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Autore: Adeia Di Elferas    31/03/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La Marchesa di Mantova si sentiva un po' strana. Al risveglio aveva avvertito delle avvisaglie di travaglio, ma poi si erano spente e quel 13 novembre era cominciato un po' come tutti gli altri giorni da un mese a quella parte. Eppure, benché il suo corpo si fosse acquietato, era così inquieta da non riuscire a concentrarsi su nulla, come se le scappassero dalla mente le parole e gli occhi fossero incapaci di soffermarsi su qualcosa per più di qualche secondo.

Aveva perfino prestato poca attenzione a uno dei suoi segretari, che gli stava spiegando le ultime mosse del marito. Avrebbe dovuto trovare interessante quello che l'uomo le stava dicendo, eppure per le sue orecchie quelle erano solo chiacchiere, e ciò che più le premeva era dare sollievo alle gambe gonfie e bere acqua con limone e miele per frenare la nausea.

“Il Marchese sta tenendo benissimo il campo francese – continuava imperterrito il segretario – e gli spagnoli, guidati da Consalvo da Cordova, possono ben poco, anche se Bartolomeo d'Alviano e gli Orsini stanno dando loro manforte...”

“Capisco...” disse annoiata, per non dire irritata, Isabella.

“Come sapete, una decina di giorni fa, siccome non si riusciva a passare il corso del Garigliano, vostro marito ha fatto costruire un ponte di barche incatenate, sotto la protezione dei cannoni di vossignoria.” continuava imperterrito il segretario: “E il giorno dopo, il Marchese con i suoi millecinquecento cavalieri e la fanteria ha passato il ponte e ha annientato gli spagnoli.”

“Queste cose le so già...” ribatté stancamente l'Este, avvertendo un crampo improvviso al basso ventre: “E sappiamo com'è andata a finire. Mio marito ha occupato il campo spagnolo, ma gli spagnoli hanno contrattaccato e l'hanno fatto arretrare...”

“Sì, è vero... Ma è stata comunque una bella vittoria e...” provò a dire l'uomo, ma la Marchesa lo fermò con un cenno della mano.

“Non continuate a dirmi che genio militare sia mio marito. Da che ha partecipato anni fa a quella maledetta battaglia Fornovo sembra che sia capace di fare la guerra solo lui...” dicendo ciò, Isabella si alzò dall'ottomana, tenendosi una mano sulla schiena e uno sul pancione, e concluse, in tono derisorio: “Francesco sa menare una spada, quello è vero, ma come stratega non è all'altezza degli altri... Basti pensare al pasticcio che ha fatto a Roccasecca...”

In quel paese, poco prima di scendere sul Garigliano, il Gonzaga aveva in effetti peccato di superbia. Benché dotato di un numeroso esercito, aveva tentato invano di espugnare la Roccasecca, difesa da milleduecento fanti spagnoli che militavano agli ordini del Villalba. Facendo troppa fatica, aveva cercato la via diplomatica, mandando una trombetta per spaventare il presidio, facendogli annunciare la morte dell'intera legione spagnola, in caso di sua vittoria: nessuno, aveva sostenuto, sarebbe sopravvissuto, se avessero davvero osato opporgli resistenza.

Pietro Navarro, portavoce degli spagnoli, aveva deriso e minacciato la trombetta, dicendogli che se si fosse fatto rivedere l'avrebbe ammazzato con le sue stesse mani. Tornato dal Gonzaga, il messaggero aveva riferito tutto e Francesco aveva riso sprezzante, rimandando la trombetta dal Navarro, con la medesima richiesta. Ovviamente lo spagnolo aveva tenuto fede alla sua promessa e aveva personalmente messo il cappio attorno al collo del messaggero.

Ne erano seguiti tre giorni di scontri sanguinosissimi, terminati con il Marchese che levava le tende e scappava verso il Garigliano.

“Siete troppo dura con vostro marito...” si prese la libertà di dire il segretario: “Soprattutto sapendo che sta per rendervi di nuovo madre...”

La donna, a quelle parole, guardò sprezzante il proprio ventre teso e ribatté: “Quando devo partorire, fateci caso, lui non c'è mai... Piuttosto che no, questa volta se n'è andato a Roma...”

Il segretario aprì di nuovo bocca, forse, pensò l'Este, per prendere una volta di più le difese del Marchese di Mantova, ma l'uomo non riuscì a dire nulla, perché nel frattempo la donna si era ripiegata su se stessa, con un gemito acuto di dolore, e la veste blu che si faceva più scura sotto la cintola.

“Chiamate la levatrice!” ordinò Isabella, il volto contratto e una sorta di incredulità nella voce: “Il momento è arrivato...”

 

Caterina stava aspettando che Giovannino finisse di dire le sue preghiere, assieme alla balia di Pier Maria, per poi dedicarsi a lui. Immaginava che parte di quel fervore religioso ritrovato da parte del bambino fosse legato al suo rifiuto di mettersi a una scrivania a studiare, ma aveva lasciato correre.

In fondo, il piccolo Medici aveva trascorso molto tempo in un convento di suore, dove recitare preghiere in latino – lingua a lui sconosciuta, in realtà – rappresentava in buona parte l'unico svago permesso nelle lunghe e indolenti giornate estive e in quelle brevi e fredde invernali.

Nel frattempo, così, la donna si era messa a rileggere due missive di Clechi arrivate giusto un paio di giorni addietro, a cui non aveva ancora deciso come rispondere. Da che aveva scoperto, nel dettaglio, l'infelice accordo tra Ottaviano e Venezia, la Tigre aveva tirato un sospiro di sollievo nel sapere della figuraccia del figlio. Benché il Riario si fosse messo in ridicolo e avesse danneggiato la loro posizione, almeno non aveva ipotecato per sempre Imola promettendola al Doge.

Così aveva subito scritto a chi di dovere e aveva anche fatto in modo di prendere contatti, seppur indiretti, con il Vescovo di Lodi, Ottaviano Maria Sforza, suo fratellastro, nato postumo dall'unione di suo padre Galeazzo Maria Sforza e Lucia Marliani. Per quanto non la mettesse a suo agio cercarne l'appoggio, aveva capito benissimo quanto quel giovane porporato si stesse imponendo a Roma, e aveva fatto in modo di fargli avere una proposta di mecenatismo, così come a lui piaceva dire, per Galeazzo. Suo figlio si era detto pronto a prendere in mano la situazione e lei, per quanto fosse recalcitrante a separarsi da lui, sentiva quanto fosse giusto e importante permettergli di trovare la sua strada, ancor meglio se quella strada avrebbe riportato il suo stesso sangue a ricoprire un ruolo di potere, come di suo diritto. Aveva quindi fatto sì che Clechi ne discutesse pure con il Cardinale Ascanio Sforza, nella speranza di mettergli al servizio il figlio, ma per ora quel fronte era molto tiepido.

Proprio Clechi, nella seconda delle lettere scritte entrambe il 12 novembre, la metteva a parte anche di alcuni dettagli della politica romana.

Quasi volesse rassicurarla di non aver perso, malgrado tutto, il favore dettato dalle parentele, Giovan Francesco le scriveva del Cardinale Sansoni Riario: 'el quale tutt'oggi è stato nel castello con el Papa perchè se è mutato el castellano e è facto el Castelano el Vescovo de Senigaglia la quale la S.V. Lo deve conoscere, era frate de quelli de Papa Sisto – passando poi a informarla sull'arrivo nell'Urbe di un illustre uomo come Francesco Gonzaga – aviso quella come domane se aspecta qua el marchese de Mantua amalato e a Sermoneta pure non so certo se venerà, ma così dicono li soi'.

Clechi poi le scriveva che il campo francese era sul Garigliano, e che gli uomini del Gonzaga avevano fatto un ponte di barche, ma non sapeva dire se i soldati fossero passati tutti o solo in parte, ed esprimeva anche dubbi sullo stato di salute dell'esercito e sugli esiti della guerra.

'Vero è – decretava Giovan Francesco – che le cose di guerra sempre stanno in dubio e molte volte chi se stima debba vincere perde, ma spero in Dio, deba oramai favorire li fati vostri'.

Ciò che aveva attirato, fin dalla prima lettura, l'occhio di Caterina, però, era stata la chiusura del messaggio.

Le parole di Clechi erano: 'Io ho scripto senza questa 7 lettere a la Signoria Vostra per la posta de Ferrara da che se partito de qua Bachino... conoscerà che io fo la mia diligenza de scrivere e ancora di trovar chi le porta'.

La Sforza, però, non aveva ancora avuto lo spirito di chiedere di preciso dove fosse andato Baccino e perché. Non aveva avuto più risposte da lui, e in un certo senso temeva molto di perderne i contatti senza un motivo preciso. La innervosiva rendersi conto che, malgrado tutto quello che stesse accadendo in Italia e tutti i problemi più seri che avrebbe dovuto affrontare, chiedersi dove fosse il cremonese e perché non le avesse risposto fosse al centro dei suoi pensieri.

Stava ancora rileggendo la parte di lettera in cui si parlava di Baccino, quando sentì la voce di Giovannino dire, strascicata: “Ma non avevo finito le preghiere...”

“Un'altra Ave non ti salverà dallo studio...” lo rimbrottò la balia, per poi cambiare tono nel rivolgersi alla Tigre: “Abbiamo detto tutte le nostre preghiere, alcune più e più volte...”

“Credo che Dio sia abbastanza soddisfatto di te, per oggi.” sospirò quindi la Sforza, facendo cenno al bambino di avvicinarsi e prendere posto alla scrivania: “Adesso vedi di far felice anche tua madre...”

Il compito che si era prefisso Caterina non era difficile: si trattava di poche lettere dell'alfabeto, da insegnare al figlio con immensa pazienza e con l'intento di fargli sembrare divertente quell'esercizio così ripetitivo. Di fatto, però, già dopo una mezzora di infruttuosi tentativi di distinguere agilmente una 'a' da una 'b', la Leonessa si perse di nuovo nei suoi ragionamenti e il Medici cominciò a occhieggiare verso la finestra, dicendo di tanto in tanto che quello sarebbe stato il clima ideale per andare a cavallo o anche per tirare di spada.

Madre e figlio erano incagliati in quell'impasse assonnato, quando Galeazzo arrivò alle loro spalle, porgendo due lettere alla donna: “Una viene da Bologna e l'altra da Forlì. Sono arrivate nello stesso momento, ma per puro caso...” spiegò, con serietà.

“Cattive notizie?” domandò la Tigre, alzandosi e prendendo subito i due messaggi.

Giovannino, intanto, aveva subito posato la penna e attendeva speranzoso, sicuro che il contenuto di quelle missive gli avrebbe, nel bene o nel male, permesso di correre a giocare e disertare quei maledetti esercizi di scrittura.

Pensando che potesse essere più grave la lettera giunta da Bologna – per via delle ultime azioni sconsiderate di Ottaviano, la Sforza partì da quella. Rotto il sigillo, con lo sguardo corse subito alla firma, che era quella della nipote Ippolita.

Lesse in fretta, ma a parte un mezzo accenno alla 'infelix' decisione di Ermes di assecondare Ottaviano nel provare a prendere Imola, si parlava di tutt'altro. Perlopiù erano chiacchiere su Lucrecia Borja, su come non sembrasse molto interessata al nuovo papa, ma piuttosto al passare ogni notte con il marito e, ma forse erano solo voci, ogni giorno a piangere per la lontananza dell'amante. Si parlava anche della Marchesa di Mantova e del parto avvenuto il 13 di quel mese, che le aveva permesso di diventare madre di una bellissima e sanissima bambina che era stata chiamata Ippolita – e di questo la nipote di Caterina si rallegrava scherzosamente, augurando a Isabella che la figlia traesse almeno dal nome uno spirito bellico tale da ricompensarla dal non aver avuto un maschio – e chiudeva sostenendo che l'Este si lamentasse della distanza del marito, al momento a Roma, forse ammalato, solo per non mostrare al mondo quanto fosse felice di non averlo tra i piedi in quei giorni frenetici che seguivano la nascita di un figlio.

“Scommetto che darà la colpa al povero Francesco, per aver avuto un'altra femmina – sentenziò la Tigre, mettendo da parte la missiva e scuotendo tra sé il capo – per lei al mondo servirebbero solo uomini, per fare la guerra, mentre le donne sono solo una fonte di spese, per la dote e per il corredo da sposa... Come se noi donne non fossimo in grado di fare grandi cose, e combattere anche in guerra, se necessario...”

I suoi pensieri si persero in un silenzio attento, quando cominciò a leggere la lettera arrivata da Forlì. Era stata scritta da un suo vecchio partigiano con cui, però, non aveva più avuto contatti dai tempi dell'assedio del Valentino.

L'uomo la informava, senza mezzi termini, che i soldati al seguito di Ottaviano – l'uomo non faceva cenno alcuno al Bentivoglio, forse per via delle insegne dell'esercito che riportavano solo la rosa d'oro dei Riario – avevano invaso le campagne di Bubano e Bagnaria, per poi infierire in modo truce su Mordano, facendo scempio, in particolare delle donne che lì vivevano.

“Vai fuori a giocare.” disse piano Caterina, rivolta a Giovannino, con una voce secca e appena udibile.

Il bambino, rapido come una saetta, lasciò la sedia e corse via prima che la madre potesse per qualche motivo cambiare idea. Galeazzo, invece, rimaneva immobile, intento a decifrare l'espressione della Leonessa.

La Sforza, però, in quel momento non lo vedeva. Davanti ai suoi occhi si stavano riproponendo le immagini dello strazio a cui aveva assistito a Mordano anni addietro. Ricordava benissimo il silenzio innaturale del paese, quando era arrivata, da sola, dopo la strage perpetrata dai francesi. Si ricordava ancora alla perfezione l'odore di morte e le immagini irreali dei cadaveri delle donne di Mordano nella chiesa. Poteva risentire la stessa disperazione attonita che l'aveva colta quella volta e la rabbia che l'aveva portata a staccare il crocifisso dal suo incastro, per vendicarsi perfino su Dio di quel torto orrendo.

Verosimilmente Ottaviano non aveva avuto né l'ardire né la forza trascinante dei francesi, e quindi era probabile che a Mordano quella volta fossero solo state perpetrate violenze e qualche uccisione, insomma, qualcosa di ben differente rispetto a ciò che era stato... Tuttavia Caterina non poteva non fare un paragone.

Poteva ancora sentire il dolore che aveva provato nel rendersi conto che buona parte dell'eccidio era colpa di Giacomo Feo, che aveva peccato di leggerezza, cercando di gestire maneggi politici e bellici che erano stati ben al di fuori della sua portata... E ora Ottaviano faceva esattamente la stessa medesima cosa...

“Leggi anche tu.” disse, spenta, lasciando le lettere a Galeazzo.

Questo scorse in fretta la lettera del forlivese e colse solo a una seconda lettura l'entità di quella notizia. Lui era un bambino, quando c'era stata la prima strage a Mordano, eppure rimembrava benissimo il prete che era arrivato nudo a terrorizzato ad annunciare quanto accaduto e lo stato d'agitazione di sua madre all'epoca e la sua decisione di andare da sola a vedere cosa fosse realmente successo là.

“Per favore – disse a voce molto bassa Caterina – fammi portare del vino in camera da Creobola, se possibile... E lascia detto che nessuno mi disturbi.”

Il Riario annuì e poi, mentre la madre lo superava, non trovando nulla da dire riguardo le ultime novità, provò a percorrere una strada che gli sembrava più sicura, chiedendo: “Devo continuare io la lezione di Giovannino?”

La Sforza si fermò a mezzo passo, accigliandosi, e poi scosse il capo: “Forse è ancora troppo piccolo... Lasciamogli ancora qualche mese... Poi... Poi ci penseremo.” e detto ciò accelerò il passo, con il chiaro intento di non farsi più fermare.

 

Giuliano Della Rovere si era seduto sul letto, con una mano premuta sullo sterno, all'altezza della bocca dello stomaco. Aveva mangiato poco, quella sera, eppure non riusciva a vincere quella sensazione di indigestione che gli impediva di prendere sonno.

Aveva, addirittura, chiesto a Francesco Alidosi – che aveva eletto come suo Cameriere Segreto in modo da non dover spiegare a nessuno il perché della sua presenza nelle sue stanze in piena notte o in altri orari strani – di lasciarlo solo proprio perché lo stato di inquietudine che lo agitava era tale da rendergli impossibile godere della compagnia del suo adorato amante.

Non solo il pontefice non sarebbe riuscito a concentrarsi su di lui, infatti, ma avrebbe anche rischiato di litigarci, perché era talmente intento a seguire le proprie ansie, da non aver alcuna voglia di ascoltare un qualsiasi altro discorso, e Francesco tutto sapeva fare tranne che tacere quando richiesto.

Infilandosi le babbucce di stampo arabo che a volte metteva quando riposava in stanza, l'uomo si alzò dal letto e cominciò a vagare per la stanza buia, inghiottito dalla notte, con il cuore che batteva all'impazzata. Era papa da meno di un mese ed era già stufo marcio di tutti i problemi che la cattedra di Pietro portava con sé.

Alidosi gli aveva detto che doveva essere paziente, che alla fine avrebbe preso il ritmo giusto e che avrebbe imparato a gestire tutte quelle pressioni, ma Giuliano, che ormai per il mondo intero era Giulio II, cominciava a dubitare perfino di se stesso.

Tanto per cominciare, il giorno prima Cesare Borja l'aveva letteralmente stremato continuando a chiedergli un salvacondotto per andarsene da Roma incolume. Gli aveva detto che il Vaticano non gli piaceva più, che da quando Castel Sant'Angelo era diventato proprietà del papa e quindi una possibile prigione per lui – come di fatto era stata per un po' – non si sentiva tranquillo. Voleva che lui gli assicurasse di avere anche da Siena e Firenze un salvacondotto per poter passare indenne dalle loro terre con cento soldati e duecento cavalleggeri, portandosi appresso anche cinquecento o seicento fanti, come nulla fosse.

Gli aveva chiesto anche di far sì che pure l'Alviano gli garantisse la neutralità nei suoi confronti e che Viterbo scordasse i passati incidenti.

Il Della Rovere, a riguardo, era stato categorico. Gli aveva detto che l'avrebbe lasciato andare, ma che se 'quell'andare' avesse causato qualche 'desordene' sarebbe stato il Valentino e solo il Valentino a rispondere dei danni. Questa sua risposta, ritenuta secca dai più e oltraggiosa dal Borja, aveva fatto sì che in Roma si spargesse la voce che il papa, all'improvviso, era diventato nemico di Cesare.

Il Valentino, comunque, non si era perso d'animo e aveva già preso accordi con il Cardinale di Rouen per avere un aiuto e andare in Francia, al sicuro da quei 'folli italiani' che tanto lo stavano ostacolando.

Allacciando le mani dietro la schiena, il papa andò fino alla finestra, ma la notte là fuori era talmente scura da impedirgli di vedere anche solo la linea dell'orizzonte. Riprese a camminare, furioso da un lato e ansioso dall'altro, e ripensò anche ai maneggi dei suoi cugini.

Il Cardinale Sansoni Riario stava facendo un gradissimo lavoro con l'Oratore veneto, fingendosi entusiasta di un possibile avvicinamento tra Venezia e i figli di Caterina Sforza. Quella mossa si stava rivelando molto intelligente, specie dopo l'ultima imbarazzante iniziativa di Ottaviano Riario, che il Doge ormai considerava un incapace da non prendere più in considerazione.

Tutto sommato, in Romagna le cose si stavano raddrizzando comunque. Il fallimento di Ottaviano aveva permesso a Giulio II di prendere in mano le chiavi di Imola e forse a breve avrebbe avuto altre città limitrofe.

Cesena aveva espresso il desiderio di consegnarsi al Vaticano e se Venezia avesse accettato di collaborare di più con il pontefice...

Mentre le campane di Roma battevano le tre di notte, Giuliano prese una decisione repentina. Se voleva davvero fare qualcosa di grande e ricomporre un regno degno di tal nome, doveva cominciare dalle piccole cose.

Vestendosi in modo informale, ma elegante, lasciò la sua stanza a gran carriera e andò a battere la porta del Vescovo di Tivoli, Angelo Leonini, che era stato legato pontificio già per papa Alessandro VI.

Quando questi gli aprì la porta, assonnato e in camicione da notte, il papa gli disse, con il suo vocione tonante: “Dio ha bisogno del tuo operato, fratello mio. Devi andare a Venezia e convincere il Doge a non opporsi più a Cesena, che si vuole donare a noi.”

Il tiburtino, un po' confuso per via del sonno interrotto bruscamente, annuì e chiese al Della Rovere quando dovesse partire.

“Immediatamente.” ordinò Giuliano: “Che Dio ti faccia correre veloce come il vento...”

 

Bona di Savoia quel 17 novembre si sentiva più stanca del solito. Aveva cinquantaquattro anni, ma nel modo di muoversi, lento e studiato, e nello sguardo un po' spento, si poteva vedere l'ombra di una donna molto più vecchia.

Dopo aver lasciato che le sue serve la sistemassero come ogni mattina, era andata alla cappella interna del palazzo di Fossano, dove viveva ormai da anni, e si era ritirata in preghiera. La sua quotidianità era fatta di piccole cose, e le sue giornate e le sue notti si rincorrevano uguali, indifferenti agli affari del mondo.

Di fatto quella in cui abitava era una fortezza, e non solo perché l'edificio militare di base era sempre lo stesso, malgrado fosse stata costruita un'ala più moderna e signorile, delle cantina nuove e un bellissimo cortile con il porticato a colonne di marmo bianco. Il lato nord, dominato ora da una quinta torre in cui erano state sistemate le cucine, i forni e soprattutto i servizi – apprezzati moltissimo da Bona che aveva imparato a curare molto la propria igiene già all'epoca del suo matrimonio con Galeazzo Maria Sforza, che era stato un vero paladino della cura della pulizia personale – aveva da un lato ingentilito il complesso del castello, ma dall'altro l'aveva reso ancora più squadrato e simile a una rocca militare propriamente detta.

Alla Savoia piaceva, però, quel tratto. Le ricordava il castello di Milano e la faceva anche sentire sicura. A volte si era sentita in difetto, perché aveva pensato ai propri figli – anche a quelli del marito nati da Lucrezia Landriani, che, comunque, aveva sempre amato come fossero anche suoi – e si era rammaricata di non aver potuto fare per loro nulla di concreto. La vita le aveva dato il compito di essere la moglie e poi la vedova di un Duca, e forse non ne era stata all'altezza.

Finite le sue preghiere, Bona si era dedicata come ogni mattina a varie attività. Aveva letto, cucito, aveva ascoltato una delle sue serve cantare, e poi aveva pranzato con una zuppa di verdure e un piatto di maccheroni con formaggio, una pietanza che le dava sempre molta soddisfazione, nelle fredde giornate di novembre.

Il pomeriggio, invece, dopo un breve riposo, si era messa a una delle finestre che dava sull'esterno del castello. Le piaceva vedere l'orizzonte e il cielo grigio e pensare a tutte le vite che si intrecciavano fuori da quelle mura.

Non era prigioniera, nessuno le impediva di uscire, eppure lei, quasi dal momento in cui aveva messo piede a Fossano, non si era quasi mai mossa da lì.

Quel giorno la sua mente vagava più del solito, andando oltre le vite dei paesani di Fossano, arrivando a quelle dei suoi figli. Ripensò a ciascuno, con un misto di malinconia e inquietudine, finché la memoria non si fermò sul viso della bambina più bella che avesse mai visto: Caterina.

Posandosi una mano diafano sulle labbra, la donna chiuse un momento gli occhi. Il senso di colpa che aveva provato per lei non se n'era mai andato del tutto. Era rimasto assopito, a volte si era acuito, altre volte ancora aveva trovato conforto, come quando, in un tempo che le sembrava lontanissimo, aveva incontrato di nuovo Lucrezia Landriani e aveva in parte rivisto in lei quella bambina così intelligente e fiera...

Non si era mai perdonata per aver permesso a marito Galeazzo Maria di venderla come una merce di poco valore a Girolamo Riario, eppure non era mai riuscita a fare nulla di concreto per ripagarla di quel torto enorme.

Anche ora, che la sapeva vicino a Firenze, viva e al sicuro, ma tremendamente provata da quello che era stato la sua vita fino a quel giorno, non riusciva a trovare il coraggio anche solo di scriverle per chiederle come stesse o se avesse piacere a rivederla.

Aveva sempre cercato di sapere, a distanza, cosa le stesse succedendo, e aveva pianto moltissimo, quando l'aveva saputa sconfitta dal Valentino, e aveva pregato per lei notte e giorno quando le era stato detto della sua prigionia a Roma... Ma tutto si era fermato lì.

Così come da ragazza aveva accettato placidamente la presenza di un'altra donna – e poi di tante altre, seppur meno importanti – nella vita del marito, così ora accettava in silenzio e con accondiscendenza di non poter far nulla per aiutare le persone che amava.

Lasciando la finestra, raggiunse il suo scranno imbottito, quello che faceva sempre sistemare davanti al fuoco e si accoccolò tra le coperte e i cuscini. Aveva un po' più freddo del solito e anche allungare le mani ossute verso il camino serviva a poco.

Sorrise lentamente, con una sorta di dolce tristezza, pensando a come le stesse diventando tutto difficile. Saliva le scale e doveva fermarsi ogni tre gradini per riuscire a respirare, sollevava un peso modico e doveva farsi aiutare perché le forze non le bastavano... A volte aveva la sensazione che il suo cuore non fosse in grado di battere abbastanza in fretta e abbastanza bene da permetterle di vivere.

“Volete la vostra tisana?” chiese la serva, arrivandole alle spalle.

La donna, rallegrata all'idea del decotto che beveva ormai ogni giorno per ritrovare un po' di vitalità, annuì e disse: “Sei molto gentile. Grazie. Poi farò ancora un breve riposo, perché oggi sono proprio stanca...”

La ragazza sparì e Bona rimase di nuovo sola con se stessa. Ricominciò a pensare a Caterina, ma, stranamente, non erano più i giorni che erano seguiti al matrimonio a ripresentarsi alla sua mente, ma il volto della bambina che era stata. La rivide giocare con i suoi fratelli, studiare con i suoi zii, e lasciarsi coccolare da lei, arrendevole e affettuosa come non era stata mai più...

La Savoia sentiva i piedi un po' intorpiditi, ma diede la colpa al sonno e al tepore che si era creato sotto le coperte. Pian piano socchiuse gli occhi, finché le palpebre non ebbero più la forza di stare sollevate. Il suo respiro si fece più sottile e un leggero sorriso le increspò di nuovo le labbra, e poi, lieve come un refolo di vento, fece un sospiro un po' più lungo del solito e, di colpo, non respirò più.

Quando la serva tornò con la tisana, richiamò l'attenzione della sua padrona, ma Bona di Savoia non poteva più risponderle e nel silenzio della stanza l'unica cosa che si poteva sentire era il pianto sommesso della cameriera che, il decotto caldo ancora tra le mani, si era resa conto che la sua signora non avrebbe più avuto bisogno dei suoi servigi.

   
 
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