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Autore: insiemete    13/04/2024    0 recensioni
Scappare è solo il preambolo di chi vuole vivere una vita che non vale la pena d'esser vissuta.
Per tutto l'arco della sua vita Meadow era stata assolta dalle sue malefatte, qualcuno pagava al posto suo e lei poteva continuare a vivere come se niente fosse. A vent'anni si trovava a gestire così tante situazioni che nemmeno suo padre, uno dei miliardari più importanti del paese, l'avrebbe aiutata.
Costretta a cambiare per non perdere il secondo anno di università, Meadow si ritrovò a fare conoscenza con un ragazzo che l'avrebbe ben presto conquistata ma che nascondeva dentro di sé un grande segreto che, rivelato, l'avrebbe spezzata.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per tutta la settimana successiva arrivai un quarto d'ora prima dell'inizio delle lezioni. Mi vestivo con i miei abiti migliori e pettinavo i capelli biondi in una coda alta ripassata con del gel. Cercai tutte le mattine di andare a correre e, con molta fatica, ci riuscii. Non feci più tanta strada come il primo giorno, anzi, mi limitai a fare il giro del campus un paio di volte.

E proprio in una di quelle mattine, mentre scendevo a piccoli passi la scalinata che congiungeva il dormitorio alla strada principale, quel ragazzo mi sorpassò. Correva disinvolto, le braccia a penzoloni sui fianchi e il viso che guardava qualche punto impreciso di fronte a sé. Ero abbastanza sicura che mi avesse notata con la coda degli occhi, ma fece finta di niente e allungò il passo. Indossava una semplice canotta nera e dei pantaloncini di cotone color tortora. Mi domandai come facesse a sopportare le mattinate gelide del New Hampshire.

Ebbi l'impulso di seguirlo, mi resi conto di aver preso velocità e di star percorrendo una strada che non ero solita fare. Quasi fossi una falena attirata dal minimo barlume, stetti al suo passo. Non saprei dire perché mi comportassi così. Non ero solita a inseguire le persone, ma quel ragazzo mi aveva intriso i pensieri per tutta la settimana e volevo mettere a tacere le domande nella mia testa. Svoltò così tante volte che pensai d'essermi persa e più passava il tempo più sembrava che i suoi piedi accelerassero. O forse ero io a rallentare.

Alla fine cedetti, mi piegai sulle ginocchia e spalancai le braccia dietro la nuca. Inveii dentro di me e feci scorrere la zip della felpa. Varie goccioline di sudore nacquero dalla fronte e morirono sull'asfalto. Sconfortata, intrapresi la strada più corta per tornare a casa.

Così, lo cercai per il campus. Arrivai sempre per prima in aula, preferii la mensa alla cucina della confraternita, andai più spesso in biblioteca e frequentai gli spazi comuni. Assistetti addirittura a una partita di lacrosse e a una di hockey su ghiaccio. Eppure non lo vidi mai. Sembrava sparito.

«Non è strano che la persona più chiacchierata del campus sia anche quella meno vista? Pure i Senior parlano di lui.»

La voce di Mina portò di nuovo la mia attenzione sul duo.

«Voglio dire, fai tutto quel rumore... quella sceneggiata davanti alla signorina Folie per poi andartene? Hai appiccato un incendio e ora come lo terrai vivo?»

Will annuì tutto il tempo. «Insomma, se getti il sasso poi non vai a nascondere la mano.»

Mina frugò dentro la cartella per qualche istante e infine estrasse una piccola scatola di latta laccata d'oro. Sul coperchio vi era un bellissimo disegno di un ciliegio in fiore. «Mangiate pure» esclamò sorridendo.

Will aprì il contenitore liberando un dolcissimo profumo di fragole.

«Vi ho preparato dei daifuku,» prese due fazzoletti dalla tasca e li aprì sul bancone, «in Giappone sono considerati dei portafortuna.»

Ne agguantò uno in mano, il rosso acceso del frutto contrastava nettamente il bianco latte della pallina di riso, e lo appoggiò davanti a Will. «Questo perché bramo che domenica la tua squadra vinca contro Harvard.»

Poi passò a me. «E questo perché non voglio che tu te ne vada.»

Sorrisi e una lacrima di commozione rigò il mio zigomo sinistro. Strinsi la sua esile figura tra le mie braccia e le sussurrai più e più volte «grazie» all'orecchio.

Avevo raccontato a entrambi la situazione con il professor Dell e nonostante in quel momento non me l'avessero detto, sapevo che erano preoccupati per me.

Sentii un paio di braccia avvinghiarsi attorno al mio corpo e notai che Will si unì all'abbraccio. Eravamo incastrati perfetti, come pezzi del più complicato puzzle. La mia testa sulla spalla di Mina, quella di Mina sulla spalla di Will e Will appoggiato su di me. Rimanemmo così ancora per qualche istante e ci slegammo solo perché Will voleva prepotentemente assaggiare il dolce.

«È così bello che devo fare qualche foto!» Sbloccò il cellulare e fece diversi scatti da ogni angolazione. «Le metterò su Instagram.»

Mina rise e gli schiaffeggiò dolcemente la spalla. «Mangia su.»

Addentò un pezzo e la confettura di fagioli rossi gli scivolò sui pantaloni. «Buonissimi,» pronunciò, facendo un cerchio con il pollice e l'indice, «me ne fai altri?»

«Pensa alla macchia prima» rispose Mina, guardando la chiazza rossa che aveva sul cavallo dei pantaloni.

