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Autore: Adeia Di Elferas    15/03/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Guidobaldo Maria da Montefeltro cominciava a essere abbastanza preoccupato per quanto si diceva dello scellerato accordo stretto tra molti condottieri di ventura e Venezia. Non solo i Naldi,Giulio Vitelli, ma anche Giampaolo Manfrone, tutti quanti stavano marciando verso Faenza per cominciare da lì una conquista sistematica della Romagna.

All'urbinate sarebbe interessato solo relativamente, ma, oltre ad aver dato la sua parola d'onore a Caterina Sforza, e a preferire di certo un'alleata solida – checché ne pensassero tanti – come lei in una terra così vicina a Urbino come la Romagna, aveva anche stretto un accordo con il nuovo pontefice. Non era molto sicuro che una donna come la Tigre di Forlì avrebbe accettato di sacrificare quello che tutti definivano come il suo figlio preferito in un matrimonio con una vedova nota per i facili costumi, ma voleva credere che la sua figlioccia, Maria Giovanna Della Rovere, potesse davvero essere una chiave di volta per il loro progetto ultimo.

Anzi, proprio a tal proposito, aveva chiesto e ottenuto, com'era prevedibile, il di lui permesso di recarsi a Roma per assistere alla sua incoronazione, che sarebbe avvenuta per fine mese, ma per il momento Guidobaldo restava ancora bloccato a Gubbio. Sembrava che tutte le sfortune del mondo si fossero fatte eco e l'avessero raggiunto in quel periodo. Evidentemente non era stata sufficiente la ferita rimediata poco tempo prima: per renderlo ancora più irrequieto e irascibile, c'era voluto un attacco di gotta.

Il Montefeltro era a letto da qualche giorno, benché si sentisse bene, solo perché non riusciva né ad appoggiare in terra il piede destro, né a stendere completamente il ginocchio sinistro. I suoi cerusici continuavano a fargli bere pozioni maleodoranti e a cospargergli unguenti ovunque, perfino laddove il sole non batteva, eppure la situazione restava stazionaria.

Immobilizzato com'era, i nervi sempre saldi questa volta messi a dura prova, l'uomo aveva intanto provato a sistemare molte faccende spinose che fino a quel frangente aveva un po' tenuto da parte.

Malgrado la sua avversione crescente per Venezia – che pure gli aveva dato ricetto, quando ne aveva avuto bisogno, ma che ora sembrava considerarlo una sua proprietà – il Montefeltro aveva perfezionato le pratiche per cedere i recentemente conquistati castelli di Verucchio e Cesenatico a Venezia, ma aveva ceduto Santarcangelo e Savignano al papa. Per mantenere la facciata, aveva inviato mille fanti – che erano appena la metà di quanto promesso – al Doge con Lattanzio da Bergamno e aveva consegnato a Giulio Vitelli, per quanto lo disprezzasse per come si stava lasciando usare da Venezia, duecento cavalleggeri.

Per il resto si era occupato di organizzare la partenza. Avrebbero dovuto passare da Perugia e anche se confidava nella buona volontà del Baglioni di rinsaldare la loro amicizia, non era del tutto tranquillo. Giampaolo si era schierato dalla parte dei Riario e, per estensione, del papa, e come lui sperava di riportare in Romagna Caterina Sforza, per riequilibrare le sorti dell'Italia e ristabilire l'ordine che era andato perso, tuttavia restava un uomo di difficile interpretazione.

Anche quella sera, mentre guardava pensieroso la cartina da campo che teneva stesa sulle cosce, Guidobaldo si interrogava su una possibile via alternativa da seguire.

“Quando ripartiremo?” chiese il suo attendente, che stava trafficando con le boccette di unguento da usare per i tofi del suo signore.

L'altro fece una smorfia e, tastandosi con cautela il ginocchio, che era ancora quello che gli faceva più male, disse, serio: “Se trovi qualcuno che mi inventi stanotte una sella che mi permetta di cavalcare senza piegare le gambe, partiamo anche prima dell'alba...”

