Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    28/02/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Giuliano Della Rovere aveva ufficialmente scelto il suo nome papale, ossia Giulio, e dunque sarebbe stato per tutti Giulio II.

Non aveva fatto mistero nemmeno per un secondo del fatto che quella decisione fosse giunta non solo per riecheggiare il suo nome secolare, ma anche e sopratutto per promettere al mondo della cristianità un nuovo Giulio Cesare. Alessandro VI, a suo dire, non era stato in grado di eguagliare l'Alessandro Magno da cui tanto aveva sostenuto di prendere ispirazione. Con il Della Rovere, invece, la suonata sarebbe cambiata e la Chiesa sarebbe tornata a essere un grande impero.

Quel primo novembre, però, sembrava eterno anche a un uomo forte e tenace come il novello Giulio Cesare. Non solo la notte era, ovviamente, trascorsa insonne per via del Conclave, e non solo la mattina se n'era andata tra cerimonie – tra cui la più importante era stata la presentazione in San Pietro per ricevere l'obbedienza dei Cardinali – e abboccamenti, ma, arrivata l'ora di pranzo, il nuovo pontefice si era anche dovuto prestare a un pranzo con i Cardinali di Como e di Rouen.

La compagnia sarebbe stata già abbastanza impegnativa di per sé, ma la situazione si fece ancora più difficile da gestire quando il Cardinale Sanseverino si invitò da solo a unirsi al desco, seguito a ruota dal Cardinale Ascanio Sforza, entrambi ben decisi a far pesare fin da subito l'aiuto dato al Della Rovere, ricordandogli, anche solo con la loro mera presenza, che i favori andavano ricambiati e senza sconti.

Giuliano in cuor suo non aspettava altro che di avere un'oretta da trascorrere da solo nei suoi alloggi, per togliersi le scarpe, cambiarsi i vestiti, che erano fradici di sudore benché fosse il primo novembre e facesse freddo, e sonnecchiare un po'.

In più il suo Francesco Alidosi, l'uomo con cui aveva condiviso nel bene e nel male buona parte della sua vita, era a Roma, finalmente congiunto a lui, eppure non aveva ancora fatto in tempo a trascorrere con lui nemmeno dieci minuti. Sarebbe stato complicato, ora che era papa, mantenerlo come amante senza che nessuno se ne lamentasse, ma era anche vero che, proprio perché era papa, gli sarebbe ora stato possibile dare privilegi e ruoli al suo Francesco tali da permettergli di stargli accanto spesso e anche nei suoi alloggi privati senza destare grosso scandalo né sollevare polveroni.

La pazienza che ci sarebbe voluta per arrivare a stabilizzare la presenza di Alidosi, comunque, era niente rispetto a quella che il Della Rovere stava mettendo in campo per sopportare la voce pedante del Cardinale di Rouen, il cui accento era così irritante da far quasi dimenticare a Giulio II quanto fosse stato importante quell'omuncolo per arrivare al suo scopo.

Stremato, prosciugato e tenuto in piedi quasi esclusivamente dal vino bevuto e dall'enorme quantità di carne mangiata, Giuliano riuscì ad arrivare a fine pranzo tutto intero, e riuscì anche ad annunciare che si sarebbe preso un paio d'ore per raccogliersi in preghiera nei suoi alloggi. Quella scusa, a conti fatti, era quella più accettabile, per quanto una tra le meno credibili. Però, se molti porporati avrebbero creduto che lui stesse cercando di ritagliarsi una parentesi per dormire un po' e basta, quasi nessuno avrebbe collegato la presenza di Alidosi a Roma a quella necessità pontificale di rintanarsi un po' in camera.

Scusandosi con tutti quelli che ancora pretendevano un incontro o anche solo una parola buona, Giulio II attraversò mezzo Vaticano come un viandante nel deserto in cerca di un'oasi. Le guardie che presiedevano le porte dei suoi appartamenti lo salutarono con un cenno più ossequioso del solito, forse sperando che la sua nuova carica significasse anche per loro un avanzamento di grado o, quanto meno, un aumento di paga, e anche i servi lo accolsero con un calore nuovo, tra il reverente e l'insistente, ma il Della Rovere non vide e non sentì nessuno.

