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Autore: AncientDust    12/03/2024    3 recensioni
"Per iniziare, ogni partita necessita che i pezzi vengano disposti sulla scacchiera. I bianchi da un lato, i neri dall’altro. I bianchi muovono per primi."
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"Spesso si dice che le cose vanno come devono andare. Che seguono un'immateriale volontà superiore. Eppure questa è solo una parte della verità. Una pennellata, un ritocco sporadico nel complesso dipinto dell'universo; un piccolo aggiustamento strategico sulla scacchiera del mondo."
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Crowley e Aziraphale fanno i conti con le loro scelte, mentre il mondo si prepara al Secondo Avvento.
Tentativo parecchio personale, e decisamente più drammatico, di proseguire la storia da dove si è interrotta, immaginando la trama di un'eventuale terza stagione.
[spoiler seconda stagione / tematiche delicate]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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DISCLAIMER: Tematiche delicate.

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Parte IX

 

 

 

- Aprile -

 

 

«Sai... sai che ti dico?»

Ed agitava l’indice in avanti, le palpebre strette nello sforzo di mettere insieme un pensiero coerente; la stabilità un po’ precaria sulle gambe nude. Un calzino a righe mezzo infilato al piede e l’altro ancora stretto in mano, che pendeva giù verso la moquette.

«Ti dico che ti amo. Ecco, , prop… proprio così.» e annuì, convinto, concordando con le sue stesse parole come se qualcun altro gliele avesse appena suggerite. I capelli scarmigliati e la camicia che gli cadeva storta addosso, tuttavia, non contribuivano a fornirgli la credibilità necessaria. Non che lui, comunque, ne sembrasse in qualche modo consapevole.

«Io ti amo.», continuò, «Cazzo, se ti amo, Betty. E un giorno di cues… di quesct…» ponderò un momento, alla ricerca della collaborazione della propria lingua, mentre provava a infilare anche il secondo calzino. Un tentativo temerario, considerando che nemmeno da sobrio Beth lo aveva mai visto riuscire a fare due cose insieme. E infatti, gli bastarono pochi istanti in bilico su un solo piede per perdere l’equilibrio e finire addosso alla cassettiera, rovesciando l’abat-jour che vi era appoggiata sopra. Imprecò, biascicando, mentre la rimetteva al suo posto, ma ne lasciò comunque il paralume storto.

«Stavo dish… dicendo:» si ricompose, o almeno tentò di farlo, continuando a utilizzare il ripiano della cassettiera come sostegno, ma fingendo di non averne alcun bisogno, «un giorno… un giorno di questi, io mando tuuutto a fanculo. Sissignore. Lascio quella merda di lavoro, e non… non torno più a casa.»

Beth sbuffò, seduta sul bordo del letto, mentre riallacciava la chiusura del reggiseno. Esausta spettatrice di quel siparietto deprimente, che ancora una volta si ripeteva puntuale.

«Lascia stare, Ed. Sei ubriaco.»

Una smorfia contrariata, forse anche un po’ delusa, si fece strada sulla faccia di Ed. «E che importa? Guarda che sono serio.» biascicò, gesticolando a vuoto con il calzino che gli era rimasto appeso in mano.

Sempre la stessa storia, pensò Beth; in bilico sul filo sottile della stanchezza. Quel filo che, in quel momento, tracciava il confine fra ciò che restava della sua capacità di essere comprensiva e l’impulso di buttarlo fuori dalla porta in mutande.

Lo osservò di traverso, malgrado fosse consapevole che l’indulgenza alla fine avrebbe avuto la meglio, come del resto sempre succedeva.

Edward Corby, tutto sommato, non era nemmeno tra i clienti peggiori che le erano capitati. Trentasette anni, un principio di stempiatura, due figli in un matrimonio senza dialogo e uno squallido lavoro d’ufficio giù a Southwark di cui potersi lamentare. Un tipo normale, mediamente tranquillo, ma infelice; sempre preoccupato, non molto sveglio, e con anche alcune difficoltà di partenza, a cui Beth cercava di ovviare con il giusto tatto.

Di base, era uno di quelli che magari avrebbe avuto bisogno di andarsene in psicoterapia, da uno psicologo vero, per poter risistemare la sua vita e i suoi casini, ma che non considerava adeguato dover pagare qualcuno per sfogare le proprie emozioni. O almeno, non se la parcella non comprendeva anche qualche altro tipo di servizio.

E Beth in fin dei conti riusciva anche a capirlo, perché era ovvio che la prospettiva di un po’ di immediata dopamina e di qualche tempo senza troppi pensieri, apparisse più allettante del dover affrontare i problemi.

Per non parlare del risolverli.

Per questo cercava di fare del suo meglio, aggiungendo al bisogno quel che poteva, che fosse del compatimento spicciolo, o un tentativo di conforto. Benché questo le mettesse spesso addosso una certa malinconia, oltre al peso di una responsabilità per cui di certo non aveva le competenze giuste.

Quello che però faticava davvero a sopportare, erano le volte in cui anche l’alcol faceva parte dell’equazione. Fornendo quel tipo di situazione sfiancante che nessuno, a suo avviso, meriterebbe di dover gestire, soprattutto alle quattro e mezzo del mattino e dopo una giornata piena.

Infilò stancamente la vestaglia e incrociò le braccia, offrendogli uno sguardo spazientito. «Ed, lo sai che Mrs. Sandwich non vuole che veniate ubriachi qui. Ti ho fatto entrare solo perché sei tu, ma non può diventare un'abitudine. Te l’ho già detto l’ultima volta.»

Lui scosse la testa, scacciando via con la mano il suo rimprovero, come se fosse una mosca fastidiosa. «Naaah, ma che dici. E comunque era solo… solo qualche birra, dai. Sono ancora pervfhettamente lucido. Vedi?» dichiarò, allargando le braccia, ed esibendo i lembi della camicia tenuti insieme da un solo bottone, allacciato all’asola sbagliata. Poi indietreggiò, incespicando in una delle proprie scarpe, che era rimasta abbandonata sul pavimento.

Beth sbuffò ancora, maledicendo quella nottata che non voleva saperne di terminare, e gli si avvicinò, raccogliendo ogni rimasuglio della sua pazienza. Gli slacciò prima quell’unico bottone storto e poi iniziò ad infilare gli altri, uno per uno, nelle giuste asole, mentre lui strascicava qualche debole protesta, cercando di mantenersi più o meno dritto in piedi.

«Perché non… non ce ne andiamo via, eh? Io e te.», riprese ad un certo punto, calandole un po’ la spallina della vestaglia e accennando una carezza maldestra al di sotto; un sorrisetto ebete sul viso. «Mollo tutto e andiamo via, che dici? Come in quei film vecchi, in bianco e nero.»

«Torna da tua moglie, Ed.» rispose laconica, scansandosi da quelle attenzioni e passando ad aggiustargli anche i bordi del colletto, giusto per rendergli un minimo di decenza. Lui non replicò, limitandosi a rivolgerle uno sguardo sconsolato, diluito nello stordimento dell’alcol, ma non per questo meno penoso. L’ennesimo che Beth si trovava a dover sostenere quella notte, e che sperava fosse anche l’ultimo della giornata. Sospirò fra i denti, con l’amarezza che si faceva strada sulla lingua.