L'attendente, che aveva imparato a conoscere, in quei giorni, il tono volutamente tagliente dell'urbinate, fece una breve risata e poi disse: “Se posso poggiare sulla scrivania la mappa, facciamo la medicazione della sera...”

Con uno sbuffo, Guidobaldo annuì e, buttando la testa indietro sul cuscino, diede di nuovo sfoggio della vena ironica che sapeva sfruttare nei momenti di maggior crisi, commentando: “Fai di me quello che vuoi...”

 

La giornata era sonnolenta, alla villa di Castello. La Tigre si era svegliata presto, ma se ne era pentita quasi subito. L'attesa sembrava essere l'unica attività possibile, in quella casa.

Bernardino era ancora a Firenze con Scipione e anche Fortunati si trovava in città o, forse, era andato già a Cascina. Sforzino non faceva che leggere i suoi libri, mentre il piccolo Pier Maria viveva in simbiosi con la sua balia, che lo accudiva in modo eccellente. Giovannino, invece, eccezionalmente quel giorno non era il solito turbine in movimento, forse per via del primo dentino da latte caduto, e aveva accettato con un certo stoicismo la compagnia di frate Lauro, che si era fatto punto d'onore di cominciare a insegnargli qualcosa, almeno le prime lettere dell'alfabeto.

Galeazzo, dal canto suo, sembrava per la prima volta seriamente insofferente di quell'immobilità, e così, con il pretesto di farsi aiutare a preparare qualche penna per scrivere, la Sforza lo chiamò a sé per indagare sul suo malessere.

“Come mai sei così inquieto?” gli chiese, passandogli un coltellino per fare la punta alle penne, mentre lei finiva di spennare un'ala di fagiano presa dalle cucine.

Il ragazzo arrossì un po' e ribatté: “Non sono inquieto. Sono tranquillo come sempre.”

“Lo vedo che non sai dove mettere le mani.” lo contraddisse la madre: “C'è un motivo particolare per cui ti senti così, oppure è solo perché siamo qui isolati? Vuoi raggiungere i tuoi fratelli, Scipione e Bernardino, in città?”

“Il problema è che...” iniziò a dire il Riario, raddrizzando un po' le spalle larghe che mettevano in mostra la freschezza dei suoi diciotto anni non ancora compiuti: “L'Italia si sta armando, tutti si preparano alla guerra e io...”

“Non tutti si preparano alla guerra.” lo rabbonì la donna, che però capiva benissimo il suo stato d'animo, perché lo condivideva appieno.

“Secondo uno dei servi, a Firenze si dice che dei soldati stanno marciando verso Imola portando le insegne di Bologna.” sputò alla fine Galeazzo, esponendo ciò che lo tormentava da giorni: “E dicono che Ottaviano sia con loro. Io non lo credo possibile, perché voi lo sapreste, ma...”

“Bologna e Ottaviano in marcia verso Imola?” chiese Caterina, smettendo per un momento di spennare l'ala, allibita: “Il servo che te ne ha parlato dove l'ha sentito dire?”

“Al mercato.” rispose prontamente il ragazzo, deglutendo.

La Leonessa ragionò in fretta. Poteva essere vero? Ottaviano era tanto incapace che sarebbe stato ridicolo vederlo alla guida di un esercito... E Fortunati, se avesse creduto le voci fondate, le avrebbe sicuramente scritto... O forse avrebbe evitato, temendo una sua reazione spropositata?

Rompendo una penna mentre la staccava, Caterina bestemmiò a voce bassa e poi, tornando a guardare il figlio, domandò: “Tu credi che sia vero?”

Il Riario si morse le labbra carnose e poi ammise: “Mi sembra una cosa talmente strana, che potrebbe essere vera.” poi soggiunse: “Ma se così fosse, non starebbe rovinando tutto? Sono mesi che state attenta a cosa dire e cosa fare...”

