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Autore: Nina Ninetta    30/03/2024    4 recensioni
Anita è una studentessa di 16 anni che vive un profondo disagio sociale e se ne sta fin troppo spesso per conto proprio. Completamente sola, all’inizio del terzo anno, si trasforma nella vittima perfetta di un gruppetto di bulli che la vessa con dispetti e insulti di ogni genere. Il peggiore fra tutti, secondo Anita, è Stefano: un ragazzo scaltro e intelligente che sa usare fin troppo bene le parole, cosa in cui anche lei è brava! Qualsiasi altra persona, al posto di Anita, si sarebbe lasciata avvilire da questa situazione, ma non lei, poiché non si sente affatto sola, c’è il suo migliore amico a darle man forte: ȾhunderWhite! Un ragazzo con cui chatta ormai da tempo e che ha conosciuto in rete, su un sito per giovani scrittori come lo sono loro! Sebbene vivano nella stessa città, Torino, non si sono mai incontrati di persona, fin quando ȾhunderWhite non sente il desiderio di vederla dal vivo...
Questa storia partecipava alla challenge “Gruppo di scrittura!” indetta da Severa Crouch sul forum “Writing Games - Ferisce più la penna” - aggiornamenti ogni 15 giorni.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao a tutti, lettrici e lettori!
Dopo un'attenta analisi (?) ho deciso di pubblicare ogni 15 giorni (sperando di riuscire a mantenere il ritmo costante). Di solito aggiornerò ogni fine settimana, tra il venerdì e il sabato. Pensavo che la storia si sarebbe risolta in più breve tempo, invece sta andando per le lunghe e pubblicare una volta al mese significherebbe farla durare anni! No, non fa per me. 
Perciò, segnatevi questo doppio appuntamento mensile ;)
Grazie ovviamente a chi sta seguendo questo racconto, vi voglio bene!
Con affetto,
Nina^^


Ȼapitolo Ʋndici

 “Ҏrofessore bei capelli

 
 
Dopo la cerimonia, gli invitati si spostarono sul terrazzo dell’ultimo piano del Grand Hotel, dove ad attenderli c’era un ricco buffet, una piscina con i faretti colorati e una band dal vivo che suonava musica leggera.
Giovanna Dell’Arco teneva accanto a sé la sua prediletta, la sua pupilla, presentandola come una futura scrittrice di professione, prendendosi quasi dei meriti per la sua innata capacità di mettere le parole una dietro l’altra.
«Di sicuro è anche grazie alla bellezza di chi ha creduto in lei» a parlare era stato un professore di filosofia di Napoli, un uomo di mezza età, con tanti capelli brizzolati acconciati all’indietro, senza barba, che indossava un jeans sotto una giacca a scacchi e scarpe da ginnastica. In mano teneva due calici pieni di spumante, uno lo porse a Giovanna, la quale ringraziò con un cenno del capo. «Ai nostri ragazzi, allora, ma anche al nostro bello, ma duro lavoro!» Sollevò appena il bicchiere verso l’insegnante torinese, abbozzando un sorriso senza smettere mai il contatto visivo. Aveva occhi chiari come ghiaccio. Bevvero all’unisono.
Anita Lentini cominciava ad annoiarsi, ogni persona che le si avvicinava per complimentarsi con lei rispondeva sempre alla stessa maniera garbata. Ma adesso che l’euforia del momento era passata, che aveva anche telefonato ai suoi per riferire la splendida notizia della vittoria, e aveva mangiucchiato qualcosa, avrebbe tanto voluto salire sul primo treno diretto a Torino e tornare a casa. Con discrezione si defilò dal capannello di professori e raggiunse la balconata che dava sul mare. Nonostante la musica e il chiacchiericcio di sottofondo chiuse gli occhi, sforzandosi di sentire il rumore delle onde, ma da lì sopra era davvero difficile. Il venticello, con l’odore di salsedine, quello poteva respirarlo senza problemi.
«Anita, giusto?»
La giovane aprì gli occhi di scatto, colta alla sprovvista si voltò verso il ragazzo che le stava parlando: era uno dei concorrenti che aveva partecipato al concorso. Le stava porgendo la mano:
«Piacere, io sono il numero dieci» sorrise e Anita non poté non ridacchiare alla battuta, stringendogli la mano. Aveva un forte accento toscano, ed era anche molto, molto caruccio, con i capelli chiari ricciuti e un viso dai tratti delicati, da angioletto. «Mi chiamo Mattia.»
«Piacere-»
«Numero uno» la precedette Mattia, strappandole un nuovo sorriso. «Gli altri sono scesi sulla spiaggia, ti va di venire?»
«Possiamo?» Ad Anita brillarono gli occhi, sarebbe stato bellissimo vedere il mare da vicino e ascoltare la sua melodia, bagnarsi i piedi magari...
«Non siamo mica a scuola» Mattia le cinse le spalle con un braccio, incamminandosi insieme verso l’ascensore che li avrebbe condotti otto piani più giù.
 