L'unica cosa che aveva davvero imparato facendo quel lavoro, era quanto le persone fossero realmente infelici. E quanto a loro volta causassero altra infelicità a chi gli stava intorno. Una gigantesca trappola di generale malcontento, nella quale quasi tutti giravano in tondo come topi; alcuni troppo agitati per fermarsi un momento a riflettere, o per cercare di capire come uscirne, e altri che invece facevano finta di niente, che si limitavano per lo più a lamentarsi, accettando passivi il proprio destino.

E Edward era di sicuro uno di questi ultimi, che di lì a qualche ora si sarebbe pentito della sbornia, facendo colazione con caffè e pillole per il mal di testa; e che poi sarebbe andato pigramente a lavoro, come sempre, dimentico delle sciocchezze dette qualche ora prima nella penombra di quelle quattro mura.

Dal canto suo, Beth si sentiva più che altro stanca, e l'unica prospettiva che aveva albergato nella sua mente nelle ultime ore era quella di una doccia calda e di un letto, dove poter solo dormire in santa pace quel poco che poteva, prima di doversi alzare di nuovo. E per far sì che questo avvenisse, Ed doveva levare le tende il prima possibile.

Perciò gli raccattò i pantaloni, che lui infilò in modo un po’ goffo, gli rincalzò la camicia all’interno, gli strinse la cintura e lo aiutò persino con i lacci delle scarpe, dato che sembrava aver perso le basi della normale coordinazione occhio-mano. Poi gli appese la cravatta al collo, e gli consegnò giacca e tutto il resto in un grumo indistinto, senza troppe cerimonie, direttamente sulla soglia della stanza. Nel mentre, lui l’aveva guardata in silenzio, come un bambino che fino all’ultimo spera di avere il permesso per non andare a scuola.

«Tu comunque pensaci, eh.» disse infine, quando Beth lo spinse gentilmente fuori dalla porta.

«Si, si, certo.», assecondò, «Attento ai gradini quando scendi. E, Ed,» lo fermò, facendolo voltare, e frugò nella tasca della sua giacca, «queste le tengo io.» disse, agitandogli davanti il mazzo di chiavi dell’auto. «Te le restituisco la prossima volta, va bene? Per ora prendi la metro.» Ci mancava soltanto che avesse un incidente. Giusto un altro per cui non si sarebbe mai perdonata.

Lui annuì con espressione spenta, senza obiettare, e forse senza nemmeno aver ben capito; poi accennò un saluto e si allontanò verso il piano di sotto, ciondolando per le scale. Beth aspettò di sentire lo scatto del portoncino d’ingresso che si chiudeva, poi si lasciò andare contro lo stipite della porta. Sbadigliò e stiracchiò il collo, prima di provare a tirare fuori l’ultimo barlume di buona volontà necessaria per raccogliere i resti della giornata e muoversi di nuovo.

Anche oggi è andata, pensò, con un certo sollievo. Anche se, in effetti, non le sarebbe dispiaciuta una di quelle pillole per il mal di testa.

Il corridoio era silenzioso e vuoto; quasi inquietante, con quell’orribile carta da parati a fiori bordeaux e la luce un po’ smorta delle lampade; malgrado qualcun altro forse l’avrebbe definita soffusa.

L’unico sottofondo ancora udibile era il russare sommesso di Mrs. Sandwich che, come al solito, doveva essersi addormentata sulla poltrona al piano di sotto. E poi un leggerissimo brusio, come di chiacchiere ovattate, che proveniva dal bagno, in fondo all’altro capo del corridoio. Beth si fece forza, e avanzò scalza sulla moquette per raggiungerne la porta, dando giusto un paio di bussate distratte prima di entrare.

L’interno era più affollato di quanto si aspettasse, considerando che ormai doveva essere quasi l’alba. Erano Penny e Violet a parlottare distrattamente, sedute in un angolo, ancora mezze svestite. E le offrirono appena un cenno fiacco, quando la videro comparire sulla porta, mentre dall’altro lato, Nim era intenta a pettinarsi davanti al grande specchio ovale.

Il pavimento le si incollava umido sotto i piedi nudi, come se fosse stato lavato da poco, e l’aria era così colma di profumo, che si faceva fatica a respirare. Un mix infelice di quelle fragranze dolciastre che Beth detestava, e che si arrampicavano impietose su per le narici, tanto forti da far girare la testa. Una su tutte, quella più speziata di Nim, che tuttavia non riusciva a non trovare anche confortevole, in qualche modo.

Le si avvicinò, accostandosi ai lavandini, e l’altra la occhieggiò con rimprovero dal proprio riflesso. «Sei di nuovo l’ultima.» la apostrofò, mentre il lungo drappo nero dei capelli le scorreva fra le dita, e sotto ogni colpo della spazzola.

«Lo so.» borbottò Beth in fiacca risposta, cercando di distogliersi da quel movimento ipnotico, e dal principio di una conversazione che era decisamente troppo esausta per poter sostenere.

Sfilò la vestaglia e la lasciò appallottolata su un portasciugamani, con un gesto sciatto. Anche senza guardare, poteva immaginare le sopracciglia folte di Nim sollevarsi critiche dietro di sé; anzi, se possibile, era certa di poterne percepire quasi il rumore.

Quello che sentì davvero, però, fu un breve sbuffo rassegnato.

«Bene.», iniziò lei, «Sai già come la penso, e immagino che non vuoi sentirtelo ripetere. Spero solo che questa volta tu ti sia fatta pagare per bene da quell’idiota di Ed, per tutto questo tempo extra che gli dedichi. Ti ricordo, dato che tendi a dimenticartelo, che qui offri un servizio, non sei Madre Teresa

Ci fu una pausa scomoda, e per un momento si guardarono in tralice attraverso lo specchio; entrambe consapevoli che quella speranza era già stata disattesa.

Poi Nim sollevò alto un sopracciglio, nascondendo in parte la predica dietro una delle sue migliori espressioni beffarde. «A meno che tu non stia puntando alla santità. Perché, nel caso, hai decisamente scelto il lavoro sbagliato.» aggiunse, e le diede un piccolo colpetto affettuoso con la spalla, quel tanto che bastò perché si sbilanciassero entrambe, barcollando appena all’interno della cornice dello specchio. Cosa che strappò a Beth un vago mezzo sorriso.

«Solo un’altra fra le tante scelte sbagliate, allora.» disse.

Quella replica, tuttavia, suonò forse più sincera e amareggiata di quanto non volesse, perché l’altra scosse la testa, per poi stringerla in un tentativo sbilenco di abbraccio, con la spazzola ancora in mano.

«Ed ha di nuovo tirato fuori le sue stronzate da ubriaco, vero?» storse il naso sarcastica, senza aspettare una risposta a quella che per lei, evidentemente, doveva essere una domanda retorica, «Diventi sempre di cattivo umore quando succede.», le sfregò un paio di carezze sulla spalla, in un accenno maldestro di consolazione, poi sciolse quel contatto, con la medesima leggerezza con cui lo aveva iniziato, e tornò a occuparsi dei propri capelli.

Beth rimase ad osservarla, con il residuo di un brivido sulla pelle, mentre Nim tirava su una lunga coda d’inchiostro, aiutandosi con qualche forcina tenuta fra le labbra scure.

Che diamine.

Doveva essere per la stanchezza, o magari quel profumo troppo forte, o quel cavolo di mal di testa che aveva iniziato ad aumentare, ma per un attimo, Beth si chiese come sarebbe stato avvicinarsi a quelle labbra, e baciare qualcuno che le piaceva davvero, per una volta.

Solo per una volta.