Will mandò giù il dolce in un sol boccone e prese a strofinare con un fazzoletto la tela dell'indumento. Non fece altro che allargare la macchia. «Merda, sembra che stia sanguinando.»

Una piccola risata scappò dalle mie labbra.

«Sei un disastro,» disse la ragazza, bloccando la mano del biondo prima che peggiorasse la situazione, «vieni con me.» Lo prese per mano e mi disse che sarebbero tornati subito, appena si fosse tolta la chiazza. La lezione cominciò e aspettai che i miei amici tornassero, ma loro, quel giorno, non si fecero più vedere.

Il venerdì era il mio giorno di riposo. Finalmente mi trovavo libera dai corsi e potevo prendere una boccata d'aria. Oltre a ciò, era anche il giorno del tè con la zia. Avevamo preso quest'abitudine l'anno scorso, e da allora ogni venerdì alle cinque di pomeriggio ci trovavamo a sorseggiare del buon infuso alle erbe nella pasticceria appena al di fuori del campus. Zia Mary mi venne a prendere con l'auto e in meno di cinque minuti avevamo parcheggiato di fronte all'entrata del locale. Il porticato bianco assorbiva gli ultimi raggi della giornata e si colorava leggermente di giallo. Ci accomodammo all'esterno, su due seggiole di ferro dallo schienale decorato divise da un piccolo tavolo rotondo.

«Allora, come è andata questa settimana?» chiese, mentre aspettavamo che la cameriera prendesse le nostre ordinazioni.

«Bene direi,» affermai, stringendomi nella mia giacca di lana, «è stata un po' pesante.»

Mi scrutò attentamente, quasi come volesse leggere tra le parole qualche verità nascosta. Appoggiò la borsa di pelle sopra il tavolo e cercò qualcosa dentro.

La guardai con curiosità e quando posò una lettera bianca sotto il mio naso, domandai sorpresa. «Cos'è?»

«Qualcosa che se ti avessero detto a parole, non avresti sentito.»

La aprii meticolosamente, una leggera pressione del dito e la carta si incavava all'interno. Mi bastò leggere il nome in alto a sinistra per accartocciarla e lanciarla sul pavimento. «Non mi interessa.»

«Lo so. Nemmeno a me. Però dovresti comunque andarci» aggiunse sospirando, sapevo bene che quelle parole le costassero fatica. Si stava comportando da donna matura ma anche lei provava le mie stesse emozioni.

«No.»

Prima che potesse soggiungere altro, la cameriera ci sorrise. Estrasse un taccuino dal grembiule e scrisse la comanda. Quel giorno mia zia optò per due tè al cedro e una tarte tatin da dividere.

«Ripeto, lo capisco. Ma è importante per tuo padre.»

Sbuffai, incrociando le braccia al petto e scendendo con la schiena contro la spalliera. «Ho detto di no. Non ci vado, non mi interessa.»

Forse mi stavo comportavo in modo infantile, ma dell'azienda me ne importava meno di zero. Papà aveva cercato invano di farmi inserire nel consiglio di amministrazione e io ogni volta rifiutavo.

«Un giorno questo impero sarà tuo, solo tuo. Come lo gestirai?» diceva a tavola, mentre addentava un pezzo di filetto alla Rossini. Le posate d'argento tintinnavano contro la finissima porcellana mentre affondava il coltello nella carne succulenta.

«Lo venderò» rispondevo semplicemente, ingurgitando una cospicua forchettata di spaghetti. Volevo altro. Non sapevo esattamente cosa, ma sicuramente non quello. Volevo qualcosa di sconvolgente.

Mia zia prese un lungo sorso dalla tazza decorata con fiorellini. Masticò anche un pezzo di torta e si pulì dalle briciole con un fazzoletto di seta. «È anche il suo compleanno» aggiunse dopo attimi di silenzio.

L'avevo dimenticato. Presi il cellulare e guardai la data sul display: mancava solo una settimana. Mi maledii mentalmente e dalle mie labbra uscì un sospiro. Mi allungai sul tavolo e ripresi la lettera, la liberai dalla busta e cominciai a leggerla.

"Alla mia stella luminosa,

spero possa avere l'onore d'esser accompagnato alla festa aziendale dalla persona che amo più al mondo. Sei il regalo più bello mai capitato e più passa il tempo più mi convinco che tu sia l'unica persona che vorrei al mio fianco per sempre."

Il mio cuore prese man mano battiti e dovetti comprimere le labbra per non piangere in un luogo pubblico. Rilessi più e più volte quelle poche righe e cercai di convincermi che avesse ragione. Dopo tutti i problemi che gli avevo causato, dopo tutte le litigate che avevo scaturito per il motivo più banale... papà teneva a me, forse anche più di prima. Mi sentii ancora più colpevole e allo stesso tempo anche più determinata. Volevo che i suoi pensieri fossero veramente reali, che non fossero una bugia mascherata dall'amore. Quindi, fui persuasa a continuare il mio percorso di cambiamento. Avevo deciso di non far più male a nessuno e avrei cominciato con lui. Non l'avrei più ferito.

Mia zia mi guardava con comprensione, la testa inclinata verso la spalla e gli angoli della bocca rilassati verso il basso. Gli occhi scuri e l'ombretto blu che ti scrutavano l'anima come fossi interrogato per aver commesso il crimine peggiore. E io l'avevo commesso. Incalcolabili le occasioni. Avevo tradito la fiducia di chi mi amava innumerevoli volte.

Annuii con la testa. «Come potrei mancare» dissi.

Sorrise e sentii lo stomaco ardere. Era quella la sensazione che si provava dopo aver preso una scelta giusta?

 

  
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