Nel momento stesso in cui varcò la camera da letto – dove era sicuro che lo stesse aspettando Francesco – si tolse con un gesto liberatorio i calzari e si cavò l'abito papale, gettandolo in terra senza riguardo.

Mentre ancora riprendeva fiato dopo quei movimenti ampi e teatrali, si trovò stretto tra le braccia di Alidosi che, dopo avergli dato un rapido bacio, lo guardò e sorrise entusiasta, sembrando un giovinetto e non un uomo di quarantasette anni: “Ce l'abbiamo fatta!” esplose, facendo poi un salto sul posto che lo fece sembrare ancora di più un ragazzino.

Giuliano annuì e poi, di colpo, anche se travolto dal giubilo del suo amante, avvertì tutta la stanchezza accumulata non solo quella notte, ma anche nelle notti e nei giorni prima. Un po' curvo, ma sorridente, si andò a sedere sul letto e attese che Francesco si sedesse accanto a lui.

Il Della Rovere in quel momento sembrava molto più vecchio dei suoi sessant'anni, ma Alidosi riusciva a scorgere nel suo viso solo un uomo trionfante, il nuovo pontefice di Roma, colui che avrebbe reso di nuovo grande la Chiesa.

Grattandosi un po' il naso adunco, Francesco chiese: “Com'è stato? Io non sono venuto fuori dalla porta del Conclave, perché lo sai...”

“Hai fatto bene, hai fatto bene...” annuì subito Giuliano: “Abbiamo fatto, credo, il primo Conclave a finestre aperte della storia!” esclamò il pontefice, scoppiando a ridere.

Mentre anche l'altro rideva, Giulio II si trovò a ripensare davvero a quanto, alla fine, fosse stato semplice. Ricordava i maneggi, andati a vuoto, che avevano preceduto il Conclave da cui poi era uscito papa Alessandro VI...

“In effetti è stato anche troppo facile...” disse infine, tra sé, accigliandosi: “In meno di una notte, mi hanno eletto papa...”

“Sono settimane che non dormi per arrivare a questo obiettivo.” gli ricordò Alidosi, mettendogli un braccio attorno alle spalle larghe: “Da mesi non dormi. Da anni stai lavorando a questo momento.”

“Sai una cosa?” fece Giuliano, come se l'altro non avesse nemmeno aperto bocca: “Ho sentito qualcuno dire già che sia stato un Conclave miracoloso... Perché dicono che altrimenti non sarebbe stato possibile... Hanno votato per me tutti. All'unanimità. Non credo sia mai successo...”

Alidosi, assumendo il suo piglio da pedante studioso di teologia, sollevò le sopracciglia e poi ribatté: “Mah, sul fatto che non sia mai successo davvero ho qualche dubbio... Dovrei andare a rileggere le carte dell'elezione di pap...”

“Non mi interessa.” tagliò corto Giuliano, zittendolo con un dito sulle labbra: “Piuttosto... Dammi qualche giorno e farò in modo di farti mio ciambellano e poi, chissà, magari Vescovo o Cardinale, devo capire bene quale carica ti permetterà di starmi il più possibile vicino senza farti correre dei rischi...”

Francesco annuì. Era una cosa di cui avevano discusso ampiamente, nel corso degli anni, ma lui non si era mai permesso di ragionarci a fondo.

“Prima – disse quindi, quasi a voler prendere tempo anche con se stesso – dovrai accontentare un sacco di altra gente, però...”

Il ligure guardò l'emiliano con un velo di tristezza, ma poi i suoi occhi vispi si accesero, mentre si metteva a elencare: “Ho promesso, è vero. Ho promesso agli spagnoli che saranno perdonati dai francesi, ai francesi che gli spagnoli saranno puniti, agli Orsini che arresterò il Valentino, al Valentino che arresterò gli Orsini, ai borgiani che ridarò la Romagna ai Borja, ai veneziani che darò la Romagna al Doge, perfino ai romagnoli ho promesso che darò la Romagna a un romagnolo... Ma l'unica promessa che intendo mantenere, anche se nel modo e nei tempi che vorrò io, a costo di suscitare qualche intemperanza della Tigre, è quella fatta agli sforzeschi, di ridare la Romagna a mia cugina Caterina, per mezzo di suoi figlio.”

