogni modo.” poi sorrise e soggiunse: “Se vuoi, stasera potrei cantare per te e per tua madre...”

“Se ne hai voglia, io ne sarei felicissimo.” ammise lui, posandole una mano sulla spalla: “Lo sai che ho sempre amato la tua voce...”

Bianca annuì, compiaciuta. Ricordava molto bene quando, alla villa di Castello, il De Rossi la fissava rapito, mentre lei raccontava cantando le gesta dei Visconti e di altri condottieri.

“Volendo, potremmo prenderci anche il pomeriggio libero...” provò a dire lui, mordendosi il labbro.

“Volendo potremmo, ma non lo faremo.” lo frenò subito la moglie, accarezzandogli la guancia un po' ispida di barba bionda: “Stamattina devo dare udienza a due nostri mezzadri che hanno citato in giudizio un loro vicino di terreno... Mentre oggi pomeriggio voglio andare ancora dai capimastri, perché sembra ci sia un problema di tenuta nel progetto del nuovo portone d'ingresso...”

“E non può aspettare domani?” chiese l'uomo, cingendole i fianchi con fare inequivocabile.

La Riario rise di nuovo, ma poi si fece di nuovo seria: “Si potrebbe, ma non voglio farlo.”

Lasciando la presa sulle anche della giovane, il De Rossi si finse costernato, ma quando parlò lo fece con un'ironia affettuosa: “Dovevo aspettarmelo, sposando la figlia della Tigre di Forlì: verrò sempre dopo la ragion di Stato.”

Bianca fece un sospiro, come a dargli ragione e poi andò verso la porta della saletta e disse, ricordandosi solo in quel momento di una postilla dell'ultima lettera della madre, la stessa lettera in cui le aveva scritto i suoi auguri: “A proposito di ragion di Stato... Il Conclave dovrebbe iniziare oggi, o al massimo domani. Dobbiamo essere pronti a comunicare con mio cugino Raffaele. Se verrà eletto Giuliano, dobbiamo fare in modo che non si dimentichi di noi.”

Siccome Troilo non diceva nulla, la moglie lo guardò per qualche istante e poi gli chiese: “Che c'è?”

Lui alzò appena le spalle e rispose: “Nulla...” avrebbe voluto esprimere a parole quello che stava provando in quel momento, quella sorta di orgoglio nel vedere che quella donna, così giovane e di cui si era fidato subito, pur conoscendola pochissimo, si stava dimostrando una compagna di vita valida e solida, e non solo qualcuno con cui dare dei figli alla casata, ma alla fine riuscì solo a sussurrare: “È solo che ti amo.”

La Riario non era del tutto convinta che quello fosse tutto ciò che il marito avrebbe voluto dirle, ma decise che avrebbe, eventualmente, scavato più a fondo in un secondo momento: “Sei stato da Costanza, oggi?” gli chiese, mentre lasciavano la sala e attraversavano una parte di rocca dalle pareti un po' rovinate e che ancora andava rimodernata.

Il De Rossi si ridestò un po' dai suoi pensieri: “Sì, poco fa. Sta benissimo. È bella come te.”

“E la balia?” si informò la moglie, continuando a camminare speditamente.

“Sicuramente felice per le nuove concessioni che hai voluto farle.” rispose l'uomo, non nascondendo una punta di irritazione.

Si era opposto come aveva potuto all'aumentare la paga di quella ragazza e aveva ceduto solo quando la Riario aveva decretato che la decisione ormai era stata presa. La sua non era taccagneria, né avversione verso la balia, ma semplicemente non voleva che una parte della loro servitù venisse pagata troppo, per evitare malumori in chi non avrebbe ricevuto aumenti di compenso. Si era anche permesso di far notare come fosse poco prudente assumere precettori istruiti, ma senza una fama importante, così come donne dal passato torbido, o, ancor peggio, dal passato certo, trascorso in qualche postribolo. Bianca non aveva risposto a quelle critiche, lasciando che l'emiliano si sfogasse e poi aveva sbuffato, dicendogli che non si rendeva minimamente conto di quanto, invece, fosse importante gettare radici nel popolino in quel modo. Prendere a servizio figli cadetti di famiglie importanti o figlie di questo o quel ricco mercante di certo avrebbe permesso loro di vantarsi di una buona servitù, dalla nomea impeccabile, ma la distanza tra loro e il popolo, di cui stavano cercando disperatamente l'approvazione, sarebbe diventata presto incolmabile. Aveva poi aggiunto anche che sua madre Caterina aveva avuto a servizio donne riscattate dai peggiori bordelli di Forlì, eppure erano state tra le migliori che mai le avessero prestato servizio.