Per qualche minuto, la Tigre non parlò, concentrandosi sul lavoro manuale e interrogandosi su cosa Ottaviano fosse o non fosse in grado di fare. Si chiese anche chi, a Bologna, avrebbe potuto prendersi la libertà di seguirlo senza informarla. Si era convinta che Ippolita l'avrebbe tenuta informata su ogni minima cosa, ma forse la nipote non aveva il potere e le conoscenze che millantava.

“Adesso occupiamoci di queste...” bisbigliò alla fine la donna, indicando con il capo le penne da affilare: “Poi... Poi vedremo che fare.”

Madre e figlio rimasero assorti nel loro lavoro per quasi un'ora, preparando una scorta per lo scrittoio tale che probabilmente ci sarebbero volute settimane per consumarla, e poi si spostarono entrambi nel cortile interno della villa. Stava spuntando un pallido sole, tra le nuvole plumbee del novembre toscano, e Galeazzo sentiva il bisogno di fare un po' di movimento, per liberare la mente.

Convinta del fatto che l'esercizio non fosse mai troppo, per un guerriero, e che il corpo a corpo fosse un tipo di lotta non solo molto utile, ma anche molto nobile, Caterina si mise a dargli consigli per lo scontro a mani nude.

Mostrandogli i colpi alti più incisivi e quelli bassi più comodi, la donna per qualche tempo dimenticò lo spettro di Ottaviano e si ricreò.

Ansante, dopo aver parato una serie di colpi di Galeazzo, che era stato invitato a farle vedere quanto fosse rapido, la milanese si andò alla fine a sedere, asciugandosi la fronte col dorso della mano, mentre il giovane ne approfittò per continuare a dare colpi all'aria, con una rabbia che di solito non gli era propria. Caterina comprese che, probabilmente, il Riario era ancora completamente assorbito dal pensiero del fratello che i pettegolezzi volevano alla guida di un esercito in Romagna.

La luce cominciava a cambiare e la Tigre era in procinto di richiamare Galeazzo – che era sudatissimo e accaldato malgrado il venticello freddo che iniziava ad alzarsi – per rientrare alla villa, quando un trafelato frate Lauro li raggiunse correndo nel cortiletto.

“Che succede?” domandò la milanese, allarmata da quel passo spedito, che poco si addiceva a un uomo flemmatico come Bossi.

Questi, con poco fiato, le porse una lettera e le disse: “Appena consegnata... Molto urgente...”

Senza attendere oltre, la Tigre agguantò il messaggio e l'aprì. Si trattava di una lettera di Clechi, ed era molto breve, scritta con grafia concitata.

Dopo qualche stringatissimo convenevole, l'uomo riportava: 'Si intende chel Signor Octaviano deve essere entrato in Imola ma non lo so de certo e che la Rocha grida Marcho! Marcho!' e poi passava a parlare della rotta dei francesi a Salso, in Sicilia.

Del tutto disinteressata alla seconda parte della missiva, la donna rilesse almeno dieci volte le prime righe.

Con un moto di collera profondo, che aveva radici che andavano ben oltre quanto scritto da Clechi, gridò un paio di ingiurie pesantissime rivolte a Ottaviano e poi fece avvicinare Galeazzo e gli disse, con voce bassa, ma furente: “Tuo fratello è un idiota. Rischia davvero di rovinare tutto. E quel che è peggio, è che ci vuole mettere in mano a Venezia.”

 

Ottaviano avrebbe voluto mettersi a piangere, ma si tratteneva solo per il modo in cui Ermes Bentivoglio lo stava guardando. Di rado aveva tenuto in conto il disprezzo altrui, eccetto quello ricevuto dalla madre in più occasioni, ma il modo in cui il bolognese lo fissava, forse proprio in attesa che lui scoppiasse in lacrime come un bambino, gli bastava per impedire a se stesso di sciogliersi.