“Suo figlio Ottaviano..?” chiese Alidosi, scuotendo il capo: “Hai sempre detto che era un idiota...”

“Suo figlio Galeazzo.” lo corresse Giuliano: “Ha l'età giusta, dicono sia molto sveglio e capace, di bell'aspetto e abile con le armi, e che sia anche molto ubbidiente e coscienzioso.”

Francesco annuì, facendo eco al compagno, dicendo che anche secondo lui era una buona scelta, tuttavia si chiedeva allora quali fossero i tempi e i modi voluti dal Della Rovere che potevano suscitare le resistenze della Tigre di Forlì.

“Mia cugina, negli anni, si è sempre dimostrata poco incline a stipulare contratti di matrimonio per i figli.” spiegò il papa: “Per il momento solo sua figlia s'è sposata, e se vogliamo dar retta a certe chiacchiere, non è stato certo un matrimonio d'interesse... Ma se rivuole la Romagna, se vuole che sia di suo figlio, dovrà darmi qualcosa in cambio.”

“Cosa?” chiese Alidosi, già però intuendo dove l'altro stesse andando a parare.

“Galeazzo deve avere circa diciassette o diciotto anni... Anche se è un po' più giovane, andrà benissimo, per mia nipote Maria Giovanna.” rispose il Della Rovere, con un sorriso malizioso: “E poi se è davvero ancora così poco esperto con le donne, sono sicuro che mia nipote sarà un'ottima maestra, con tutta la pratica che sta facendo con quel maledetto Andrea Bravo...”

Francesco rise e convenne: “Se tua cugina Caterina è la donna che mi descrivi, sarà felice di trovare una nuora in grado di risvegliare la semenza sforzesca di suo figlio...”

“Ah, gli Sforza...” ridacchiò Giulio II, accarezzando distrattamente il volto del suo amante: “Sono tutti grandi guerrieri, grandi amanti o grandi mangioni... Spero che quel Galeazzo, accordandogli un po' di pazienza, rispecchi innanzitutto la prima delle qualità di famiglia e poi, per il bene di mia nipote Maria Giovanna, anche la seconda...”

 

Quando quel 2 novembre Caterina, svegliandosi, si era accorta che il clima era più mite del solito e che le minacce di pioggia del giorno prima si era dissipate, riscaldate dal placido sole di quella mattina, non aveva perso tempo ed era andata a chiedere allo stalliere di sellarle la giumenta che a volte aveva già montato da sola.

Era una bestia abbastanza grossa, ma si stava dimostrando mansueta e aveva anche fatto amicizia con i cani da caccia da poco arrivati alla villa. Tra i cavalli della scuderia della Tigre, quella era la più adatta per la lezione che la Sforza aveva in mente quel giorno.

Aspettava notizie certe da Roma – il giorno prima era passato senza che arrivasse nemmeno mezza riga da parte di nessuno – e l'attesa la stava sfinendo. Se avesse trascorso anche quel giovedì a rimuginare tra sé e sé si sarebbe angustiata per nulla fino a sera, eccedendo nel vino e rischiando di prendere qualche decisione sbagliata.

La temperatura quasi primaverile e il cielo terso le avevano dato la spinta finale per andare a cercare Giovannino, già a quell'ora intento a giocare con Bernardino, e a dirgli: “Vieni con me.”

Il Medici, sorpreso da quella richiesta che non era corredata da una spiegazione di alcun tipo, guardò la donna e poi, come a chiedere un silenzioso permesso, guardò il fratello più grande, che teneva ancora in mano il cavaliere di legno che stava usando per farlo divertire.

Il Feo, trattenendo in modo encomiabile il moto spontaneo di impazienza che l'aveva preso nel vedere la madre chiamare a sé solo il fratello, fece un breve cenno d'assenso a Giovannino e poi guardò la madre per qualche istante, borbottando poi: “Tanto ho da fare.”

“Spero non sia nulla che ti impegni tutto il giorno – lo riprese la Leonessa, colta solo in quell'istante da un'idea – questo pomeriggio dovrai stare con me nella rimessa, perché vorrei farne un'armeria e tu mi servi come consulente.”