Forse sarebbe stato strano, ma anche familiare; magari soddisfacente. E, di sicuro, sarebbe stato un disastro. Quel tipo di stronzata che rovina ogni cosa e da cui non si torna indietro. Che azzera il punteggio di una vita intera, lasciandosi dietro solo il rimpianto di aver ignorato il buonsenso.

Perché lei e Nirmala si conoscevano da tanto; da troppo. Perché erano state vicine di casa, compagne di scuola, poi amiche, sorelle, coinquiline, e persino colleghe, in quel lavoro fatto di compromessi. Perché erano state ogni cosa, eppure non erano mai state niente di più. E forse era così che doveva rimanere, in un equilibrio sottile che non andava disturbato.

Anche se c’erano ancora delle volte in cui questo a Beth pesava. Delle piccole, idiote parentesi come quella, in cui la frustrazione si faceva sentire risalendo dal fondo dello stomaco, nonostante la ragione la ricacciasse sempre di nuovo giù, dove i pensieri sconsiderati erano lasciati a sedimentare, abbandonati insieme ai sentimenti.

Eppure né il tempo, né l’abitudine, o la rassegnazione erano riusciti a cambiare quello che si trovava lì in fondo. E forse nulla ci sarebbe mai riuscito davvero.

«Comunque, ti informo che la doccia è di nuovo intasata.» riprese Nim, ora agganciando due vistosi orecchini di perline colorate ai lobi, «Perché “qualcuno” qui lascia sempre andare i propri riccioli d’oro nello scarico.», alzò appena un po’ la voce per farsi sentire dalle altre due, accennando con la testa verso la chioma bionda di Penny, la quale borbottò una protesta scocciata dall’altro angolo del bagno. Nim la ignorò, per buona misura, limitandosi a piegare appena il labbro con sdegno e continuando il suo discorso come se nulla fosse.

«Si è allagato tutto, di nuovo, e abbiamo passato più di mezz’ora ad asciugare. Per fortuna siamo riuscite ad arginare l’acqua prima che arrivasse al corridoio, e Mrs. Sandwich non se n’è accorta.», arricciò l’espressione in una curva furfante, la stessa che sfoderava sempre da bambina e che non era mai cambiata, nonostante gli anni.

Certe cose, del resto, non cambiano.

«Ma in compenso siamo ancora qua.», continuò, seccata, poi sbuffò. «Domani chiamerò il signor Miles per farla sistemare, ma per ora ti conviene evitare di-» e si bloccò, aggrottando la fronte, le mani ancora impegnate con un gancio di uno degli orecchini. «Tutto a posto?»

Beth si scosse, distogliendo lo sguardo altrove. «Si, io… niente doccia, capito.» balbettò.

Lo specchio le restituì il proprio riflesso mezzo nudo, stordito e decorato di occhiaie. Doveva essere sembrata molto stupida, e forse anche un po’ inquietante, mentre la fissava imbambolata a quel modo. Prese un asciugamano pulito dal mobile e lo appoggiò sul ripiano, cercando di dissimulare il disagio.

«Non importa. Vuol dire che la farò a casa.» disse, un po’ robotica, aprendo il rubinetto e affondando le mani nell’acqua gelida, «Però almeno un po’ mi rinfresco, per riacquisire un aspetto più umano.»

Nim incurvò le labbra, dubbiosa, e la squadrò, appoggiandosi all’altro lavandino. «Per quello ti servirebbe dormire, cara mia. Una pratica per te sconosciuta.», stava ancora mantenendo il tono scherzoso, ma la sua espressione era diventata d’un tratto severa. E esitò, masticando un pensiero tra i denti per qualche minuto, prima di parlare di nuovo.

«Beth… so che non vuoi mai starmi a sentire ma, sarò sincera, hai davvero una faccia terribile.»

«Già. Beh, sei sempre così incoraggiante.» brontolò, nel fallimentare tentativo di mantenere vivo un sarcasmo già morto.

«Sai cosa voglio dire.», adesso era del tutto seria, «Sono preoccupata. Si vede che sei esausta, e poi non ti accorgi di quanto sei distratta?»

«Ho solo un po’ di mal di testa.» protestò Beth, fiaccamente. Già sapeva dove voleva andare a parare quel tipo di discorso, e sapeva anche quanto fosse ragionevole. Per questo detestava doverlo affrontare, soprattutto nei momenti in cui era difficile riuscire negare l’evidenza. E questo Nim lo sapeva bene.

«Non parlo solo di ora, Beth. Sei sempre strana. E devo ricordarti che l’altro giorno hai quasi messo Fester in lavatrice?»

Beth sbuffò. «Non è colpa mia se si mette a poltrire nella cesta dei panni. E riesce anche a mimetizzarsi bene.»

Nim non replicò, sollevò invece un muto cipiglio d’accusa, fin troppo eloquente e sufficientemente irritante, che suonò più chiaro di qualunque frase potesse essere pronunciata ad alta voce.

«Comunque me ne sono accorta in tempo.» concluse Beth, aspra. Prese una manciata d’acqua e ci affondò il viso, sperando che bastasse per sfuggire un po’ a quello sguardo pungente che le premeva addosso, e a schiarire i pensieri.

Calò un breve silenzio teso, poi anche Nim sbuffò, e Beth sentì le perline dei suoi orecchini tintinnare di nuovo.

«Viene Matt a prendermi oggi. Torniamo a casa con lui.» la sentì dire, infine.

Matt. Il suo nuovo ragazzo. In tutta onestà, non riusciva a ricordare se fosse lui il rapper o se lo era quello di prima. O forse quello prima ancora, con le palpebre sempre a mezz’asta e i capelli rasati a forma di fulmine sulla nuca. In ogni caso, non aveva molta importanza, tanto al massimo fra due settimane il “Matt” attuale sarebbe stato di nuovo rimpiazzato. A Nim non piaceva fissarsi troppo con qualcuno, si stufava facilmente, e Beth ormai aveva perso il conto dei tizi ed ex clienti con cui si frequentava.

Afferrò di nuovo l’asciugamano, mentre annuiva un assenso poco convinto. Non era entusiasta di assistere alle loro effusioni dal sedile posteriore e di sorbirsi quindici minuti di probabile musica orribile. Ma accorciare la strada che la separava da casa e dal calore di una doccia vera, era comunque abbastanza allettante.

Penny e Violet, ora vestite, dovevano aver annusato la tensione che aleggiava nella stanza, perché accennarono un saluto sbrigativo e sgattaiolarono fuori dalla porta. Nim le salutò distrattamente, senza spostarsi, né smettendo di guardare lei di traverso; le braccia incrociate sul petto, e il fondoschiena foderato dai leggings premuto contro il bordo del lavandino. E Beth comprese che il rimprovero non era affatto terminato.

«Immagino di non essere più in tempo per fuggire come hanno fatto loro, giusto?», chiese ironica.

Nim prese un respiro più profondo, come per invocare il supporto della pazienza. «Beth, sul serio. Stai esagerando.», la ammonì, «Te l’ho già detto, non so nemmeno più quante volte: se qui fai così tardi, ti devi anche riposare. E invece spesso a malapena torni a casa. Che vuoi fare, andare fuori di testa? O magari ammazzarti prima del tempo?»

Beth abbassò lo sguardo, trovando d’improvviso interessante il pavimento, pur di non incrociare il biasimo nei suoi occhi. Non le piaceva vederla preoccuparsi, ma era tutto così strano nell’ultimo periodo.

Lei si sentiva strana.