Erano a Imola ormai da qualche giorno, e nulla era andato come previsto. L'unica parte facile era stato, paradossalmente, convincere Venezia e Giovanni Bentivoglio. Al Doge era bastata la promessa di consegnare Imola e Casanova alla Serenissima, se il Riario fosse morto senza eredi legittimi, e in cambio erano stati elargiti benefici ecclesiastici per Cesare e una condotta di cento lance e cento cavalleggeri per lo stesso Ottaviano. Il Bentivoglio, invece, formalmente non aveva preteso nulla, ma era stato ben felice di dare quasi duemila uomini al figlio Ermes per togliersi per un po' di torno la sua testa calda e le sue smanie di battaglia.

Arrivati in Romagna, però, le cose si erano subito incrinate. Finché si trattava di ubriacarsi alla sera e passare la notte assieme scegliendo ora questa ora quella meretrice, Ermes e Ottaviano erano andati d'amore e d'accordo, ma quando si era giunti al dunque, al momento cruciale, all'attacco vero e proprio, il Riario si era tirato indietro, suscitando le ire del compare.

Anche quella mattina, dopo aver passato accampato fuori dalla rocca di Imola un tempo che per il Bentivoglio era già stato più che eccessivo, Ottaviano non sapeva cosa inventarsi per rinviare ancora il momento della carica al nemico.

Aveva già provato a far notare che il castellano della rocca non li stava attaccando, il che significava che era in difficoltà e, con un po' di pazienza, avrebbero preso la città per fame. Gli era stato risposto che il castellano non attaccava solo per non sprecare uomini, sperando che fossero loro, quelli che avrebbero alzato bandiera bianca per fame.

Il Riario allora aveva cominciato a proporre di dividersi: lui sarebbe rimasto al campo a guardare le spalle al Bentivoglio, mentre Ermes avrebbe dato l'attacco. Il bolognese aveva – in realtà a malincuore – fatto notare che non sarebbe stato saggio: tutti volevano vedere Ottaviano in prima fila, erede degno finalmente di sua madre Caterina, solo così anche il popolo li avrebbe seguiti.

Infine Ottaviano aveva provato a dire mezze frasi su un accordo molto privato che aveva con la famiglia Vaina, che tramite Guido Vaina li avrebbe aiutati a prendere senza armi la rocca e la città intera. Il Bentivoglio non era entusiasta, di quell'ultima ipotesi, perché era sceso in Romagna con il preciso intento di menar le mani, ma in mancanza di altro, si sarebbe accontentato anche di una vittoria bianca. Tuttavia, quando quella mattina si era presentato nella tenda del Riario per chiedere a che punto fossero le trattative, quello l'aveva accolto con gli occhi lucidi e la voce acuta, quasi stesse per mettersi a piangere.

“Allora?” insistette di nuovo il bolognese, già in armatura, pronto a qualsiasi evenienza: “Si può sapere che fine hanno fatto, tutti i vostri amici?”

“Io...” iniziò a balbettare Ottaviano, che indossava i suoi begli abiti ormai consunti dall'uso e le brache un po' sporche di fango: “Oggi... Devo... Ramazzotto mi ha promesso che...”

Il Bentivoglio si gonfiò nel petto e osservò con espressione schifata il giovane uomo che gli stava davanti: “Giuro che se mi avete fatto fare tutta questa pagliacciata per nulla, a Bologna vi ci riporto infilzato su una picca.”

Il Riario sentì la terra mancargli sotto i piedi. Aveva sonno, aveva mal di schiena, la tenda militare era tutto fuorché comoda per riposare, e aveva fame, perché il cibo che Ermes faceva servire a tutti i soldati, loro due compresi, era agghiacciante. Avrebbe solo voluto piangere e buttarsi su un vero letto e dormire finché non fosse tutto finito.

“O forse farei meglio a portarvi fino a Firenze, da vostra madre – rise il Bentivoglio, avviandosi, comunque, all'uscita della tenda – non vorrei privarla della gioia di occuparsi di voi, dopo questo bel pasticcio...”