Quando poi Bianca aveva ricordato come la sua migliore amica, negli ultimi anni passati a Ravaldino, fosse proprio una ragazza poco più vecchia di lei salvata dalla Tigre in quel modo, Troilo non aveva più avuto argomentazioni da portare a sostegno delle proprie convinzioni e aveva lasciato perdere.

Erano ormai arrivati vicini all'ingresso, quando Bianca riprese in mano il discorso riguardante la balia: “Ho solo predisposto che le si dia più cibo.”

Il De Rossi fece per ribattere, ma la voce gli morì in gola. Non aveva alcuna voglia di litigare, anzi, non voleva nemmeno uno scontro lieve con la moglie. In quei casi, avere diciannove anni più di lei gli imponeva categoricamente l'obbligo di mostrarsi più ragionevole, maturo e accomodante possibile. Senza contare che, nel profondo, ormai iniziava a credere che la Riario avesse ragione.

“Quello che quella ragazza mangia, diventa latte per nostra figlia, non dimenticarlo.” tagliò corto Bianca, mentre si faceva aprire il portone dal servo e scrutava il cielo grigio: “E comunque, mi sembrava che fossimo d'accordo che la gestione economica della famiglia fosse appannaggio mio, o sbaglio?”

Troilo annuì, fece un mezzo sorriso e si chinò appena verso di lei: “Sì e mi fido. È che sono stato per tanto tempo da solo, devo ancora abituarmi all'idea che ci sia qualcuno al mio fianco che cammina nella mia stessa direzione.”

“Fidati di me.” fece allora la Riario, alzandosi sulla punta dei piedi per dargli un bacio veloce: “E tu pensa ai soldati, ne abbiamo già parlato: prima avremo un esercito nostro, prima saremo tranquilli.”

“Lo so, ma non è facile. I contadini sono diffidenti e chi ha già una formazione militare, preferisce mettersi al soldo di chi dà più garanzie di me...” si schermì l'uomo, mentre la moglie si faceva dare il mantello dal servo.

“Sono convinta che ce la farai.” disse a quel punto la Riario, non avendo voglia di sentire un concerto che aveva già sentito almeno altre tre volte: “Allora a pranzo faraona. E anche a cena. In fondo, quattro faraone in un pasto solo sarebbero troppe...”

“Va bene.” sorrise lui: “E dopo cena canti.”

“Sì.” rise Bianca, un piede già fuori dall'uscio della rocca.

“E poi?” domandò lui, tornando a farsi un po' insinuante.

“E poi...” la giovane tornò sui suoi passi, si avvicinò al marito e lo fece chinare, per potergli parlare nell'orecchio: “E poi cerca di tenerti pronto, perché malgrado la ragion di Stato e tutte quelle cose noiose, anche io ho voglia di festeggiare. E la notte è lunga.”

Il De Rossi gonfiò il petto e si profuse in un inchino: “La mia signora sarà accontentata.” e poi le diede un veloce bacio, augurandole: “Buona fortuna, con quei mezzadri... Hai sempre con te il tuo pugnale?”

Quella domanda, a metà tra il serio e il faceto, non trovò impreparata la Riario che, con un colpetto al fianco, per indicare indirettamente lo stiletto che portava assicurato al polpaccio, sotto le gonne, come aveva imparato da sua madre Caterina, assicurò: “Se l'udienza degenererà in rissa, so come difendermi: sono cresciuta in una rocca militare, non dimenticarlo mai.”