Insofferente, come se un orologio invisibile martellasse nella sua testa di continuo, ripetendole di sbrigarsi, di dover fare qualcosa; malgrado non sapesse di preciso che cosa. Era solo certa che il tempo sprecato sarebbe andato perso per sempre e, spesso, aveva come la sensazione che scivolasse via fin troppo in fretta, senza che riuscisse a farci niente di buono.

Stupido a pensarci adesso, in realtà. Un’ossessione banale, eppure sempre presente, costante e dolorosa, che pungeva ad ogni scatto di lancetta.

Forse aveva solo bisogno di fare qualcosa di diverso; di uscire dalla routine che le si era costruita intorno, suo malgrado. O semplicemente, non aveva più tanta voglia di stare a casa quando c’era il “Matt” di turno a scodinzolare in giro, facendo anche finta che le andasse bene. O stava cadendo lentamente in qualche contorto baratro di esaurimento nervoso.

Doveva essere così che si sentivano i topi agitati; quelli che continuavano a sbattere contro le pareti del labirinto, senza riflettere, in cerca di un’uscita che con tutta probabilità neanche c’era. E magari stava diventando proprio uno di loro.  Ma adesso era troppo stanca anche per pensarci.

Strinse appena le palpebre, all’infierire di una nuova fitta alla tempia, e non confessò niente di tutte quelle cose, preferendo una ben più semplice e comoda minimizzazione.

«È vero, hai ragione.», disse, «Ho del sonno arretrato. Troppo, forse. Ma non c’è bisogno che ti preoccupi. Sto bene.», calcò con particolare attenzione quella bugia. Una di quelle ripetute così spesso, che ormai iniziava persino a crederci. «Devo solo resistere un altro mesetto, fino agli esami. Tutto qui.» e alzò le spalle.

«Come no.», sbottò Nim, «Così poi alla fine mi toccherà raccoglierti con un cucchiaino.»

Ci fu l’ennesima pausa, pesante di parole non dette e ansie trattenute. E Beth fu certa di sentire un sottile fondo di rabbia scricchiolare sotto i loro piedi. Poi Nim parlò di nuovo, sforzandosi di mostrarsi più calma.

«Ascolta… io sono davvero molto contenta che tu abbia ripreso a studiare, e tutto il resto, Beth, credimi. Ma non puoi continuare in questo modo.» si staccò dal lavandino, avvicinandosi, e le riportò dietro l’orecchio un ciuffo sfuggito, «Guardati. Possibile che fai la crocerossina con tutti, e poi non riesci ad avere un po’ di pietà per te stessa?»

Beth si scansò, contrariata; l’asciugamano umido ancora stretto in mano. «Io non faccio la “crocerossina”

«No? E allora dimmi cos’è che fai», e iniziò a contare alzando le dita, «con Ed, che viene sempre a piagnucolare coccole come un gatto randagio; o Joseph, quello triste perché ha divorziato sei mesi fa, o quell’altro, il damerino, che era stato appena licenziato. O anche il ragazzo nuovo del ristorante italiano, in fondo alla strada, quello che ti ha chiesto di fargli superare la “timidezza”. Com’è che si chiamava?»

«Fred.» mormorò Beth, a mezza bocca.

«Già, Fred. E questo senza contare quel tizio cupo con cui te ne stai sempre al Caffè.» concluse, incrociando di nuovo le braccia.

«Che c’entra, lui era… sempre solo.», protestò Beth, presa alla sprovvista da quella chiamata in causa, «Gli faccio compagnia quando capita, e andiamo d’accordo. E poi mi aiuta a studiare.»

Nim strinse le labbra in una perfetta manifestazione di compatimento. «Certo, ti aiuta a fare i compiti, prendete caffè e biscotti, fate le passeggiate al parco… magari ti insegna anche ad andare in bici senza rotelle.» e alzò gli occhi, esasperata, «Beth, lui non è tuo padre, okay? So che lo vorresti, ma se ti dà retta è solo perché probabilmente gli fa comodo.»

Beth non rispose. Si morse il labbro, cercando di mandare giù il peso di quelle parole, ma la gola si era stretta di mortificazione.

Si guardarono. Nirmala non era certo il tipo che si faceva problemi a dire le cose come stavano; dava sempre libero sfogo ai suoi pensieri, anche quando non risultava piacevole. Tuttavia, raramente questo superava il confine invisibile della cattiveria. E, forse, questa volta si rese conto di aver esagerato, di aver superato quel limite, perché emise un sospiro pesante e le sfiorò il braccio, in cerca di un contatto riparatore.

«Beth, quello che sto cercando di dire è che ti lasci sempre coinvolgere troppo. Le altre persone non sono una tua responsabilità, e i clienti devono rimanere clienti. Ti devono pagare e poi devono andarsene, quando finisce il tempo prestabilito. Magari alcuni ti fanno credere di aver bisogno di te, che puoi essere d’aiuto e tutte queste stronzate, ma non è vero. Finisci solo per sprecare un sacco di energie e farti sfruttare.»

«Quindi, perché vada bene dovrei portarmeli a casa come fai tu?», replicò Beth, scansandosi di nuovo dal tocco della sua mano, gli occhi ormai stretti in due fessure, «Illuderli e sfruttare io loro, finché non mi annoio?»

L’aveva fatto; aveva risposto a una cattiveria con un’altra cattiveria. E se ne pentì appena un momento dopo, quando vide Nim fare un passo indietro, tornando ad appoggiarsi al bordo del lavandino.

Si fronteggiarono in silenzio per dei secondi che parvero dilatarsi, ma lo spazio fra loro non sembrava acceso di risentimento, quanto più di un certo dispiacere.

«Sei veramente una stronza.» disse infine Nim, accompagnando quelle parole con un minuscolo sorriso rassegnato, e forse anche un po’ deluso. Poi corrugò il mento, sotto la piega del labbro. «E io che mi preoccupo pure per te.»

«Lo so.», anche Beth tirò un accenno di sorriso, grata di quel vago ritorno all’ironia. Anche se sapeva che era solo una toppa per arginare la falla in corso; una delle tante, nell’ultimo periodo. «Mi dispiace.» aggiunse poi.

«Anche a me.» convenne Nim, e si passò i palmi sulle cosce, sospirando. Lo sguardo perso per qualche istante in un punto indefinito davanti a sé.

«Bene.», disse poi, «Ora che sappiamo di essere entrambe sull’orlo di una crisi, facciamo così: domani ce ne stiamo a casa. Ci svegliamo tardi, poi ordiniamo una pizza e ci guardiamo un film. Che ne dici?»

A Beth sfuggì un verso amaro. Certo. Loro due, Fester e Matt. Tutti insieme sul divano, magari, come nella più squallida delle sitcom. Davvero un ottimo piano.

«Ci penso, va bene? È che domani ho le prime esercitazioni per i test…» non era la verità, ma questa volta non si sentiva proprio in vena di fare il terzo incomodo. Si allontanò, andando a recuperare i jeans e la maglietta appesi all’attaccapanni, evitando di guardarla. E, alle sue spalle, gli orecchini di perline tintinnarono di nuovo.

«Okay, fa come ti pare. Ci rinuncio. Mi dichiaro ufficialmente sconfitta dalla tua testa dura.»

Beth la vide infilare la giacca e prendere la sua borsa dal pavimento. «Vestiti, dai. Ti aspetto di sotto.» disse piatta, avvicinandosi all’uscita; poi appoggiò la mano sul pomello, ma non lo girò. Invece si voltò di nuovo, con l’apprensione ancora stampata sul volto, «Ti prego, cerca solo di… prenderti più cura di te, okay?» e uscì, richiudendosi la porta alle spalle.