“Non è meglio Galeazzo?” chiese allora Bernardino, che non voleva illudersi troppo.

“Galeazzo oggi deve studiare matematica con Fortunati. E poi ho detto che mi servi tu, quindi non contraddirmi.” tagliò corto Caterina, sorridendo, comunque, di rimando al sorriso quasi timido del figlio.

Convinta di aver fatto una mossa buona, la Sforza prese per mano Giovannino, trovandola morbida e molto piccola, anche per via delle dita un po' tozze che, a quanto pareva, erano l'eredità scomoda lasciata dallo zio Lorenzo.

Arrivati alla stalla, la milanese montò la giumenta e poi si fece aiutare dallo stalliere per sistemare davanti a sé il figlio.

“Adesso andiamo al limitare del bosco – gli spiegò – ma ne staremo fuori, perché non voglio alberi in mezzo alla nostra strada.”

“E poi..?” chiese il piccolo, che, coi suoi cinque anni e mezzo era sempre combattuto tra la paura delle novità e l'entusiasmo per l'avventura.

“E poi galopperemo e ti insegnerò come tenere le redini.” fece Caterina, avvertendo un fremito di eccitazione nel figlio che, fino a quel momento, aveva solo montato stando al passo e quasi sempre con il cavallo tenuto a corda da lei, da Galeazzo o da qualche servo.

Appena giunsero nel punto più adatto, la Sforza gli spiegò a voce quello che avrebbero fatto e cosa avrebbe dovuto tenere ben a mente. Poi gli fece stringere nel modo corretto le redini e chiuse le proprie mani su quelle del bambino.

“Quando darò di sprone, sentirai il cavallo partire più veloce e dovrai tenere la presa ferma, sentire che lo stai dominando, hai capito?” gli disse: “Le briglie che tieni in mano ti collegano direttamente alla bocca del cavallo. Se tiri troppo, si ferma. Se lasci troppo, correrà troppo veloce e ci disarcionerà. Devi tenerlo a mezza forza, farlo andare come vuoi tu.”

Giovannino annuì. Era ovvio che un bambino così piccolo, per quanto robusto, non potesse governare una bestia tanto grande e forte, ma la Leonessa sapeva come fare.

Aveva imparato da suo padre che, quando lei era ancora più piccola di Giovannino, l'aveva messa in sella proprio in quel modo e le aveva insegnato a comandare. Non si trattava solo di imporre la propria volontà su un cavallo, ma di avvezzarsi al comando, alle decisioni, a detenere il potere.

Diede di sprone e la giumenta partì immediatamente al galoppo, felice, probabilmente, di poter sgambare un po' dopo la lunga permanenza nella stalla. Il piccolo Medici stringeva i pugni sulle redini e la madre, abilmente, manteneva la giusta tensione dei finimenti, facendo in modo, però, che il figlio pensasse di essere lui stesso a decidere quanta forza mettere.

Fin da subito, Giovannino parve entusiasta di quel nuovo esercizio e fino a mezzogiorno madre e figlio continuarono a cavalcare, al passo, al trotto e al galoppo, e a ogni passaggio lungo il limitare del bosco, il Medici si caricava sempre di più e la Tigre liberava la mente.

Il bambino, con grande soddisfazione della madre, non mostrava più alcuna paura e, anzi, più la cavalla andava veloce, più lui sembrava divertirsi e anche Caterina, che aveva sempre amato la velocità, nel galoppare, più il tempo trascorreva, più non riusciva a dissimulare in alcun modo la felicità che stava provando. Quella parentesi di pura libertà, da sola con Giovannino, le stava restituendo più salute di quanto non avrebbe fatto un mese di riposo.

Tuttavia, suo malgrado, la Tigre ormai doveva fare i conti con un corpo che non la supportava più come avrebbe voluto. I tempi in cui poteva stare in sella tutto il giorno senza quasi avvertire fatica erano passati da un pezzo, e per mezzogiorno la schiena le doleva, le braccia erano indolenzite e, sopratutto, le gambe erano attraversate a tratti da crampi e a tratti da intorpidimenti che la portarono a decretare che la lezione era finita.