Ottaviano lo guardò uscire e poi, rimasto solo, sentì le gambe cedere e si trovò seduto in terra. Era stato uno stupido, lo sapeva, ma era anche vero che era stato certo che il bolognese avrebbe preso di più in mano la situazione, facendo quello che in realtà avrebbe dovuto fare lui. Invece Ermes gli aveva gestito i soldati, era vero, gli aveva preparato il campo, ma non si era minimamente accollato nemmeno una decisione riguardante la campagna. Di certo era stato il padre Giovanni a intimargli di fare così.

Solo che se la situazione non si fosse sbloccata in fretta, il panorama per il figlio della Tigre sarebbe stato molto, molto desolante. Innanzitutto, quella marcia era stata una vera e propria dichiarazione di intenti a nome di tutta la sua famiglia: se prima si trattava di voci, di maneggi sottobanco e cose simili, ora tutta Italia sapeva che i Riario volevano riprendersi le loro terre in armi.

In secondo luogo, se non si fossero sbrigati, di certo sarebbe arrivata una reazione dai francesi, o da chissà chi altro, e sarebbero stati scacciati con la forza. A quel punto Bologna avrebbe preteso un risarcimento per gli uomini persi e anche per l'onore ferito...

Infine, e questo era ciò che Ottaviano temeva di più di ogni altra cosa, quando la Leonessa avesse saputo di quello che il Riario aveva fatto – o forse lo sapeva già – e, soprattutto, dell'esito infausto del suo operato, sarebbe andata su tutte le furie. Non avrebbe sfiorato le vette di odio toccate alla morte di Giacomo Feo, ma ci sarebbe andata molto vicina...

Piangendo disperato, ora che non aveva più Ermes a guardarlo e giudicarlo, Ottaviano si rannicchiò in terra per quelle che gli parvero ore. Quando si rese conto che non sarebbe venuto nessuno a tirarlo fuori da quel pasticcio, decise che fosse il caso di provare almeno a percorrere la via diplomatica.

Dopotutto, pensò, erano stati i Vaina a proporsi come aiuto, dunque ora spettava a loro fare qualcosa e trarlo d'impiccio.

Asciugandosi gli occhi, andò dalla guardia che presidiava la sua tenda e gli disse chi mandare a chiamare. Aveva le idee chiare su cosa dire a Guido Vaina, affinché lo aiutasse, ma poi sarebbe stato solo un problema dell'imolese risolvere la questione.

Mettendosi in paziente attesa dal suo ospite, Ottaviano disse tra sé, a denti stretti: “E ora vediamo, chi è l'idiota... Quando riavrò Imola...” ma si bloccò, perché nemmeno ora che era da solo aveva il coraggio di dire a voce alta che, se fosse riuscito a riavere Imola, l'avrebbe tenuta per sé, ignorando qualsiasi richiesta, per quanto disperata, di sua madre Caterina.

 

Giuliano era papa da poco più di una settimana e, per alcune cose, si sentiva già stanco, strizzato come un panno del bucato, senza forze e, soprattutto, sopraffatto dalle mille incombenze che aveva.

Anche se da un lato era riuscito a trovare già una certa stabilità privata – Alidosi riusciva a raggiungerlo nelle sue stanze quasi ogni notte e, passato un tempo ragionevole, avrebbe provato a proporlo come ciambellano, per dargli libero accesso ai suoi appartamenti anche di giorno – dal punto di vista pubblico il caos pareva regnare in ogni ambito.

Il Della Rovere, in realtà, riusciva a destreggiarsi bene, dosando sorrisi benevoli, alzate di voce e reprimende, ma qualche volta si chiedeva se, assorbito com'era negli affarucci vaticani, sarebbe mai riuscito a mettere in pratica i grandiosi progetti che aveva per se stesso e per la sua famiglia.

Uno dei primi problemi enormi che aveva dovuto affrontare, un paio di giorni prima, era stata l'irrequietezza del Cardinale di Rouen. Se placare il Valentino era sembrato complicato, ma poi si era rivelato semplice – era stato sufficiente tenerlo a palazzo, ben sorvegliato, ma non più prigioniero – per il francese la cosa era molto diversa.