 

***

 

Quando Beth arrivò in fondo alle scale, Mrs. Sandwich si era svegliata e bofonchiava una lamentela sulle correnti d’aria, mentre raggiungeva la porta d’ingresso rimasta aperta. Si rese conto di lei solo quando furono entrambe vicino alla soglia.

«Oh, mancavi ancora tu, cara.» esclamò, con l’espressione assonnata, i boccoli un po’ ammaccati e uno sbaffo di trucco sullo zigomo; le dita paffute e smaltate già agganciate alla maniglia.  

«A domani, Mrs. Sandwich.» si congedò in fretta Beth, infilandosi nello spiraglio della porta, e lasciando la donna ad accennare un saluto sbadigliato e qualche raccomandazione confusa, prima che la richiudesse.

Fuori era ancora quasi del tutto buio e tremendamente umido, come solo Londra alle cinque del mattino sapeva essere; qualche velo stracciato di nebbia a offuscare qua e là gli angoli fra i palazzi e sfumare i contorni delle luci dei lampioni. Dall’altro lato della strada, sotto la vetrata della libreria, Nim sedeva sul cofano di una Mini blu metallico, con una non proprio sobria Union Jack stampata sul tettuccio.

Aveva una sigaretta accesa in una mano e l’altra affondata nella felpa di quello che doveva essere Matt. Un tipo alto, in tuta sportiva e ricci scuri, che sporgevano dal bordo del cappuccio. Sembrava belloccio, benché da quella angolazione e con la poca luce, non si riuscissero a distinguere al meglio i lineamenti. Le loro teste erano vicine e Nim aveva un sorrisetto malizioso tirato sulla guancia; poi aspirò una boccata dalla sigaretta e si sporse di più, soffiando un filo di fumo sulle labbra di lui, sfiorandole con le sue.

Beth spostò lo sguardo altrove. Si strinse nel tepore del maglione e deglutì malcontento, muovendosi a passi svelti verso di loro, con la testa ancora appesantita. E non aveva percorso neanche metà della distanza, quando si fermò. L’attenzione catturata da qualcosa, l’ombra di una sagoma, e poi come un lampeggiare di fari, nel bordo della sua visuale. Ma la piccola via era deserta e non c’era nessun’altra auto, a parte la Mini parcheggiata poco più avanti.

Rimase ferma nel mezzo della strada, mentre un malessere improvviso le aggrediva lo stomaco; una sensazione sgradevole, come di déjà-vu e di… paura.

Un brivido, che scivolava gelido lungo la schiena, e un sapore strano, ferroso, che si faceva strada sulla lingua. E la testa pulsava, al ritmo di un battito divenuto agitato. Prese un respiro più profondo, che tuttavia non le bastò per convincersi a percorrere quel paio di metri che le mancavano, maledicendo la stanchezza, o qualunque altra cavolo di cosa le stesse succedendo.

Appena Nim la notò, scansò il ragazzo con un altro piccolo sorriso e scivolò giù dal cofano, atterrando morbida sulle scarpe da ginnastica. Prese un’ultima boccata dalla sigaretta, prima di gettarne a terra il mozzicone, e aprì la portiera, senza però salire all’interno.

«Che fai, non vieni?» disse.

Beth non si mosse. I piedi incollati all’asfalto come se ci stessero sprofondando dentro, mentre nel petto il panico scemava, lasciando spazio a uno strano intorpidimento. Una malinconia viscosa e sonnolenta, che strisciava fra gli anfratti umidi di nebbia della strada, e si arrampicava addosso, restando appiccicata.

Un pizzicore le risalì su per la radice del naso, e la luce del lampione si fece d’un tratto più sfocata, quando si rese conto che c’erano delle lacrime che scendevano lungo la sua guancia. Le trascinò via e osservò il bagnato rimastole sulle dita rimandare piccoli riflessi nella penombra, senza capire.

Si sentì chiamare di nuovo, ma la voce di Nim le arrivò ovattata, lontana come un eco. Quando le rivolse di nuovo lo sguardo, la vide che aspettava, poco più in là; una mano appoggiata al bordo del tettuccio e un’espressione interrogativa sul viso che iniziava a tradire una piega spazientita. E, per qualche motivo, l’idea di dover salire su quell’auto le sembrò d’improvviso più sgradevole di prima.

L’altra, stufa di quell’attesa, richiuse malamente lo sportello e si avvicinò con una manciata di passi concitati. «Mi dici qual è il problema?» sbuffò, con gli orecchini e la coda che oscillavano, agitati dal movimento.

Beth, di nuovo, non rispose; l’attenzione che frugava ancora nelle ombre, sostando negli spazi di un respiro irregolare. La verità era che non lo sapeva. C’era qualcosa, qualcosa di sbagliato, o almeno c’era stato; ma più ci rifletteva e meno le sembrava che avesse senso. Forse una specie di strano attacco di panico, un’allucinazione, o magari era così stanca da iniziare ad avere gli incubi ad occhi aperti. Frugò nel proprio smarrimento, alla ricerca di una risposta da dare, e una rinnovata fitta alla tempia le fece sfuggire una smorfia.

«Beth, sicura di stare bene?»

«Si, io… è solo…», farfugliò, tirando appena su col naso e spostando lo sguardo intorno, nel tentativo di non far notare gli occhi umidi. Deglutì. «Credo di avere bisogno di prendere un po’ d’aria.», riuscì infine a dire, «Voi… voi intanto andate a casa.»

Nim la guardò incredula, un sentiero di confusione tracciato sulla fronte, fra le linee nere delle sopracciglia. «Stai scherzando? È quasi l’alba e c’è un’umidità da fare schifo.», aspettò per qualche momento una spiegazione che non arrivò, poi tirò un sospiro corto ed esasperato.

«Ascolta, se è per prima…» iniziò, ma non fece in tempo a terminare la frase, perché, dietro di lei, la testa ricciuta di Matt sbucò dal finestrino della Mini, grugnendo un’imprecazione e sbattendo il palmo contro la carrozzeria metallizzata. «Quindi, vi spicciate? Non sono mica un dannato tassista.»

Nim si voltò prima verso di lui, poi tornò a guardarla, a disagio, tenendo il resto di ciò che voleva dire sospeso nella linea silenziosa delle labbra. Beth provò a tirare sul viso un’espressione neutra, che non tradisse l’urgenza che aveva di allontanarsi, né la rinnovata amarezza che le stava stringendo la gola. Anche se forse, in fondo, una parte di lei avrebbe voluto poterle parlare di quello strano malessere, e degli incubi che faceva, delle angosce, delle ombre nella coda dell’occhio; di tutte le cose strane che le stavano succedendo nell’ultimo periodo, e anche di tutte quelle che non era mai riuscita a dirle. Ma non era il momento giusto.

«Vai, non farlo aspettare.» disse solo, accennando con la testa verso l’auto e il suo proprietario.

Nim non sembrò troppo convinta, ma doveva essere impaziente di tornarsene a casa, e forse anche sufficientemente stufa, da non riuscire ad opporsi con più energia, o da chiedere ulteriori spiegazioni. Si guardò intorno, come per ponderare, poi si limitò a chiedere un «Sei sicura?», preceduto da un impercettibile sbuffo dal naso.

Beth annuì. «Ci vediamo a casa.»