 

Giampaolo Baglioni era partito da Roma, cedendo al fine alle insistenze del Della Rovere e, soprattutto, dopo un acceso diverbio che l'aveva quasi portato alle mani con il Cardinale di Rouen e un altro aspro diverbio con il Cardinale di Santa Susanna e Vescovo di Volterra, Francesco Soderini.

Secondo alcuni, come anche Machiavelli riuscì a origliare, in realtà il Baglioni voleva raggiungere i Vitelli e con loro tenere d'occhio Michelotto, il braccio destro del Valentino, che si diceva fosse stato da poco catturato a Ostia da soldati fedeli al Cardinale Giuliano Della Rovere. Nessuno sapeva dire se Giampaolo volesse per qualche motivo farsi consegnare il Corella o se, piuttosto, si fidasse poco della custodia sotto cui era stato posto e volesse tenerlo personalmente sotto controllo. Di certo si sapeva che Miguel aveva lasciato intendere – e questo era stato in parte il motivo che l'aveva portato alla carcerazione – di volersi congiungere con Carlo Baglioni e Taddeo Della Volpe per dar contro a Giampaolo o agli eventuali oppositori del Valentino.

Ciò che importava, alla fine di tutti quegli spostamenti, era che infine si erano create le condizioni che il Della Rovere ricercava da quasi dieci giorni: il Conclave poteva avere inizio.

Fin dal momento esatto in cui aveva avuto la certezza assoluta che il Baglioni aveva lasciato l'Urbe, Giuliano si era immerso anima e corpo nei suoi intrallazzi. Aveva sguinzagliato anche il cugino Raffaele, lasciandogli il nemico più facile da corrompere, ossia i Cardinali ancora incerti, ma non fedeli ad altri padroni, mentre per sé si era tenuto i due ossi più duri, ossia i Cardinali spagnoli che avrebbero dovuto sostenere un candidato favorevole al Borja e il Cardinale di Rouen.

Quel 30 ottobre era passato quindi tra discorsi e promesse e scesa la sera i Cardinali spagnoli erano ormai ferventi partigiani del Della Rovere e il Rouen, suo malgrado, sembrava quanto meno essersi fatto meno bellicoso.

Quella notte, tra il 31 ottobre e il 1 novembre, finalmente il Conclave si sarebbe riunito, ma Giuliano non era ancora tranquillo. A Roma ormai lo si dava come certo vincitore e qualcuno, addirittura, lo chiamava già pontefice, ma il savonese non era incline a credere troppo ai buoni auspici.

Sapeva che una sacca di resistenza, molto infida perché poco nota, era composta dai Cardinali che, intimamente, non volevano un uomo come lui. Lo ritenevano infido e, nel profondo, un incapace. In pochi si ricordavano di suo zio Sisto IV, che, molti anni prima, era comunque stato un papa capace di comandare eserciti e gestire immensi patrimoni, ma in molti si ricordavano suo cugino Girolamo Riario e, come aggravante, ora parlavano di sua nipote, Giovanna Maria, vedova da un istante e già sotto le lenzuola di un amante che non aveva né arte né parte.

Così, dopo un breve incontro con Raffaele, Giuliano seppe cosa fare per vincere anche le ultime perplessità. C'era un uomo, in Vaticano, che, malgrado tutto, non aveva mai perso la propria credibilità, ed era Ascanio Sforza.

Gli mandò un messaggero, per ribadirgli che quella causa stava a cuore a entrambi, dato che tutti e due volevano far tornare in auge le rispettive famiglie e che favorire Caterina Sforza poteva essere la chiave per entrambi. Il Cardinale Sforza si prese un paio d'ore per riflettere e poi, quando fu certo di avere un discreto pubblico, andò a piedi e con una discreta scorta di servi, a casa di Giuliano, facendo sapere a tutti che i due, malgrado gli screzi personali avuti nel corso degli anni, si erano completamente riappacificati e che il voto di Milano sarebbe andato al Della Rovere.

