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Autore: _Frame_    14/04/2024    0 recensioni
[Pre-Canon]
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Valentina Milani è una ragazza come tante, una su un milione. Una inguaribile pigrona, golosa di pasta e gelato, solare e chiacchierona, anche se un po’ frivola, appassionata di meccanica e di motociclette, e affezionata ai suoi due migliori amici d’infanzia. Nata e vissuta nel piccolo paese di Portorosso, circondata dalle solite strade, le solite facce, il solito mare, le solite tradizioni, le solite leggende sui Mostri Marini, ha sempre sperato in una qualche novità in grado di stravolgere la sua vita e di strapparla a una quotidianità che ormai le calza sempre più stretta.
L’arrivo in paese di un giovane straniero potrebbe esaudire questo suo desiderio e cambiare per sempre non solo il corso della sua vita, ma anche l’intera visione del mondo che l’ha sempre circondata.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
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Dunque era vero – Atto III

 

 

Correre risultava difficile con gli abiti pregni di acqua piovana a pesarle sul corpo in affanno, ma in qualche maniera Valentina riuscì ad attraversare il paese, a saltare dai gradini dei carruggi, e a raggiungere il vicolo che portava alla stazione. Il petto le scoppiava di fatica, i piedi bruciavano per lo sforzo e spremevano acqua dai stivaletti a ogni falcata. A ogni sbuffo, i capelli sventolavano e s’incollavano alla faccia fredda e fradicia su cui il diluvio continuava a grondare, a rotolare dietro le orecchie, lungo il collo, e a scivolare sotto la stoffa dell’abito. Valentina strusciò una manata sulle guance, raschiò via una frustata di capelli gocciolanti, sputacchiò le gocce di pioggia che continuavano a rovesciarsi abbondanti e prepotenti su di lei come se si fosse trovata sotto il getto della doccia.

Individuata la scalinata al termine del vicolo, Valentina allungò un paio di falcate più lunghe – lo sforzo così improvviso, come uno strappo, le fece esalare una gonfia nuvoletta di fiato bianco –, e scavalcò i gradini che conducevano alla piattaforma del binario. Ciaf, ciaf, ciaf! – schiaffeggiarono i suoi stivaletti a ogni rimbalzo. Valentina socchiuse le ciglia annacquate, aguzzò la vista attraverso la nebbia grigia, qualche filo di capelli scivolato fra le palpebre, e rivolse lo sguardo al cielo. Riconobbe le lamine delle tettoie color rame, la ringhiera che confinava con la terrazza che dava sulla vista del mare, ma ancora non scorse alcun pennacchio di vapore, nemmeno la sagoma lunga e nera della locomotiva grufolante, né il suono delle rotaie che vibravano al passaggio del treno, o il risucchio della galleria che inghiottiva la corsa dei vagoni.

Un luminoso raggio di speranza crepò i nuvoloni di maltempo. Era ancora in tempo? Il treno non era ancora arrivato? Oppure era già partito? Se fosse già partito, se Valentina non avesse fatto in tempo, se il treno avesse già portato via Bruno…

Oh, ti prego…

Valentina invocò quella preghiera sentendo un artiglio di dolore strizzare il cuore in uno spasmo.

Ti prego, ti prego, ti scongiuro.

La banchina della stazione si allungò seguendo la parete di pietra arrampicata sull’altura del monte. Nell’avvicinarsi, Valentina continuò a pregare. Ansimò umide nuvolette di fiato che scivolarono disperdendosi verso l’alto, del tutto simili all’incenso della chiesa. Sperò che la voce del suo cuore potesse raggiungere un qualcuno di misericordioso, un’orecchia celestiale che potesse udirla e accontentare quel suo unico desiderio.

Ti scongiuro, non portarmelo via.

I suoi occhi si appannarono, inondati da un’acqua tiepida che bruciava ben più della pioggia. La vista sfocata di grigio delineò l’ambiente familiare che si aprì sul binario della stazione attraversato dalla griglia dei binari.

Fa’ che sia ancora qui.