Le offrì un ultimo sguardo che voleva essere di saluto, allontanandosi su gambe rigide, e aveva già svoltato l’angolo che immetteva in Whickber Street, quando sentì la portiera dell’auto chiudersi e il brontolio dell’accensione del motore. Superò il Dirty Donkey Pub senza vederlo, la testa ancora un po’ annebbiata e le mani strette alla cinghia della tracolla. Si infilò nel vicolo appena dietro, accasciandosi con la schiena contro il muro, a palpebre chiuse.

Inspirò ed espirò, cercando di placare i residui sgradevoli di malessere, che continuavano ad agitarglisi nel fondo dello stomaco. E le ritornò in mente quello che le aveva detto Nim.

Che vuoi fare, andare fuori di testa?

Forse, era già troppo tardi per evitarlo, considerando come stavano andando le cose. Che diamine pensava di fare, comunque? Non sapeva nemmeno se tutta quella fatica sarebbe davvero servita a qualcosa. E, con tutta probabilità, quei cavolo di esami non li avrebbe neanche passati. Sarebbe rimasta incastrata a seguire sempre la stessa routine per chissà quanto tempo ancora. Ferma, nella sua angusta casella, fino a che qualcun altro non avesse tirato il dado per lei; troppo incapace o inadeguata per poter avanzare da sola.

E, senza che potesse farci niente, pianse, sul confine di quella nottata interminabile. Ma questa volta erano lacrime volontarie, che sapevano di frustrazione; e quasi trovò pateticamente ironico il momento, rendendosi conto di essere circondata da bidoni della raccolta differenziata.

«Diavolo, e io che pensavo di aver avuto una brutta giornata.» strascicò all’improvviso una voce familiare, incastrandosi fra i suoi pensieri.

Più in là, nella penombra del vicolo, un’inconfondibile figura sottile se ne stava sbracata su un gradino, nell’andito di un portone; nero su nero. Le lenti rotonde degli occhiali che riflettevano la poca luce presente, proprio come il vetro della bottiglia mezza vuota che teneva fra le dita.

Dopotutto, i bidoni della spazzatura non erano gli unici ad aver assistito a quel crollo di nervi.

Beth tirò su col naso, trascinando via le lacrime dalle guance con il bordo della manica, nel goffo tentativo di ricomporsi. «Mr. Crowley?» domandò, con la voce un po’ arrochita, malgrado lo avesse già riconosciuto. «Oggi non è venuto al Caffè. Credevo fosse rimasto a casa.»

Lui emise una risatina soffocata. «A casaqui… dall’altra parte del mondo… in fondo che differenza fa?», schioccò la lingua sul palato, «Tanto se il fottuto cielo decide di cadere, lo fa ovunque nello stessso momento, no

Beth notò che sibilava molto più del solito, e convenne a quella frase, annuendo appena fra i residui delle lacrime. Trovava assurdo come quella nottata perseverasse nel farla interagire con degli ubriachi. E il tutto cominciava ad assomigliare quasi a una commedia; una di quelle davvero squallide, che più che far ridere fanno pena.

«Tu piuttosto…» riprese Mr. Crowley, indicandola con il collo della bottiglia, ma perse il resto della frase per strada, prima di riuscire a pronunciarla. Ponderò per un po’, prese un sorso svogliato e si sollevò dal cantuccio d’ombra in cui era rintanato, rimettendosi in piedi, anche se non senza una certa difficoltà. Poi si avvicinò, sbandando sulle gambe, fino a che non  trovò un soddisfacente appoggio sul coperchio di un bidone grigio, da cui sporgeva l’angolo gonfio di un sacco di plastica.

«Comunque…», riprese, «c'ero prima io qui a comphcompg… insomma, a lagnarmi.» incurvò le labbra, fra le rughe sarcastiche di una smorfia che sapeva fin troppo di alcol, e di sufficiente amarezza. La puntò di nuovo, roteando in aria l’indice che sporgeva oltre la bottiglia; le sopracciglia appuntite tanto sollevate sopra il bordo delle lenti che sembravano tenute su da due mollette. «E ho una certa precedenza di anzianità su di te, ragazzina, perciò…» e si fermò un istante, in cerca delle parole giuste da mettere in fila, «perciò… vedi di sssmettere, okay? Non… non mi è mai piaciuto vedere i bambini che piangono.»

Beth si accigliò. «Bambini?», si guardò stupidamente intorno per qualche secondo, un po’ spaesata, prima di riuscire a realizzare, «Ma io ho più di vent’anni.»

«Fa lo stesso. Vent’anni… non sono niente.» sbuffò lui, imbronciandosi.

«Non mi sembra che lei sia poi così tanto più vecchio, Mr. Crowley.» protestò, ma in realtà quell’improbabile siparietto generazionale la stava divertendo.

«Ti stupiresti.» rispose. Poi, apparentemente dal nulla e con un piccolo gesto fluido, tirò fuori un lembo di stoffa scuro e lucido, «Tieni.» disse, porgendoglielo.

Beth si ritrovò, con una certa sorpresa, davanti a quello che a tutti gli effetti sembrava un fazzoletto di seta. E, quando lo prese, in un angolo sentì persino sotto le dita il rilievo di un ricamo contorto. «Mi rimangio quello che ho detto. Questo è decisamente qualcosa di antiquato.»

«Può darsi.», convenne, «Ma quelli di carta sono… schifezze da girone infernale.» biascicò lui, scansando quelle parole con un gesto e fissando con disgusto un punto indefinito del terreno. Si infilò una mano fra i capelli, tirando indietro ciuffi rossi sfuggiti da una piega ormai scompigliata, e prese un altro sorso di alcol. Poi le rivolse di nuovo i cerchi scuri delle lenti, le labbra piegate come se avesse appena ricordato qualcosa.

«Lo… lo sapevi che non la vendono più questa roba al giorno d’oggi?» disse, sollevando appena la bottiglia per mostrargliela.

Beth lo guardò perplessa, smettendo di soffiarsi il naso. «Non vendono più l’alcol?»

«Si… cioè, no.», farfugliò, «Quello… quello certo che lo vendono. Ma che domande fai?» esibì una smorfia contrariata, poi scosse la testa, riacciuffando il discorso, «Quello che volevo dire è… che è assurdo come cambiano i tempi. Fino a qualche decennio fa lo potevi trovare ovunque. Ovunque davvero, come… come se niente fosse.», sbuffò, «Persino… persino ai bambini lo davano a volte. Anche se ho sempre pensato che quello fosse un po’ eccessivo, in effetti.» bofonchiò, tirando verso l’alto le spalle come le sopracciglia, e bevve di nuovo.

Beth non era più troppo sicura di riuscire a seguire quella conversazione. Ma, a questo punto, le venne il sospetto di non trovarsi davanti a una semplice sbronza. «Cosa ha preso, Mr. Crowley?» chiese, trascinando via anche le ultime tracce di pianto con il fazzoletto.

Lui continuò a borbottare lamentele, come una caffettiera lasciata per troppo sul fuoco, senza sembrare di aver udito la domanda. «Siete veramente inm… mpossibili a volte. Si fa fatica a ssstarvi dietro.», storse il naso e fissò la bottiglia, con cipiglio dubbioso, «Ho dovuto arrangiarmi da solo, ma credo di aver sbagliato qualcosa. Lo ricordavo un po’… diverso l’ultima volta.»

Beth sbirciò l’etichetta verdognola, ora illuminata un po’ meglio dalla poca luce. Ma riuscì a leggere solo parte della scritta più grande, “Landam-” o “Laudom-”, che spiccava, in un corsivo svolazzante e abbastanza incomprensibile, nello spazio fra la presa delle dita sottili di lui. Il liquido rimasto all’interno era ambrato e limpido. Sembrava una di quelle marche eccentriche di scotch whisky da collezione, da trecento o più sterline a bottiglia, che di solito si vedevano in mostra sulle mensole dietro i banconi dei pub. Niente di troppo insolito.