“Ma lo rifaremo presto, te lo prometto.” assicurò la donna mentre, al passo, tornavano verso la villa: “Sei stato bravo. Farò in modo di trovarti il prima possibile un cavallo adatto a te, in modo che tu possa imparare a cavalcare tutto da solo.”

Rabbonito da quella prospettiva, il piccolo non si oppose alla fine della lezione, ma, anzi, anche quando, tornati in casa, la madre gli disse di andarsi a cambiare e di sciacquarsi almeno il volto e le mani, il bambino corse subito a eseguire gli ordini senza fiatare. Il Medici, in realtà, anche se ancora bambino, dimostrava via via sempre più di gradire bagni e frizioni con saponi o olii profumati di creazione materna, ma a volte, com'era normale alla sua età, si dimostrava riottoso quando quelle pratiche venivano imposte dall'alto.

Caterina passò poi nelle cucine a prendere qualcosa da mangiare in camera e, proprio nel raggiungere le sue stanze, incrociò Bernardino e gli disse: “Mi raccomando, per dopo... Adesso mangio qualcosa e se vuoi tra un'oretta vengo a chiamarti e andiamo a vedere come impostare l'armeria...”

Il ragazzino annuì subito, e poi il suo sguardo si concentrò su un punto alle spalle della donna, portandola a voltarsi a sua volta. Fortunati li stava raggiungendo a passo spedito, e teneva in mano una lettera già aperta.

“Che succede?” domandò la Tigre, non riuscendo a interpretare l'espressione del piovano.

“Hanno eletto il papa!” esclamò lui, porgendole la lettera: “Ha vinto Giuliano!”

La Sforza sentì allo stesso tempo un sollievo enorme nel sentire che l'elezione era andata come avevano sperato e un grande senso di incertezza. Ora che era davvero diventato pontefice, il Della Rovere avrebbe onorato gli impegni che si era preso con loro e con i loro alleati?

Ai tempi di Sisto IV la Leonessa aveva imparato molto da quell'uomo, ma sapeva che Giuliano sapeva essere scaltro e senza scrupoli. Anche se a volte le aveva dato man forte, non si sarebbe stupita di vederlo voltarsi dall'altra parte, ora che aveva ottenuto quel che voleva.

“Dobbiamo subito prendere contatti con lui e scrivere anche a Raffaele...” fece la milanese, quasi soprappensiero.

“Va bene, vengo in camera con te, così ci mettiamo subito all'opera...” convenne Francesco.

A quelle parole, Bernardino guardò prima l'uomo e poi la madre e fece un sorriso triste che non sfuggì a Caterina. Era delusione allo stato puro. Il Feo era sicuro che quella novità avrebbe assorbito così tanto la Tigre da farle dimenticare del tutto il loro accordo di passare il pomeriggio insieme con il pretesto di progettare l'armeria.

La Sforza era indecisa. Da un lato avrebbe voluto davvero buttarsi a capofitto nella corrispondenza e poi nelle congetture sul futuro assieme a Fortunati, andando anche a programmare concretamente l'incontro che aveva promesso a Lucrezia Medici tra i loro figli, in modo da usare quel pretesto per vedere anche i Salviati e fare con loro il punto della situazione. Dall'altro lato, però, non voleva deludere una volta di più Bernardino. Quel figlio necessitava forse più di tutti gli altri la sua attenzione e lei non riusciva mai a dargliene a sufficienza. Doveva decidere se essere ancora sempre e solo una donna di potere o anche una madre.

“Ne parleremo questa sera.” disse alla fine, posando una mano sulla spalla di Fortunati: “Stasera vieni in camera mia e scriveremo le lettere e discuteremo... Oggi pomeriggio ho già un impegno importante.”

Il piovano, stranito da quel discorso e non vedendo come fosse possibile che la milanese avesse un 'impegno importante' nel pomeriggio, dato che vivevano isolati in quella villa, provò a dire: “Ma bisogna fare presto! Ci vuole un po' di fretta...”

“Fretta?” fece eco la donna, con una breve risata, mentre il Feo, al suo fianco, sembrava gonfiarsi di gioia: “Qui c'è scritto nero su bianco che Giuliano è papa già da due giorni. E noi, con tutta la gente che abbiamo messo in giro per tenerci informati, lo abbiamo saputo solo ora. Avere fretta adesso, da parte nostra, sarebbe stupido, non credi?”