A raggiungerla per prima non fu il profilo di Bruno, ma la macchia ovale dell’ombrello che gli offriva riparo. Una bolla blu che galleggiava nel grigio del diluvio, circondata da una vibrante nebbiolina di gocce di pioggia che rimbalzavano sul telo per poi grondare ai piedi della persona che stava impugnando il manico. Bruno era lì in piedi, fosco ed evanescente come un miraggio, come il ricordo di un sogno. L’unico viaggiatore in attesa nel binario deserto. Una semplice valigia di cuoio poggiata ai suoi piedi, le sue scarpe sfondate, i soliti vecchi abiti troppo larghi e sbiaditi su cui quel giorno aveva indossato una giacchina scamosciata fin troppo leggera per la stagione. Teneva la schiena voltata. La mano scura e incerottata reggeva l’impugnatura dell’ombrello che lo nascondeva dalle spalle in su.

Quell’apparizione abbagliò gli occhi di Valentina come il lampo di un miracolo. Era la sua preghiera che si realizzava. Un sorriso dorato le illuminò lo sguardo. Il peso dell’ansia si sciolse dal cuore, spanse una gioia e un sollievo tali da commuoverla, da darle l’impressione che il sole fosse sorto al di sopra delle nuvole anche in una giornata piovosa come quella.

Bruno…

Dapprima, Valentina continuò a correre e a sorridere. Ce l’ho fatta. A sorridere con un tale ardore da sentire male alle guance. È ancora qui, sono ancora in tempo, sono… Incazzata nera, ecco cos’era!

Una violenta vampata di rabbia gorgogliò fra i denti e le abbrustolì la fronte e le guance. La dolce carezza di calore e sollievo che poco prima le aveva attraversato il cuore s’incenerì in una tuonata d’ira che le fece lampeggiare gli occhi e fischiare le orecchie.

Valentina arrestò la corsa strusciando una frenata improvvisa sul ciglio delle rotaie che la separavano da Bruno. Strizzò i pugni freddi e gocciolanti, inspirò forte risucchiando il bruciante sapore della pioggia, e sprigionò il suo grido più feroce, «Bruno Scorfano!», tanto impetuoso che rimbombò fino alla piazza, fino alla cima del Monte Portorosso, fino in fondo al mare, fin sopra le nuvole che avrebbero potuto pietrificarsi e così interrompere il rovesciarsi del diluvio.

La pioggia non si fermò. Continuò a cadere, ad allargare le pozzanghere sul cemento e a scrosciare sulle lamine della tettoia, ma l’urlo di Valentina attraversò il binario, raggiunse le orecchie di Bruno facendogli compiere un piccolo rimbalzo da sotto l’ombrello.

Bruno s’impietrì, scosso da quell’eco che doveva avergli strappato il fiato dalla bocca, come un manrovescio. Strusciò a terra la punta di un piede e si girò di profilo, inclinò leggermente l’ombrello e fece sbucare lo sguardo stordito da sotto i riccioli che cadevano folti sulle guance, toccandogli le labbra socchiuse in un sospiro di stupore che rimase sospeso in quel modo, «Tina?», in una bianca nuvoletta di fiato. Un lume di stupore fissò un punto di luce nelle profondità dei suoi occhi grigi dentro i quali erano raccolti tutti i liquidi riflessi di quella pioggia che gli gocciolava attorno, cadendo e disfandosi come tante file di perle trasparenti lasciate scivolare dalle punte dell’ombrello. «Ma cosa…» A quel sospiro di sollievo seguì una ruga infastidita, un cipiglio che gli stropicciò la fronte rendendo la sua espressione buia e contrariata. «Cosa ci fai qui?»

Valentina ingoiò un affanno dietro l’altro. La gola graffiata dal fiatone, il petto dolorante per i continui sobbalzi, il picchiettare della pioggia a scottarle le guance, e qualche fastidiosa ciocca di capelli ancora incollata alle labbra umide e rigonfie. «Io?» Raccolse una manciata di ciocche bagnate e le frustò lontane dalla guancia. Aggrottò la fronte, sfoderò un truce sguardo di minaccia nei confronti di Bruno. Uno sguardo che avrebbe potuto far evaporare ogni singola goccia di pioggia. «Cosa ci fai tu qui, semmai.» Compì un passo in avanti – splash! – calpestando una delle pozzanghere che avevano maculato la banchina. «Cosa credevi di fare, eh? Prendere baracca e burattini e sparire da un giorno all’altro? Andartene via così, senza dirmi niente?» Gli occhi si annacquarono di un calore diverso. Il calore delle prime lacrime che bruciarono sgorgando dalla ferita che le aveva lacerato l’animo nel momento stesso in cui aveva saputo della sua fuga. «Senza nemmeno salutarmi?»