«Comunque…», riprese Mr. Crowley, afflosciandosi ancora di più contro il bidone, «Non… non mi hai ancora detto perché, insomma… te ne stavi qui

Beth scorse la cinghia della tracolla fra le dita, ripensando al groviglio confuso che ancora adesso abitava la sua testa: alle discussioni, alla stanchezza, alla frustrazione e a quella specie di panico di prima, o qualunque cosa fosse.

«In realtà non lo so. È complicato.», mormorò, afflitta, non sapendo dire niente di meglio, «E lei, perché se ne stava qui?»

«È… complicato.» esalò lui, con l’ennesima smorfia ubriaca, velata di sconforto. E Beth si sentì dispiaciuta per aver chiesto, mentre oltre il vicolo, negli spazi fra i palazzi, il chiarore dell’alba iniziava ad imporsi più seriamente nel cielo.

«Credo sia arrivato il momento di tornare a casa, Mr. Crowley.» disse, scansandosi dalla parete e infilandosi il fazzoletto umido in tasca, «Dov’è che abita? La accompagno.»

Lui rise, rauco, come se avesse appena sentito un’ottima battuta. «Tu che vuoi accompagnare me? Quesssta sì che è bella.»

Ridacchiando, barcollò pericolosamente oltre i bidoni e poi fuori dal vicolo, verso Whickber Street, con una camminata molto più precaria del suo solito. E Beth si affrettò a seguirlo, un po’ indispettita, ma comunque temendo di vederlo rovinare al suolo da un momento all’altro.

«Non mi sembra di essere io quella che non si regge in piedi.»

«Naaah. Sto benisssimo.», sibilò lui, «Un po’ troppo, in effetti… questa roba deve essere proprio fasulla.» occhieggiò ancora la bottiglia con delusione, poi la lanciò noncurante dietro di sé, centrando con stupefacente precisione l’apertura di uno dei bidoni, e il rumore del vetro in frantumi ruppe per un instante la calma umidiccia della strada.

Beth si fermò, incredula, mentre Mr. Crowley continuava ad avanzare sbilenco verso il Caffè, accanto al quale, come al solito, era parcheggiata la sagoma nera della sua Bentley.

Oh, no no no.

Lo raggiunse quasi correndo, affiancandosi al suo andamento irregolare. «Non avrà mica intenzione di guidare?»

Lui arricciò una smorfia interrogativa, senza smettere di andare avanti. «Certo che oggi fai davvero un sacco di domande stupide.» disse, risistemando gli occhiali sulla curva del naso, «Guido da… beh, quasi un sssecolo, per Satana! Non vedo perché non dovrei ora.»

«Forse perché è sbronzo?» precisò Beth.

Mr. Crowley sogghignò di nuovo, mostrando un beffardo canino appuntito. «Se è per quesssto, non credo di aver mai neanche preso la patente

Beth non trovò divertente la battuta. Ormai erano arrivati alla Bentley e, senza nemmeno rifletterci, si frappose fra lui e la portiera. «Non la farò salire su quest’auto.», gli rivolse uno sguardo duro, incollando la schiena al vetro freddo del finestrino, «Perciò, a meno che non voglia rimanere qui finché Nina non riaprirà il Caffè, le consiglio di pensare ad un’alternativa.»

Si fece barriera invalicabile, irremovibile come un muro, mentre nella sua testa riaffiorava l’immagine di un’altra figura scarmigliata, ma più robusta, con la barba incolta e gli occhi gonfi, che si infilava scomposta in una vecchia Ford Fiesta bianca, con uno specchietto storto e il paraurti rattoppato da troppi giri di nastro. Poi, l’attesa di una serata estiva, interminabile e solitaria, e gli alti pantaloni scuri di un agente, sulla soglia della porta, che le chiedeva con voce mortificata se in casa ci fosse la mamma, o qualcun altro con cui parlare, mentre lei piano faceva cenno di “no” con la testa.

Non avrebbe più permesso che una cosa del genere accadesse di nuovo a qualcuno che conosceva. Non se poteva fare qualcosa per impedirlo. E nell’agitazione di quel momento, delle frasi le ronzarono pungenti nelle orecchie.

Ti coinvolgi troppo.

Lui non è tuo padre.

Mr. Crowley, intanto, la guardava interdetto da dietro le lenti; le sopracciglia che sbucavano da sopra gli occhiali e la bocca stretta in una fessura sghemba, come se fosse indeciso se essere infastidito o divertito dal ricevere quel tipo di insistente premura.

«Senti, ragazzina, non serve tutta questa… app…prensione, okay? Non con uno come me, almeno.», schioccò la lingua sul palato e si sporse, allungandosi con disinvoltura verso lo sportello.

Beth bloccò la maniglia con la mano, che ora tremava di rabbia. «Mi ha detto una cosa simile anche lui. Mio padre. Prima di uscire e di non tornare più, se non dentro una cazzo di bara.» sbottò, la voce più acuta di quanto non volesse, mentre teneva ben salda la maniglia metallica nella presa, «Quindi non mi venga a dire su cosa dovrei o non dovrei essere apprensiva.»

Lui si zittì, ciondolando appena sul posto. Sembrò rimuginare per qualche istante, serio, con le rughe che si erano fatte più evidenti sulla fronte e intorno alle guance scavate; poi piegò da un lato la testa e infilò le mani nelle tasche fin troppo strette dei pantaloni.

«Bene,», mormorò, rivolgendosi in alto, verso il cielo che lentamente stava virando alle sfumature più chiare dell’indaco, «in fondo, era da un po’ che non facevo una passeggiata all’alba.»

 

***

 

Non senza brontolare, alla fine Mr. Crowley aveva accettato che lei lo accompagnasse. Beth aveva il sospetto che avesse ceduto solo per farla stare più tranquilla, ma di certo non sarebbe riuscita a farglielo ammettere ad alta voce. Non aveva mai conosciuto nessuno così gentile e al contempo così tanto restio a riconoscere di esserlo.

Durante il tragitto, all’inizio erano rimasti in silenzio. Lei lo osservava, camminando un paio di passi indietro e assicurandosi che la sua andatura oscillante non lo portasse troppo fuori dai binari del marciapiede. Sembrava più curvo adesso, e forse anche più vecchio, come se il peso di pensieri silenziosi gli gravasse sulle spalle. Di tanto in tanto, guardava in alto, dove la luce iniziava a tingere le cime delle facciate dei palazzi di un leggero rosa, poi piegava il labbro in una smorfia sdegnata e si distoglieva, facendo grattare un sospiro ruvido sul palato.

I lampioni si erano già spenti, e il camion bianco con la striscia blu per la raccolta dei rifiuti passò lento e pigro di fronte a loro, quando uscirono dalle vie di Soho per infilarsi nella ben più larga Regent Street. Le strade iniziavano ad animarsi di qualche sporadica automobile e dei primi rumori, eppure c’era una curiosa immobilità; quella che caratterizzava sempre il momento che precedeva il sorgere del sole, come se il tempo trattenesse il respiro, nell’attesa di poter cominciare una nuova giornata.

Avevano da poco superato le vetrine spente di Hamleys, quando Mr. Crowley parlò di nuovo.