La piazza di Roma, il mattino del 31 ottobre era tutto un fermento. Le scommesse animavano il popolo più di ogni altra cosa e se qualsiasi altro candidato al soglio era dato a sei su cento, Giuliano voleva all'ottantadue su cento.

Ormai i giochi erano fatti. Quando i prelati si avviarono alla Messa dello Spirito Santo, che avrebbe fatto da preludio all'inizio del Conclave, tutti, nessuno escluso, salutarono il Della Rovere già con la reverenza che sarebbe stata consona a un papa, se non addirittura a un re.

 

Caterina aveva passato buona parte di lunedì 30 ottobre a pensare sì a Bianca, che di certo aveva trovato il modo giusto di festeggiare il suo ventiduesimo compleanno, ma anche a Livio. Era stato un ricordo a tratti sfuggente, a tratti assediante e ciò che aveva spaventato di più la Tigre era stato rendersi conto pur non essendo passati tanti anni, faticava a ricordare i dettagli di suo figlio.

Anche se si soffermava, ricordava magari la sfumatura degli occhi, ma non quella dei capelli, oppure rivedeva distintamente le sue mani, ma faticava a riportare alla mente la sua voce.

Per fortuna era stata così presa, specie nel pomeriggio, dalle notizie che arrivavano da fuori e dalle contingenze della gestione della villa, da riuscire, a sera, a rilassarsi un po' e accantonare quelle memorie che su di lei avevano un effetto a tratti devastante.

Aveva voluto comunque passare la notte da sola, perché si era resa conto, quando Fortunati l'aveva raggiunta, che il suo pensiero correva a tratti ancora a Livio, a come sarebbe stato, se quel giorno avesse potuto compiere diciannove anni, e sapere che mai l'avrebbe potuto vedere adulto le faceva bruciare la gola e pungere e gli occhi, e non voleva piangere davanti al piovano, soprattutto per non dover rispondere alle sue domande.

La mattina del 31 ottobre, dopo una notte trascorsa tra incubi e pianti silenziosi, la Leonessa si sentiva in parte tornata in forze, ma la lettera che le venne recapitata a colazione le fece subito tornare un senso di agitazione indefinito e impossibile da sconfiggere.

In realtà il messaggio era di Alessandro Sarti, un fiorentino, che era stato amico in gioventù di Giovanni Medici e che aveva conosciuto Marullo, essendo come lui amico anche di Poliziano nonché – se Caterina aveva ben capito – il suo editore. La donna aveva preso contatti con lui quasi per caso, su insistenza di Fortunati, che lo conosceva, e l'uomo si era subito interessato a lei e, in memoria del Popolano, aveva deciso di aiutarla e andare a Roma a seguire per lei il Conclave.

Sempre lui, grazie alle sue conoscenze, le aveva permesso di sapere qualcosa in più sulla condizione di Baccino, e le aveva permesso di muoversi attivamente per interessarsi alle sorti del cremonese, ma a tratti quel fiorentino assumeva un tono impertinente che non le piaceva affatto e che la indisponeva, così come aveva fatto nello scrivere quella lettera.

Mettendo un momento da parte il piatto di pane nero e formaggio che stava mangiando, Caterina prese il calice di vino – di norma non ne beveva a colazione, ma negli ultimi giorni aveva deciso di non darsi regole troppo strette, dato che era già in difficoltà per altri mille motivi – e sorbì qualche sorso, mentre spianava di nuovo dinnanzi a sé la missiva di Sarti.

Innanzitutto l'uomo la informava che 'dopo molte fatiche et periculi de la persona' era arrivato quel venerdì a Roma. Si prendeva anche la briga di dilungarsi nel descrivere i vari disagi del suo viaggio, forse per ottenere poi una ricompensa più cospicua per la sua missione – lo stesso Fortunati aveva detto spesso che quell'uomo negli ultimi tempi aveva avuto molti problemi economici – oppure forse solo perché era un uomo profondamente noioso.