Elia Morales afferrò al volo l’ennesimo bicchiere di spumante dal tavolo delle bibite e raggiunse Stefano Parisi, quest’ultimo seduto in disparte su una sdraio a bordo piscina, teneva la testa bassa e si stava accendendo un’altra sigaretta. Il posacenere ai suoi piedi diceva che ne aveva fumate fin troppe da quando erano saliti lassù. L’insegnante spagnolo si accomodò al suo fianco trascinando una sedia di plastica bianca e accomodandovisi sopra fece un sospiro profondo e rumoroso. Per un po’ si guardò attorno senza dire nulla, poi cominciò a parlare e Stefano capì subito che non era propriamente in sé.
«Avrei dovuto accettare di tornare in Spagna.»
«E invece?»
«E invece resterò qui per un altro anno ancora.»
Stefano lo osservò di sottecchi. Mezza scuola femminile ci sbavava dietro e in un certo senso era facile comprenderne il motivo: era giovane, straniero, dai colori latini, l’accento come quello di Enrique Iglesias – che in quel periodo andava fortissimo fra le teenager – e, soprattutto, aveva dei modi garbati e gentili. Una buona parola con chiunque, per chiunque, verso chiunque. Adesso teneva lo sguardo mesto, da cane bastonato, fisso sul capannello di persone che si era formato a sinistra della piscina. Stefano seguì il suo sguardo e tra quella gente notò la presenza della professoressa Dell’Arco. Cominciò a fare da spola tra lei e lui, un’occhiata a lei e una a Elia che gli sedeva vicino. Più lei rideva con quel bell’imbusto dai capelli brizzolati, più il viso dello spagnolo si rabbuiava e ingollava spumante.
Stefano tirò una boccata dalla sigaretta, la punta si accese e poi tornò grigia. Non poteva crederci: che il giovane professore di spagnolo si fosse preso una cotta per la professoressa per eccellenza dell’istituto Ferraris di Torino? Ma avevano quanti anni di differenza? Quindici? Venti? Non sapeva quantificarli, ma di sicuro più di dieci. Da non crederci! Non aveva mai pensato alla Dell’Arco in quel senso, non l’aveva mai guardata con occhi diversi da quelli di uno studente che ha di fronte una professoressa di italiano, quasi che questa non abbia un volto, un’anima, una vita privata, un genere.
Elia Morales agitava nervosamente la gamba destra, su e giù, su e giù, e intanto continuava a ingurgitare le bollicine bionde con sorsi brevi e ravvicinati. Poco più lontano, Giovanna e il tipo con i capelli perfetti avevano ormai intrapreso una conversazione privata isolandosi, quasi che gli altri insegnanti non esistessero. Lei teneva ancora il calice in mano, ma era mezzo pieno, segno che non aveva bevuto; quello di lui al contrario era vuoto. Doveva essere un tipo divertente, poiché la professoressa di italiano sorrideva spesso, portandosi il dorso della mano che teneva il bicchiere davanti alla bocca. Anche l’altro sorrideva di rimando e così scoprirono che, oltre ad avere un buon parrucchiere, aveva anche un ottimo dentista.
La coscia di Elia si muoveva sempre più velocemente, su e giù, su e giù. Stefano continuava a fumare, divertito dalla scena alla quale stava assistendo. Quando sarebbe tornato a Torino e raccontata a Fabio avrebbero riso per l’eternità. Anita Lentini era ancora al fianco della professoressa, fingeva di seguire i discorsi degli altri, per educazione annuiva e fingeva di interessarsi a ciò che dicevano. Poi Stefano la vide defilarsi con circospezione: era sempre stata brava a non farsi notare, a non far pesare la sua assenza, né la presenza. Anche a scuola ci aveva provato, ma a volte più si tende a nascondere qualcosa più questa spicca e da nell’occhio. La seguì con lo sguardo mentre si avvicinava alla ringhiera del terrazzo e vi si aggrappava con entrambe le mani.