«L’ultima volta che ho camminato qui all’alba, era stata appena evitata quella fottuta fine del mondo.» biascicò, più fra sé che non a lei, e scosse la testa, facendo ondeggiare un ciuffo rosso acceso, «Pensssavo… ho pensato che poi le cose sarebbero andate meglio.», lo vide infilare una mano nella tasca della giacca e soffiare un altro sibilo fra i denti stretti, «Che idiota…»

Beth non sapeva a cosa si stesse riferendo, anche se, di certo, non doveva essere nulla di positivo. Avrebbe voluto sapere di più su quello che lo amareggiava tanto, che lo portava a bere fino a ridursi a quel modo, ad essere sempre così aspro e avvilito, o a rimanere sospeso nella sua attesa silenziosa, seduto ogni giorno al solito tavolino nel Caffè. Immobile, come se per lui il sole fosse bloccato da troppo tempo al di sotto dell’orizzonte, senza sorgere mai. E si chiese se fosse veramente sempre stato così apatico, o se magari in passato avesse anche lui fatto parte dei topi agitati. Tuttavia tenne per sé le domande e non chiese nulla, limitandosi a continuare a mettere un piede dopo l’altro lungo il marciapiede.

«Devi essere parecchio incazzata con lui.», lo sentì riprendere dopo un po’, «Con tuo… padre

Beth si morse il labbro. «In realtà lo sono di più con mia madre. Se lui beveva era perché lei se n’era andata via, lasciandoci da soli.»

Di solito non amava parlare dell’incidente, e forse prima aveva esagerato dicendo quelle cose, ma si era fatta coinvolgere troppo, come sempre. Proprio come le aveva detto Nim. E ora non sapeva nemmeno perché stesse continuando il discorso, anche se, in qualche modo, era sicura che Mr. Crowley potesse capire. Che sapesse cosa voleva dire l’essere abbandonati.

Lo guardò rivolgere i cerchi scuri delle lenti ancora verso l’alto, più a lungo di quanto non avesse fatto le altre volte. Le mani nelle tasche e un’espressione distante che non gli aveva mai visto. «Le madri sanno essere crudeli a volte.» sussurrò, rauco.

Beth alzò le spalle, la cinghia della tracolla stretta contro il petto. «Comunque, meglio così che dover stare con qualcuno che non ti vuole con sé.»

Lui non rispose. Soffocò un verso amaro e continuò ad andare in avanti, strascicando un po’ i piedi. Più sottile e tirato di prima, contratto nei contorni scuri dei suoi abiti. E non parlarono più, finché non arrivarono a destinazione.

Mr. Crowley abitava in una di quelle vie residenziali chic di Mayfair, con i lampioni di design e auto costose posteggiate accanto ai marciapiedi. Il palazzo era un grosso parallelepipedo a vetrate riflettenti, con il portone enorme, piante decorative verdissime in vasi di cemento disposte lungo il perimetro, e tutta l’aria di avere dei costi condominiali decisamente proibitivi. Un contesto che Beth trovò coerente, per quanto un po’ troppo freddo e geometrico per i suoi gusti.

Quando arrivarono, la città aveva già iniziato a rumoreggiare ad un ritmo più deciso, anche se ancora un po’ intorpidito rispetto al  pieno regime della mattina, e il sole stava ormai per sorgere.

Mr. Crowley lasciò andare un piccolo verso stanco. «Sano e salvo.» gracchiò, indicandosi il petto e ritirando fuori il tono caustico di sempre, «Contenta? Ora va a casa.», portò indietro i capelli, come per cercare di schiarirsi i pensieri, poi schioccò le dita e indicò un punto oltre la via da cui erano venuti, «Là, oltre l’isolato… c’è una fermata dell’autobus. Ne troverai uno che fa al caso tuo.»

Beth annuì, sentendo la stanchezza risalire tutta insieme, come se si fosse d’improvviso allentata la tensione che l’aveva tenuta in piedi come un burattino fino a quel momento. Lo guardò. «Si prenda cura di lei, okay?» gli disse solo, offrendogli un piccolo sorriso. Rendendosi conto dopo di aver ricevuto la stessa raccomandazione, giusto poco prima di incontrarlo.

«Già.» borbottò lui, asciutto, «Anche tu, ragazzina.», poi accennò un saluto, alzando svogliatamente una mano, e ciondolò fino al portone a vetri, che si spalancò in automatico al suo passaggio e nello stesso modo si richiuse, placido, alle sue spalle.

Beth lo osservò sparire su per le scale, poi tornò indietro sulla via, andando verso il punto che le era stato indicato. Frugò nella tasca del largo maglione e tirò fuori lo smartphone, di cui aveva praticamente dimenticato l’esistenza; sul display campeggiavano neri i numeri dell’orologio, che segnavano con un certo rimprovero le 6:09, e le notifiche colorate di fin troppi messaggi e chiamate perse, occultate dal silenzioso.

 

Beth, noi siamo arrivati. 5:23

Ho dato io da mangiare a Fester. 5:25

Perciò quando torni non lasciarti impietosire come al solito dal miagolio tragico, il veterinario ha detto che è già troppo sovrappeso. 5:25

Beth? 5:31

Ti prego torna, okay? Non farmi preoccupare. 5:37

Chiamata persa 5:56

Beth, che cazzo! 5:57

Guarda che ti faccio cercare dalla polizia. 5:58

Chiamata persa 6:01

Chiamata persa 6:02

Li sto chiamando. 6:07

Quando torni giuro che ti faccio fuori. 6:08

 

Beth sospirò, affrettandosi a digitare delle scuse, seguite da un “sto tornando”, che sperava riuscisse almeno ad arginare il disturbo inutile di una pattuglia assonnata. Poi il suo piede calpestò qualcosa. Un piccolo foglio accartocciato, sul quale si intravedevano parti di un’immagine. Lo raccolse, distendendo le pieghe con le dita. Era una foto.

Una foto vecchia, tipo Polaroid, in bianco e nero e un po’ ingiallita sui bordi, nella quale spiccava inconfondibile Mr. Crowley, con i suoi occhiali rotondi, completo scuro e fra le mani la canna di un fucile; e al suo fianco un altro uomo, più paffuto, con cilindro, panciotto e guanti da prestigiatore.

Mr. Fell, pensò Beth.

Si voltò di nuovo verso il palazzo a vetri, la cui fredda spigolosità ora era scaldata dal riflesso arancione dell’aurora.  E notò che un’altra Bentley d’epoca, nera e lucida, era parcheggiata proprio di fianco al marciapiede.

Anche se avrebbe potuto giurare che prima non c’era.

 

***

_______________________________

 

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Salve, salve.

La storia in qualche modo è rediviva. Sono lenta e indecisa, perciò abbiate pazienza.

Questo capitolo doveva essere molto più corto, e il suo ruolo era quello di dare un giusto approfondimento a Beth, ma in corso d’opera i personaggi nuovi hanno preso le redini e le cose si sono dilatate; forse un po’ troppo, non so. Spero che non risulti fastidioso a chi preferisce la presenza preponderante dei personaggi canonici, in ogni caso dal prossimo si torna ad un tranquillo (forse) pov  di Aziraphale, anche se non so quanto tempo mi ci vorrà.

Ringrazio il mio amico M. che mi ha aiutato nella revisione (dato che altrimenti da sola sarei impazzita), e ringrazio anche chi ha avuto voglia di arrivare a leggere fino a qua. Qualunque feedback è come sempre benvenuto a chiunque abbia voglia di lasciarlo. E nulla, alla prossima.

 

   
 
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