Sarti infatti scriveva: 'La causa de non essere giunto più presto è stata, che passato Siena tutti li cavalli de le Poste sono scorticati in modo che non possono stare in piedi et mè bisognato il più delle volte far la metà delle poste a piedi...' e subito dopo, come ad accusare la Tigre di non averlo finanziato a sufficienza per un viaggio tanto impegnativo, attaccava: 'Vostra Signoria ha speso de molti danari, li qualli sono butati via. Ultimamente qua e Bacino e ser Fabiano li quali stano in su le spese senza fructo alcuno.'

Quella stoccata con cui la si rimproverava di aver voluto mandare soldi a Baccino, affinché potesse affrancarsi dal suo padrone e anche a un altro suo vecchio soldato, finito a Roma chissà come dopo la presa di Forlì, fece arrabbiare di nuovo la Leonessa così tanto che si trovò a svuotare il calice di vino tutto d'un fiato, finendo per riempirlo di nuovo al solo scopo di distrarsi un po', prima di riprendere la lettura.

Ciò che seguiva, in effetti, era la parte di gran lunga più importante. Il fiorentino riportava: 'Valentino e in castello non sapiamo dare iuditio di lui; decto Valentino ancora tiene Roca Soriana; nepe et orvietto; per unaltra mia scrivero a Vostra Signoria più Longhamente de tutto quello accadera'.

Il problema, che indusse la Sforza a sbuffare sonoramente, era che quelle importanti notizie tornavano subito a essere inframmezzate da lamentele: 'per la via ho spesa dui Ducati di più in le poste, perche d'ogne posta al presente vogliono septe Carlini; e vogliono dare le guide altrimenti non vogleno dare cavalli'.

Con l'agilità di un funambolo, poi, Sarti riprendeva subito, citando un uomo che Caterina avrebbe voluto non sentire mai più nominare: 'Nicolò Malchiavelli Fiorentino me li ha prestati per la via: priego Vostra Signoria che ordini qua che me siano dati per poterli restituire al dicto Nicolo; anchora Vostra Signoria ordini che ali mei bisogni me sia subvenuto di qualche cosa: Io non portai denari cum mi, Io me portaro in modo che Vostra Signoria se laudara in modo di me che quella restara dal canto mio satisfacta in ogne cosa; et le opere lo mostraranno...'.

Solo in chiusura il fiorentino soggiungeva: 'Le cose de Francesi vanno pegiorando.'

“Chi ti scrive?” la voce di Fortunati fece quasi sobbalzare Caterina, che, presa com'era dalla lettera, non si era accorta che l'uomo fosse arrivato nel salone.

“Credevo di aver chiesto di essere lasciata in pace almeno a colazione...” ribatté fredda la donna, portandosi alle labbra di nuovo il calice, per finire il vino prima che il piovano potesse ridire anche su quello.

“Mi ha detto Creobola che eri qui... Volevo vedere come stavi... Ieri sera mi sei sembrata un po' in difficoltà e...” iniziò a dire l'uomo, avvicinandosi alla tavola.

“Solo perché stanotte non ti ho voluto nel mio letto, non significa per forza che stia male, non credi?” l'attaccò lei, ancora irritata per i toni di Sarti e sulla difensiva per quello di Francesco.

“Caterina...” fece allora il piovano, sedendolesi accanto.

“Sto bene.” insistette lei, ripiegando la lettera che aveva ancora davanti a sé.

“Ma... C'era del vino lì dentro?” chiese Fortunati, all'improvviso, annusando l'aria e indicando il calice.

Sentendosi scoperta, la donna spostò il calice vuoto e disse: “Non sono affari tuoi.”

“Che succede?” fece il fiorentino, deciso a non mollare il punto.

Indecisa, la Leonessa preferì lanciare la lettera davanti a Fortunati, andando a lasciare da parte tutto quello che era il suo tormento interiore più privato e orientando la conversazione sugli affari di Stato e, soprattutto, sulla presunta insubordinazione di Sarti: “Leggi, leggi il tuo amico, quello che pubblicava il libri di Poliziano... Leggi che toni usa con me.” gli disse, indicandogli le righe esatte che l'avevano infastidita di più: “Non mi bastava Ottaviano a chiedermi sempre soldi, ci voleva anche questo...”

Francesco si era accigliato e stava scorrendo una parola dopo l'altra, con espressione sempre più contrariata. Per qualche istante la Tigre fu sicura che l'uomo avrebbe sbottato dandole ragione, magari addirittura affibbiando qualche titolo poco gentile allo scrivente, e invece quando il piovano ritrovò la parola, si espresse in modo mesto, quasi cupo.

“Stai pagando un vitalizio a Baccino?” chiese, senza guardarla.

“Non è un vitalizio.” rispose la donna, tornando a sentire la rabbia montarle in corpo per quell'obiezione inattesa: “Aveva bisogno e io potevo aiutarlo.”

“Perché?” indagò l'uomo, ripiegando la missiva.

“Come, perché?” sbuffò la Sforza, alzandosi: “Perché è stato un mio fedele soldato.”

“Non è stato l'unico, eppure non mi risulta che invii dei soldi anche ad altri.” il tono di Fortunati si era fatto tagliente.

“Era come me a Ravaldino, quando ci hanno sconfitti.” rimarcò Caterina, sentendosi quasi ridicola a doversi giustificare con un uomo che, in vita sua, aveva solo gestito i conti di una pieve e coordinato qualche minima azione diplomatica.

“Anche in questo caso, non è stato l'unico. Eppure gli altri non hanno ricevuto nulla da te.” il modo in cui Francesco picchiettava con l'angolo della lettera sul tavolo irritava molto la sua interlocutrice.

“Lui è stato uno dei miei amanti.” provò a dire la milanese, sperando che toccare quel tasto bastasse a far smettere il piovano.

“Non è stato l'unico.” ribatté con ovvietà lui: “Ma degli altri non vuoi nemmeno leggere le lettere, figuriamoci mandare loro denaro.”

Solo a quel punto la donna si immobilizzò e, dopo aver cercato a lungo le parole, riuscì a spiegare in modo molto chiaro: “Per me lui non è stato come gli altri. È stato importante. Sono riuscita a salvargli la vita quando ci hanno catturati, facendolo scambiare per un coppiere. Lo sai bene, lo conoscevi anche tu. Prigionieri a Roma, avete cercato tutti e due di aiutarmi, quando ne avete avuto la possibilità. Non posso ignorarlo, ora, se ha bisogno.”

Francesco si alzò a sua volta, le porse la lettera e aspettò che lei la sistemasse con cura nella tasca dell'abito e poi le sussurrò: “Ho capito.”

“Con tutte le cose più importanti che ci sarebbero a cui pensare, tu ti metti a essere geloso di Baccino...” borbottò lei, evitando comunque il suo sguardo: “Di un uomo che, probabilmente, non rivedrò nemmeno più in vita mia...”

“Comunque sia...” fece Fortunati, incrociando le braccia sul petto: “Poco fa mi è giunto un messaggio abbastanza sicuro: il Conclave dovrebbe cominciare oggi. Anzi, forse si stanno già chiudendo per deliberare...”

“Forse questa era la prima cosa da dirmi, non credi?” domandò la Leonessa, sforzandosi di cercare lo sguardo del fiorentino.

Questi, dopo una certa ritrosia, sollevò gli occhi verso quelli verdi di lei e alla fine mormorò: “Sono io che sono uno stupido. Quando ho accettato di starti vicino, dovevo sapere che la gelosia non poteva essere contemplata.”

La Tigre guardò un momento fuori dal salone e poi, sicura che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, tirò a sé Francesco e gli diede un rapido bacio sulle labbra: “Oggi scriveremo a tutti i nostri informatori. Dobbiamo sapere tutto, di quello che sta succedendo a Roma.”

Il piovano annuì, ma era evidente che il suo pensiero fosse ancora rivolto ad altro. Anche se aveva sentito il sentore vinoso del bacio della sua amante, non gliene importava granché. Tutti i suoi pensieri si concentravano su Baccino e su quello che era stato per la Tigre. Lo ricordava: un bellissimo giovane, muscoloso e sorridente, forse un po' vanitoso, ma la sua giovinezza bastava a scusare in parte la sua sfrontatezza. Inoltre, quel cremonese aveva dimostrato anche a lui di tenere davvero a Caterina.