Smanioso e sobillato dai portavoce arrivati dall'Impero, il Cardinale aveva il fuoco che gli bruciava i piedi, portandolo da un salotto all'altro, da un colloquio all'altro, dal mattino all'alba, senza un attimo di sosta.

Gli imperiali avevano cercato di convincerlo a recarsi a Trento, per colloquiare direttamente con l'Imperatore Massimiliano, forse sperando che, ricevendo ordini diretti, si sarebbe placato, ma il Rouen non intendeva accettare per alcuna ragione. Era troppo impegnato nei suoi maneggi personali, che coinvolgevano Firenze, Siena, Lucca e perfino Bologna. Il problema era che nessuno dei messi toscani, tanto meno quello bolognese, erano intenzionati a tornare in patria a riportare i suoi progetti a voce, limitandosi ad annotarne la vacuità per lettera.

I francesi, intanto, erano in rotta, o almeno così si diceva a Roma, e al sud si stavano muovendo molte acque e, tra gli agitatori più accaniti sembrava esserci il Marchese di Mantova, il Gonzaga, che fino a quel momento era stato cauto e fermo.

A tutto questo, si aggiungevano le lettere sempre più insistenti di Guidobaldo Maria da Montefeltro, al quale Giulio II aveva già formalmente permesso di giungere a Roma per la sua incoronazione, ma che sembrava incapace di quietarsi, malgrado le tante rassicurazioni del pontefice.

Voleva essere certo non solo che il papa non avesse cambiato idea riguardo la Romagna, ma anche che volesse consolidare a quel modo parte del centro Italia, o almeno gli Stati che già prima erano sotto l'influenza vaticana, magari trovando anche un accordo matrimoniale per Maria Giovanna Della Rovere, che restava la sua figlioccia, in modo da spianare la strada, un domani, al rientro in Italia dalla Francia del di lei fratello Francesco Maria Della Rovere, che, un giorno, sarebbe stato l'erede morale e non solo dello stesso Montefeltro.

Su Maria Giovanna Giuliano aveva un progetto molto preciso, eppure stava tergiversano perché, inconsciamente aveva paura della reazione di Caterina Sforza. Finché era stato un pour parler, non si era preoccupato granché, facendo la voce grossa e le spalle larghe, ma ora temeva di rovinare tutto, azzardando un aut aut con la cugina.

Così, nel frattempo, cercava di nuotare in acque più tranquille, sperando che il tempo gli portasse consiglio su come approcciare la bellicosa Trigre di Forlì. Proprio per iniziare da qualcosa di semplice, quel giorno aveva chiamato nei suoi appartamenti il Cardinale di Cosenza.

Francisco Borja era arrivato puntuale come sempre, aveva accettato di buon grado il vino, e si era seduto in attesa che il papa gli esponesse la sua proposta.

Il Cardinale era un uomo dai modi secchi, ma sapeva essere cordiale. Anche in quel caso, dopo qualche brevissimo convenevole, era stato zitto, ma aveva cercato di sorridere sempre, supplendo i suoi modi scarni con una sobria eleganza che lo faceva sembrare anche gentile.

Giuliano sapeva benissimo quanto fosse importante gettare un seme tramite lui. Parente del Valentino, Francisco governava sul Ducato di Bisceglie in vece del piccolo Rodrigo Borja d'Aragona, figlio del defunto Alfonso d'Aragona e di Lucrecia Borja. Governava anche sul Ducato di Nepi, a nome del famigerato Infante Romano, un altro bambino di Lucrecia che a Roma ormai nessuno sapeva più di chi fosse davvero figlio, dato che dopo la morte di Alessandro VI in molti, per malignare, avevano affibbiato davvero la paternità allo scomparso pontefice.

Proprio in riguardo di tutto ciò, il Santo Padre parlò con voce dolce e affabile, fece grandi panegirici, e poi giunse al punto: far imparentare i Della Rovere ai Borja.