Allibito, e senza sapere cosa rispondere, Fortunati ebbe solo la forza di dire: “Ebbene, in tal caso...”

“Ci vediamo tra un'ora davanti alla tua camera.” disse la Tigre, rivolgendosi al figlio.

Bernardino, con gli occhi accesi come due bracieri, chinò appena il capo e ripeté: “Tra un'ora davanti alla mia camera.”

Chiedendosi cosa si fosse perso e cosa ci potesse essere di così importante da distogliere Caterina da un qualcosa che aveva atteso per giorni, anzi, per settimane, Francesco guardò madre e figlio scambiarsi uno sguardo carico di intesa e poi separarsi, andando uno a destra a l'altra a sinistra, lasciandolo solo in balia dei suoi dubbi.

 

Quel 2 novembre per Lucrecia Borja era un giorno di profondo lutto. Il cielo nero e l'umidità che attanagliava Ostellato sembravano fare da corona di spine alla fronte arrossata dal pianto della giovane.

Le ventitreenne non trovava nulla di cui compiacersi, quel giorno, nulla con cui consolarsi, perché il suo dubbio più atroce s'era fatto realtà concreta e il suo animo non poteva sopportare l'idea che l'idillio che aveva creduto di poter inseguire fosse crollato così, all'improvviso.

Stringeva al petto la lettera di Pietro Bembo e non osava più rileggerla per non cedere di nuovo ai singhiozzi. Le lacrime silenziose poteva nasconderle, ma dopo essersi chiusa in camera da sola con la scusa di un forte mal di testa, non poteva permettersi di attirare l'attenzione delle sue onnipresenti dame di compagnia gridando e disperandosi come avrebbe voluto fare.

Le sembrava passato un soffio, da quando Pietro era tornato a Ostellato, dopo essere partito per Venezia, proprio perché incapace di starle lontano. Ricordava ancora con lucido trasporto il loro ultimo incontro, di qualche giorno prima, che li aveva portati a ricreare un mondo tutto loro, chiudendo all'esterno chiunque altro. Quell'incontro, lei lo ricordava benissimo, era finito con la promessa reciproca di trovare presto un altro posto e un altra data per vedersi da soli, tranquilli, senza che nessuno potesse andare a disturbarli. E poi, il silenzio.

Bembo nella sua missiva era stato conciso, ma molto chiaro. Il trentatreenne non lasciava spazio a dubbi. Diceva che per lui, lì a Ostellato, non c'era posto. La corte dell'Este gli rubava lo spazio, la vita, il cibo. Anche se pareva impossibile che dove si sfamassero almeno cento persone non se ne potesse sfamare una in più, lui era categorico.

E Lucrecia sapeva benissimo il perché. Suo marito Alfonso lo aveva trattato con freddezza, senza alcuna simpatia, ma quello era il trattamento che riservava a ogni letterato, dunque non era il problema principale. Il vero campanello d'allarme, quello che per certo aveva convinto Pietro ad arrendersi, era stato l'implicito ordine diramato a tutti di trattarlo male, di osteggiarlo, di non invitarlo ai pranzi e alle cene, di non dargli il saluto, se non strettamente necessario.

Alfonso sapeva. Alfonso aveva capito ogni cosa. E Alfonso, Lucrecia lo sapeva, era un uomo difficile da comprendere, ombroso, silenzioso, e avrebbe potuto attaccare quando ormai il nemico non se lo fosse più aspettato.

Con lei non aveva fatto una parola, non aveva espresso nessun dubbio. Eppure, c'era stato un momento, la notte dopo l'ultimo incontro con Pietro, in cui Lucrecia, stando tra le braccia dell'Este, aveva avuto un fremito, un brevissimo moto di ribellione, per poi tornare mansueta come prima, soggiogata, suo malgrado, dall'avvenenza del suo legittimo sposo. Alfonso, che era solo in apparenza poco attento ai dettagli, doveva aver capito di aver ragione, di aver colto il pericolo in Bembo con cognizione di causa, e allora chissà cosa gli aveva mandato a dire o che tipo di minacce gli aveva fatto arrivare...