Se davvero a Roma cominciava ad avere qualche problema, anche se fosse stato eletto un papa a loro favorevole, era possibile immaginare che la Sforza, con una scusa o con l'altra, avrebbe trovato il modo di farlo arrivare lì a Castello, sia per aiutarlo, sia per riaverlo per sé?

“Stanotte ti aspetto in camera mia, dopo cena.” concluse la Leonessa, con tono quasi distaccato: “E capirai che non hai motivo di essere geloso di nessuno.”

 

La sera era calata sul Vaticano e, ufficialmente, tutti i porporati si erano riuniti in Conclave, anche se di chiavi, per il momento, non ne era stata usata nemmeno mezza per chiudere gli elettori in una stanza e portarli a decidere il nome del nuovo papa senza subire influenze esterne.

La porta era aperta e in mezzo ai Cardinali viaggiavano ininterrottamente coppieri, messaggeri, perfino soldati e meretrici, e tutti origliavano e bisbigliavano, tramavano, promettevano e minacciavano.

Servì un perentorio ammonimento del Cardinale Della Rovere per dare una parvenza di legalità a quel Conclave. Fece chiudere la porta, seguendo i crismi del caso, ma lui stesso si guardò bene dall'isolare davvero quella congregazione dal resto del mondo.

Con la silenziosa complicità del Cardinale Raffaele Sansoni Riario, Camerlengo e Protodiacono di quel Conclave, Giuliano fece sì serrare la porta, ma fece anche spalancare la finestrella della porta stessa, quella che, di norma, avrebbe dovuto essere usata solo ed esclusivamente essere usata per consegnare pranzi e cene ai porporati.

Quella finestrella divenne nel giro di pochi minuti un vero e proprio occhio sul mondo. Chi stava fuori parlava con chi stava dentro e viceversa. Appunti e sacchetti pesanti d'oro e argento entravano e uscivano e allo stesso modo attraverso quell'orifizio venivano scambiate impressioni dall'esterno e dall'interno.

Prima ancora che la porta venisse riaperta, nel cuore della notte, grazie a quel pertugio formidabile, spalancato come le fauci di un mostro vorace, tutto il mondo seppe chi aveva vinto l'elezione e nessuno ne restò sorpreso: Giuliano Della Rovere era il nuovo papa.

L'unico mistero era il nome che si sarebbe imposto. I chiacchieroni sostenevano che sarebbe stato un Sisto V, altri propendevano per un Giulio II, ma l'attesa doveva durare ancora qualche ora.

“Ci sono regole da seguire, non si può far tutto quello che si vuole...” fece sapere il nuovo pontefice, parlando attraverso la finestrella: “Scrivete a tutti che il papa nuovo è stato eletto, ma sul nome, vi prego, lasciatemi il tempo... Ci sono pro forma da seguire, i conclavisti non mi perdonerebbero una libertà eccessiva... Sia noto, però, che il Cardinale di San Pietro in Vincoli è il nuovo papa e sarà papa di tutta la Cristianità e, quanto è vero Iddio, sarà un nuovo Giulio Cesare e riporterà il Vaticano a essere l'impero che merita di essere!”

Machiavelli, che era insieme agli altri curiosi fuori dalla porta, corse subito a procurarsi il necessario per scrivere ai Dieci e, appena trovò una superficie per appoggiarsi, scrisse, con grafia tremante per l'eccitazione di poter dare quella notizia prima ancora che la porta del Conclave venisse riaperta: 'Magnifici Domini, etc. Avviso col nome di Dio le Signorie vostre, come questa mattina el cardinale di San Piero in Vincula è stato pronunziato nuovo pontefice: che Iddio lo facci utile pastore per la Cristianità. Valete. Die prima novembris 1503, Romane. Servitor, Niccolò Machiabegli, Secretario'.

 

   
 
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