«Non si è neanche accorta che la Lentini si è allontanata» disse Elia Morales, sbagliandosi. Giovanna Dell’Arco si accorse subito dei movimenti della sua alunna e perciò la seguì con lo sguardo, senza tuttavia smettere di fare cenni di assenso a ciò che le stava propinando il professore di Napoli. La vide soffermarsi sul finire del terrazzo e si tranquillizzò, anche perché notò Elia e Stefano pochi metri più in là. Poi il professore di filosofia, dai bei capelli e splendidi denti, le indicò un angolo più appartato del terrazzino, affermando che da lì poteva ammirare contemporaneamente il Golfo di Sorrento e quello di Amalfi. Era uno spettacolo unico, certo, di giorno si vedeva meglio, ma le luci aiutavano molto. Lo seguì, pensando che un po’ di tempo per lei non avrebbe che potuto giovarle.
Appena Elia Morales comprese cosa stesse per succedere, ossia che la sua collega si appartava con quel bell’imbusto, scattò in piedi come una molla, cominciando a imprecare nella sua lingua madre e Stefano ci capì davvero poco. L’unica cosa che riuscì a estrapolare da tutte quelle parole biascicate fu di stare attento alla Lentini, di non perderla di vista neanche un attimo o ne avrebbe risposto lui con una nota disciplinare il primo giorno di scuola.
«Ma non si può fare!» Protestò Stefano.
«Dici?!»
I due si scambiarono un’occhiata che valeva più di mille parole, poi lo spagnolo virò l’angolo dove pocanzi era sparita anche la professoressa Dell’Arco. Il ragazzo sbuffò, infastidito, ma quando tornò con l’attenzione sulla compagna di classe e la beccò in compagnia di un altro ragazzo sentì un moto di stizza crescergli dentro. Era diventato la babysitter di quella sfigata e adesso gli toccava badare a lei!
Bella vacanza di merda!
Si accese un’altra sigaretta, l’ennesima. In realtà non se le fumava per davvero, nel senso che gli bastava tenerle fra le dita o fra le labbra per calmarsi – e darsi un’aria da duro. Scrutò i movimenti di quei due da lontano: si stavano presentando stringendosi le mani, lei sorrideva – tutti simpatici i maschi a quella festa?
Ogni tanto lanciava un’occhiata all’angolo che aveva inghiottito i professori, sperando di vederne sbucare almeno uno, ma per ora nulla. La gamba destra aveva cominciato a muoversi concitatamente, come era capitato a quella di Elia, e si costrinse a tenerla ferma. Chiuse gli occhi, facendo più di un respiro profondo. Li riaprì e si accorse che nulla era cambiato: Anita era ancora lì – si stava proprio divertendo – e dei suoi accompagnatori nemmeno l’ombra. La gamba in compenso sembrava essersi rilassata. Tirò una boccata dalla sigaretta e all’improvviso gli parve di udire la voce della professoressa Giovanna, infatti la vide sbucare dall’angolo, sembrava arrabbiata. Alle sue spalle c’era Elia che, più infuriato di lei, l’afferrò per un polso e fermò la cavalcata. Per un attimo Stefano aveva tirato un sospiro di sollievo, credendo che stessero tornando, invece si arrestarono a parlare qualche minuto ancora. Ma proprio in quella manciata di secondi che aveva speso per osservarli, si perse Anita. La balaustra che costeggiava il terrazzo, dove fino a qualche minuto prima c’erano stati la sua compagna di classe e il ragazzo dai capelli biondicci, adesso era vuota. Scattò sull’attenti, spegnendo la sigaretta nel bicchiere di vetro che gli aveva passato distrattamente Elia Morales, cercò la ragazza con lo sguardo.
Se l’era persa, accidenti a lui!
Accidenti a lei!
Poi un colpo di fortuna: li beccò che entravano in ascensore. Corse verso di esso, cercando di evitare le persone muovendosi a zigzag, spingendole di lato quando necessario, ma le porte automatiche si chiusero un attimo prima che riuscisse a raggiungerle. Vi batté un colpo contro, poi notò che l’ascensore era trasparente e attese di capire a che piano si fosse fermato. Non lo avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, ma quando capì che Anita e l’altro avevano raggiunto la spiaggia, e non un piano dell’hotel con tanto di camere annesse, si sentì sollevato. Almeno sapeva dove trovarla.


 
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