E Pietro era tornato a Ferrara. L'aveva lasciata lì da sola, malgrado tutte le promesse e le belle parole.

Era pomeriggio inoltrato quando la Borja, con immensa fatica, riuscì a frenare le lacrime e a rinfrescarsi il viso. Rimuginando, ripensando, analizzando ogni singola parola, ogni singolo bacio e ogni singolo, infinitesimale, gesto, era giunta alla conclusione che Pietro era stato più avveduto di lei.

Non era un addio, ma un arrivederci. Forse avrebbe potuto avvisarla prima e meglio, ma era stato saggio. Fuggendo, aveva permesso a entrambi di non rinunciare per sempre al loro amore. Con calma, quando Alfonso si fosse distratto, avrebbero avuto modo di riavvicinarsi...

La porta della stanza si aprì di scatto, così all'improvviso che Lucrecia non ebbe neppure il tempo di nascondere la lettera ancora umida di lacrime.

L'Este, vestito da operaio, come era solito a quell'ora, visto che lavorava quasi ogni pomeriggio alle sue artiglierie anche lì in villeggiatura, la guardò a lungo e poi lanciò un'occhiata distratta al messaggio spiegazzato abbandonato sul letto sfatto. Si massaggiò lentamente le mani, coperte dai soliti guanti, e poi si accigliò, come cercando le parole.

La Borja era sicura che si fosse deciso a dirle che sapeva tutto, che non la voleva più, che la ripudiava come moglie, che, anzi, l'avrebbe denunciata a qualcuno, che l'avrebbe fatta uccidere come adultera, che... Non sapeva nemmeno lei cosa.

Alfonso si morse il labbro un paio di volte e poi, con un tono molto pacato, a suo modo gentile, le chiese: “Stai bene?”

Lucrecia, d'istinto, scosse il capo, ma non disse nulla.

L'Este deglutì e poi, scuotendo a sua volta il capo, quasi a voler dire che sapeva molto bene il motivo reale del malessere della moglie, ma che non ne voleva per nessun motivo parlare, disse: “Ti sono venuto a cercare perché è arrivata da Roma la notizia che aspettavamo. Il Conclave ha deliberato, ormai la notte scorsa. Il nuovo papa è quel savonese, Giuliano Della Rovere... Si fa chiamare Giulio II.”

La Borja, che in quel momento si sentiva avulsa da ogni realtà, trattenne un'alzata di spalle, ma, subito dopo, vide in quella notizia – che in quel frangente non la tangeva affatto – una possibilità.

Con aria fintamente casuale, chiese: “Quindi dovremo tornare a Ferrara, immagino, per discuterne anche con tuo padre..?”

Alfonso si irrigidì. Era chiaro che sapesse bene che Bembo fosse tornato proprio a Ferrara e quella richiesta non fosse una coincidenza.

Così, con tono più severo, rispose: “No. A Ferrara c'è la peste. Restiamo qui e vediamo cosa succederà.”

Lucrecia incassò in silenzio il colpo, ma poi, asciugandosi un'ultima lacrima che era scivolata fino alla gola, si sforzò di sorridere e commentò: “Meglio così. Qui abbiamo più tempo per stare insieme.”

L'Este la fissò di nuovo, per un lungo interminabile minuto, e poi concluse: “Se è quello che vuoi, sappi che lo voglio anche io. Sta a noi decidere cosa fare.”

Quella sorta di dichiarazione d'amore e di intenzioni diede una nuova forza alla Borja. Se fino a poco prima era stata la donna più tragicamente disperata d'Italia, dopo quelle poche parole sentiva una nuova determinazione. Era pronta a far funzionare il suo terzo matrimonio e a ripagare Alfonso, che si era dimostrato un marito tollerante, con tutta la dedizione di cui era capace.

“Ceniamo assieme, stasera, qui in stanza?” gli propose.

L'uomo, che a Ostellato, così come a Ferrara, di rado restava solo con la moglie se non per condividerne il letto, ci pensò un po', ma poi accettò, con una sola condizione: “Lo sai che non mi piace parlare molto.”

“Mangeremo in silenzio.” sorrise lei, sentendo il proprio cielo tornare sereno, malgrado fuori stesse cominciando a diluviare.

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas