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Autore: Orso Scrive    07/04/2024    1 recensioni
Durante la torrida estate del 2022, la Toscana è sconvolta da alcuni misteriosi e brutali omicidi. Omicidi che vedono, come vittime, tombaroli sorpresi a scavare all’interno di antiche sepolture etrusche.
Per questo motivo, il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani vengono inviati a San Gimignano, in provincia di Siena, nel cuore dell’antica Etruria, per indagare sugli strani avvenimenti.
Riusciranno Alberto e Aurora a fare luce su questo nuovo caso, che affonda le sue radici ai tempi della guerra tra Roma e gli Etruschi, e forse a tempi ancora più remoti?
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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11.

 

 

 

Il nome Salone della Venere era decisamente azzeccato.

Che razza di posto.

Alberto Manfredi ne aveva viste tante, di cose strane.

Qualcosa del genere, però, gli era del tutto inedito.

Antiche statue di varia foggia della dea dell’amore, in tutte le sue differenti incarnazioni – Venere, Afrodite, Ištar, Astarte, Iside, la Dea dei Serpenti di Creta, la Grande Madre neolitica e numerose altre – lanciavano languidi sguardi ai visitatori, dall’alto di piedistalli che rendevano ancora più alti e slanciati i loro corpi fatti di grazia e armonia.

Qua la dea era raffigurata a braccia aperte, in segno di benevolenza; laggiù con gli arti abbandonati languidamente lungo i fianchi; in una nicchia era colta nel gesto di rovesciarsi addosso un catino d’acqua oppure, con un’espressione di imbarazzo sul volto, un po’ defilata era intenta nell’atto di coprirsi con le mani le nudità. Se qui era coperta da sontuose vesti, là non c’era nulla a celare l’armoniosa bellezza delle sue forme.

In altri casi era sdraiata, raggomitolata su stessa oppure pronta a tendere le braccia per accogliere qualcuno tra i suoi caldi abbracci. E la dea di Creta, rivestita con un lungo abito variopinto che le lasciava scoperto il seno voluttuoso, sollevava le mani, tra cui stringeva serpenti che, seppure immobilizzati nella terracotta, sembravano contorcersi ed emettere sibili.

Oltre alle statue, c’erano anche affreschi e mosaici molto antichi, inseriti in cornici di legno per poter essere appesi.

Scommetto che ci sono un mucchio di chiese e di siti archeologici che piangono i loro tesori perduti, pensò Alberto, mentre ammirava quella collezione senza uguali. Sentì crescere dentro di sé lo sconforto all’idea che, per quanto si fosse sempre dato da fare, i beni culturali trafugati e celati nelle mani di qualche farabutto sarebbero stati sempre troppi.

Decise di non pensarci. Non era il momento adatto per lasciarsi vincere dalla rabbia, che lo avrebbe potuto condurre a gesti sconsiderati e inutili.

Per mantenersi calmo, si concentrò sugli affreschi e sui mosaici.

Anche quelle opere erano dedicate alla dea.

Su una parete era rappresentata mentre amoreggiava con Adone ai piedi dell’albero della mirra; su quella subito di fronte, era imprigionata nella rete magica del marito Efesto, insieme all’amante Ares. In altri punti della sala appariva sdraiata con aria indolente all’interno di una conchiglia, circondata da delfini e Amorini, o ancora mentre emergeva dalla spuma dell’onda marina.

In un angolo, impreziosito da alcune palme in vaso, eccola nei panni di Iside con il sistro tra le mani, mentre si dirigeva alla volta del Libano alla ricerca del feretro del marito Osiride; poco discosta, la dea si mostrava mentre concepiva magicamente dalla mummia del compagno morto il figlio Horus, destinato a vendicare il padre.

A completare la collezione erano i quadri. Decine di quadri. Gli occhi esperti di Alberto e di Aurora li valutarono in fretta, senza esitazione.

Un vero e proprio capitale su tela.

Pezzi autentici, constatò Manfredi. Mi basterebbe vendere anche solo uno di quegli affari e sarei sistemato per il resto della vita. Mi compererei una casetta ai Caraibi, acquisterei una barchetta e addio Italia. E porterei Aurora con me, su questo non ci piove.

Era un vero e proprio assortimento di dipinti di maestri di varie epoche. Opere meravigliose, che spaziavano dal Rinascimento fino al Novecento. Anche in quel caso, il soggetto era sempre il medesimo, la dea Afrodite, o Venere, o comunque la si volesse chiamare.

Di volta in volta, la si poteva vedere nei panni di una ricca signora della nobiltà toscana, di una giovane contadina, o ancora come una regina o una schiava: qualsiasi forma potesse assumere la divinità, era lì presente, documentata dalla mano abile ed esperta dei più grandi artisti. Miti tra i più conosciuti e storie mai udite avevano preso vita sulle tele e sulle assi dipinte.

Questo tizio deve essere maniaco, oltre che pazzo.

Manfredi, di collezioni private e illegali, ne aveva viste tante. Ma mai così grandi e dedicate a un unico soggetto.

La dea della fertilità. Il pelatone ne è davvero ossessionato. Chissà poi che cosa ci trovi, nella dispensatrice della vita, un simile assassino.

Rakovac, camminando con passo lento, le mani sempre intrecciate dietro la schiena, si avviò lungo quella galleria di capolavori, lanciando lunghe occhiate appassionate di qua e di là. Sembrava che fosse un innamorato che osservava la sua amante. Colto da un’emozione dopo l’altra, quasi dimenticava di respirare, e doveva prendere profonde e rauche boccate d’aria per tornare a ossigenarsi.

Aurora e Alberto, sempre guardati a vista dai due silenziosi scagnozzi che camminavano alle loro spalle con le mani appoggiate sulle mitragliette, lo seguirono, gettando sguardi fuggevoli a tutte quelle opere d’arte.

«Questo è il mio luogo dell’anima», rivelò il malvivente, con aria trasognata. La sua voce, adesso, era poco più che un sussurro. «Quando entro in questa sala, la pace dei sensi si infonde nel mio spirito e posso dimenticare tutte le iniquità del mondo, come se nemmeno esistessero.»

Il sottotenente, che stava fissando una statua scolpita in marmo giallo antico, spostò lo sguardo su di lui.

«Più della metà dei pezzi che c’è qui dentro è rubata», sbottò, incapace di resistere oltre. «Dovrebbero riempire le teche di un museo per il bene di tutti, non una collezione privata per gli occhi di un avido mercenario senza cuore! E non si metta a parlare di iniquità, dal momento che lei fa parte di quella razza schifosa che contribuisce a crearle.»

Manfredi deglutì amaro. Poté quasi vedere Rakovac estrarre la pistola, voltarsi in maniera subitanea con il volto contratto dall’ira e farli fuori entrambi senza pensarci due volte.

Era finita.

Era durata troppo a lungo.

Però, dai: non aveva troppi rimpianti. Vita breve ma intensa, tutto sommato. Niente di cui lamentarsi... almeno, non di troppe cose. E se ne sarebbe andato insieme all’unica donna per cui avesse mai sentito qualcosa di davvero grande e profondo. Certo, gli dispiaceva non aver potuto realizzare il suo sogno segreto di andarsene a vivere in una località calda e umida, in cui trascorrere la vecchiaia, ma in fondo non si po' avere mica tutto, nella vita.

Invece, l’uomo si limitò a una risatina docile e delicata, come se stesse educatamente ridendo di una battuta di spirito.

«Mio caro sottotenente Bresciani, lei mi lusinga con le sue dolci paroline», commentò, senza voltarsi. «Lei non ha solo la bellezza di Venere, bensì anche la sua forza e il suo spirito combattivo. Mai, nemmeno nei miei sogni più profondi e segreti, avrei potuto immaginare che, un giorno, avrei passeggiato qui dentro in compagnia della reincarnazione di Ištar, la dea dell’amore e della guerra, voluttà e potenza fuse insieme.»

Aurora non seppe che cosa replicare. Con la coda dell’occhio, Alberto fu certo di averla persino visto arrossire.

Ma che, è diventata rossa per l’imbarazzo? È la prima volta che succede, ne sono certo!

Di solito, quando era paonazza, era perché stava per scoppiare di rabbia oppure perché aveva appena finito di fare a botte con qualcuno. Certo, non doveva mai esserlo diventata per un complimento, o presunto tale.

Incredibile.

Rakovac continuò a procedere, fino a fermarsi davanti a una piccola tavola di legno dipinta, che si trovava appesa tra due colonne di marmo bianco, sapientemente illuminata da faretti alogeni che ne mettevano in risalto ogni più piccolo particolare.

Sulla tavola era raffigurata la dea Venere che, camminando lungo un litorale punteggiato di conchiglie e stelle marine, alle spalle un paesaggio marino poco definito, scostava con un gesto indifferente i lunghi capelli biondi che le arrivavano fin sotto la vita, mettendo in mostra senza pudore ogni parte del suo corpo completamente nudo. Il volto della dea, di una purezza quasi eterea, fissava con occhi lievemente strabici lo sguardo dell’osservatore, come se lo invitasse a non avere timori nel lasciarsi catturare dalla sua bellezza allo stesso tempo ordinaria e disarmante.

Nel vederla, Alberto si lasciò sfuggire un gemito e Aurora si morse il labbro inferiore. Gesti che non sfuggirono di certo a Rakovac, che li stava scrutando di sottecchi. Quando si girò per fissarli negli occhi, sorrideva ancora, ma nella sua espressione c’era anche qualcosa di differente, come un beffardo sogghigno di trionfo.

«Sì, sapevo che stavate cercando proprio questa, e ci tenevo a mostrarvela di persona», disse, con un sottile filo di voce. «La Venere Impudica di Sandro Botticelli, una delle poche opere a carattere mitologico sopravvissuta alla furia iconoclasta di cui divenne preda il suo stesso artefice. Uno dei pezzi più pregiati e preziosi della mia piccola collezione, il mio preferito.»

Alberto, che fino a quel momento aveva cercato di essere conciliante, non fu capace di trattenersi oltre.

«Quel quadro è stato trafugato dall’Italia!» gridò. «Lei non ha nessun diritto di tenerlo per sé!»

Non fu sorpreso di scoprirsi a tremare da capo a piedi, mentre il cuore gli batteva all’impazzata nel petto. Probabilmente, se non avesse avuto le mani bloccate dalle manette, avrebbe gettato al vento ogni precauzione e avrebbe aggredito quell’uomo con calci e pugni. Di certo non sarebbe durato più di un minuto. Ma fargli un occhio nero avrebbe voluto dire togliersi una grossa soddisfazione.

Rakovac continuò a sorridere. Un sorriso davvero spaventoso. Sarebbe stato molto più semplice affrontare un uomo iroso e trasfigurato dalla rabbia.

«Questo quadro è mio», sentenziò, con un tono che non ammetteva repliche. «Come potete ben vedere, fa parte della mia collezione privata dedicata alla Grande Madre. Si tratta dell’antica divinità mediterranea da cui, nel tempo, sono scaturiti tutti gli dèi. Gli stessi dèi che, nei secoli, ne hanno soppiantato il culto, pur non riuscendo a cancellarne del tutto il ricordo, che perdura ancora oggi, come per esempio nel culto della Vergine Ma…»

«Ci risparmi le lezioni di teologia, per favore!» borbottò Aurora, esasperata, interrompendolo. «Il fatto che lei si dimostri uno scimmione più colto di quanto si potesse pensare non le dà il diritto di possedere oggetti rubati, e neppure di tenerci prigionieri!»

Lo sguardo di Rakovac la studiò con attenzione, scivolando con lascivia lungo le sue forme, per posarsi infine sul suo volto e sui suoi occhi dalle strane sfumature verdi, di cui sostenne lo sguardo senza difficoltà.

Alberto non ricordava di aver mai visto qualcuno resistere tanto facilmente davanti a quegli occhi. Quando Aurora voleva qualcosa da lui, le era sufficiente squadrarlo per poco più di quattro secondi e mezzo per costringerlo a cedere di fronte a ogni richiesta.

«Più la guardo, sottotenente Bresciani, e più mi convinco che lei debba essere la reincarnazione della Grande Madre», sussurrò.

Alberto sussultò per la sorpresa.

Il pelatone lo ha detto di nuovo.

Quell’uomo era una specie di enigma vivente.

Ad Aurora, per la seconda volta in pochi minuti, si imporporarono le guance. Per quanto fosse abituata a ricevere complimenti d’ogni sorta da parte di uomini sfacciati che pensavano fosse una cosa semplice provarci con lei e indurla a fare ciò che desideravano – una lezione di vita per tutti loro, che immancabilmente si trovavano con qualche costola incrinata, quando si facevano troppo audaci e presuntuosi – mai nessuno, prima di quella notte, si era spinto al punto di paragonarla persino a una divinità.

Forse per vincere l’imbarazzo che quella frase aveva generato, e non essendo affatto abituata a sfidare un uomo con gli occhi per più di cinque secondi senza che quello avvertisse la necessità di abbassare lo sguardo per ammirarsi i piedi, la giovane donna sentì l’immediato bisogno di replicare con qualcosa di sferzante. Potevano averle immobilizzato i polsi, ma la lingua ce l’aveva ancora libera.

«Perfetto: oltre che un mercenario sanguinario, lei è pure pazzo!» disse, con tono aspro. «Siamo proprio messi bene.»

Alberto cercò il suo sguardo, sperando di indurla a non aizzarlo inutilmente, ma lei proseguì imperterrita, ormai incapace di fermarsi.

«Dica, ha già deciso che cosa intende farne di noi?» domandò, dura e sarcastica, ma per niente spaventata. «Intende calarci in una fossa piena di alligatori? O scioglierci vivi nell’acido?» Si guardò attorno, adesso disgustata da tutte quelle immagini divine. «O pensa, magari, di offrirci in sacrificio alla sua beneamata dea, strappandoci dal petto il cuore ancora palpitante?»

Manfredi avrebbe tanto voluto dirle di tacere.

Non dargli suggerimenti, pensò. Cercò di urlarsi nella mente. Magari tra loro esisteva davvero qualche connessione telepatica, chi poteva dirlo…

Mentre aveva ascoltato tutto il resto con un sorrisetto ad arricciargli le labbra, quell’ultima domanda parve colpire profondamente Rakovac, che assunse un’aria contrariata. Si sfilò gli occhiali da sole per guardarla meglio. I suoi occhi azzurri e tendenti al grigio erano divenuti glaciali come lastre di ghiaccio.

«Non le permetto di fare simili basse insinuazioni sulla Grande Madre, sottotenente Bresciani», disse, con la voce ridotta a una specie di ringhio. «La dea del Mediterraneo era una divinità della fertilità e della vita, non della morte! Nessuno avrebbe mai potuto osare di offrire morte e dolore a colei che concepì nella propria mente superiore la vita e il piacere. Sarebbe stata un’empietà!»

Resasi conto di averlo punto sul vivo, Aurora decise di insistere.

«E lei, signor Rakovac?» sussurrò. «Lei è per caso il dio della morte? Si circonda di tutte queste immagini per bilanciare la sua smania di sangue?»

Non aizzarlo, non aizzarlo, non aizzarlo…

Lo sguardo di Rakovac si mantenne glaciale. Le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla. Aurora sussultò, ma non si ritrasse. Alberto deglutì a vuoto: se quell’uomo avesse osato torcerle un capello, sarebbe scattato in avanti e le mani bloccate o le mitragliette dei due tirapiedi non gli avrebbero impedito di prenderlo a calci.

Ma Rakovac non fece nulla di male.

Si limitò ad allungare l’altra mano, per sfiorarle con delicatezza le guance e i capelli, con una leggera carezza. Sul viso del malavitoso, parvero inseguirsi emozioni diverse e contrastanti. Aurora, irrigidita, lo fissò, respirando in fretta e mordendosi le labbra, quasi ansiosa di scoprire fin dove si sarebbe spinto.

Rakovac non fece nulla di più. Con il respiro corto, si scostò da lei e tornò a infilare gli occhiali da sole. Nel farlo, il suo volto squadrato tornò bonario e gioviale come era stato fino a pochi minuti prima.

«Non dovete prestare fede a tutto ciò che si racconta su di me», disse. «La gente è sempre pronta a dire malignità sul proprio prossimo. Dal momento che non possono nascondere la loro cattiveria, ingigantiscono quella altrui. Riconosco che, per arrivare a certi livelli, siano necessari metodi spicci. Ma non sempre ciò che si racconta è vero. Non ho mai visto un barile di acido in vita mia.» Notò i loro sguardi disorientati e annuì. «Sì, so quello che si dice. Ma a me il pop-corn non è mai piaciuto: mi si incastra tra i denti e mi dà un gran fastidio. Ho le gengive sensibili, sapete. Mi si irritano facilmente.»

In quel momento, la ricetrasmittente di uno dei due uomini della scorta gracchiò lievemente. L’uomo la prese, ascoltò la comunicazione e sussurrò una breve risposta in croato. Poi, alzato lo sguardo verso il suo capo, disse qualcos’altro, che i due carabinieri non compresero.

«Benissimo», replicò Rakovac. Poi, battendo le mani, tornò a rivolgersi ad Aurora e ad Alberto. «Che ne dite di andarci a prendere qualcosa da bere insieme? Il mio bar privato è piccolo, ma molto ben fornito. Saremo in buona compagnia, ve lo assicuro: i vostri amici sono stati tanto gentili da accettare di unirsi a noi.»

 

 
   
 
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