Era facile, a sua detta: Maria Giovanna Della Rovere aveva tre figli, e Porzia sembrava perfetta per sposare, nel giro di una decina di anni, uno dei due Duchetti di cui il Cardinale era tutore.

“In tal modo, quel Duchetto che voi sceglierete – spiegò Giuliano – non solo avrà il suo proprio Ducato, che Roma mai gli toccherà, ma avrà anche Camerino, perché non ci sono più dei Varano che vadano a reclamarlo, e tornerà presto in mano o del figlio maschio di mia nipote o del primo uomo che impalmerà una delle due figlie...”

Francisco stirò le labbra in una specie di sorriso compiaciuto e poi sussurrò: “La vostra proposta è interessante. Io sono il tutore dei bambini, ma sapete che...”

“Che va interpellata la madre, certo, lo capisco molto bene.” annuì subito il papa, immaginando come Lucrecia, probabilmente, non sarebbe nemmeno stata contattata, ma sarebbe passato tutto da Cesare Borja: “Madonna Borja tenga conto del fatto che troverebbe nella figlia di mia nipote una perfetta nuora.”

“Vostra nipote, però, non è una perfetta consuocera.” fece presente il Cardinale, mentre le labbra si sollevavano in un ghigno.

Giulio II si trattenne a stento dal ricordare che nemmeno Lucrecia era una santa e che se in giro per l'Italia c'era l'Infante Romano, era proprio per i suoi modi liberi di intendere i vincoli matrimoniali e genitoriali, ma tacque.

“Comunque vi farò sapere.” tagliò corto Francisco, alzandosi di scatto: “Dopotutto sono il tutore, ho un peso anche io, nella scelta.”

“E io sarò lieto di ringraziarvi.” annuì Giuliano: “Per esempio... Mio cugino, il Cardinale Sansoni Riario, inizia a essere stanco della sua nomina a Camerlengo... Voi, magari, potreste invece trovarla stimolante...”

“Indubbiamente.” ribatté compiaciuto il Borja, con gli occhi che improvvisamente brillavano.

Il pontefice lo salutò calorosamente, sicuro che non sarebbe tardata una proposta di matrimonio per la figlia di Maria Giovanna. Stanco, sentì in lontananza suonare le campane e si fece due conti. Se non dimenticava qualche impegno, aveva davanti a sé un'intera ora libera. Posandosi una mano sulla pancia prominente si disse che avrebbe potuto fare due passi nei giardini e poi, con calma, avrebbe potuto mangiarsi un bel polletto arrosto...

Sorridendo nel prefigurarsi già la carne succulenta scendere nella gola accompagnata da un buon vino rosso scuro, il Della Rovere batté le mani l'una contro l'altra e si avviò alla porta, ma non la raggiunse, perché un segretario gli andò incontro con un messaggio urgente.

“Da parte di chi?” abbaiò Giuliano, costernato nel vedere i propri tranquilli progetti interrompersi sul nascere.

Il segretario non rispose, e in effetti la lettera non portava il nome del mittente all'esterno. In ansia, il pontefice l'aprì, mandando via l'altro con un gesto della mano e cominciò a leggere.

Si trattava di un breve reso conto di una delle sue tante spie in Romagna. Lo aveva pregato di tenerlo informato sui malumori della gente, sugli eventuali tumulti, e su come si comportavano i Governatori delle varie città, in attesa di poter riprendere il potere almeno di Imola, Faenza e Forlì con la forza.

Perciò quello che lesse lo immobilizzò per qualche istante. Suo cugino, Ottaviano Riario, assieme a dei bolognesi, era accampato davanti alla rocca di Imola. Non si parlava di attacchi, non si parlava di incontri diplomatici. Si parlava solo di un accampamento, fermo, davanti alla rocca di Imola.

Giulio II, preda della rabbia, strappò la lettera in mille pezzi, lanciandoli in aria e gridò: “Quel maledetto idiota! Vuole rovinare tutto quanto!”

   
 
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