Bruno abbassò gli occhi e si nascose dietro l’ombrello, protetto dal brusio della pioggia che gli brontolava attorno. Soffiò un lungo respiro dalle narici, irrigidì le spalle e strinse la presa attorno al manico. «Tanto, prima o poi saresti comunque venuta a saperlo.» Tornò a darle la schiena. «Non sono bravo con gli addii, Tina.» Le sue parole erano ancor più fredde della nebbia di maltempo che gli galleggiava attorno. «E già sapevo che tu ci saresti rimasta male quando me ne sarei dovuto andare. Ho voluto risparmiarti l’inevitabile sceneggiata, ecco tutto.»

Valentina strinse i denti in un basso ringhio gorgogliante. «Be’» abbaiò, «e adesso la sceneggiata ti è venuta dietro.» Incrociò le braccia al petto. Quel gesto evocò un brivido che le scosse le spalle. «Come la mettiamo, allora, eh? Non hai proprio niente da dirmi?»

«Fatica sprecata.» Bruno tornò a piegare l’ombrello in modo da poterle lanciare uno sguardo più fine da dietro la tenda di perle d’acqua. «Perché tu non sei venuta qui solo a salutarmi, non è vero? Sei venuta qui per impedirmi di partire.»

Valentina non ebbe nemmeno il tempo e la forza di indignarsi. «E secondo te non avrei dovuto? Dopo tutto quello che ci siamo detti…» Un altro passo le fece attraversare il tuffo di una seconda pozzanghera. «Dopo tutto quello che c’è stato fra di noi…» I primi timidi sguardi scambiati attraverso la penombra dell’osteria, la conquista dei primi sorrisi, la gioia scalpitante delle prime volte in cui lei e Bruno si erano tenuti per mano. «Dopo un’intera estate in cui noi due…» E poi il primo bacio sulla vista del mare, sulla Luna piena specchiata nel bacino del porticciolo, i fuochi d’artificio a colorare la festa di quella notte così magica. Tutti i baci che poi erano seguiti. Baci che sembravano parlare più di mille promesse. «Secondo te mi dovrei rassegnare a lasciarti andare via così?»

«No.» Bruno si guardò indietro, senza però muovere un singolo passo. Guardò verso i tetti di Portorosso, verso tutto quello che ormai si era lasciato alle spalle. «Sapevo che sarebbe stato impossibile. E sapevo che sarebbe anche stato inutile cercare di spiegarti le mie ragioni.» I riccioli scivolarono in avanti, nascosero i suoi occhi. «Per questo ho voluto partire prima di incontrarti un’ultima volta.»

Un ansimo raggelò il petto di Valentina. «U-ultima?» singhiozzò lei. «Cioè, tu…» Si portò una mano al cuore, lì dove quel colpo l’aveva ferita. «Tu hai davvero intenzione di mollarmi in questo modo?»

Bruno scosse la testa. Sulla sua fronte aggrottata tornò a calare un’ombra di rabbia. «Smettila di farla sembrare una questione che riguarda solo te, Tina.» Diede un colpetto di spalla al manico dell’ombrello, scrollando una rovesciata d’acqua più abbondante, e tornò a girarsi, a nascondersi. «E soprattutto smettila di far finta di capire cose che non ti competono

Valentina sentì una vena esploderle sulla tempia, annebbiarle lo sguardo di un rosso cupo e iracondo. Che non mi competono? «Ma tu chi ti credi di essere?» Sciolse le braccia conserte e tornò a schiacciare i pugni tremanti sui fianchi. Si sporse dal ciglio delle rotaie per alzare la voce e sbraitare così al di là dello scroscio della pioggia. «Chi ti credi di essere per illudermi e scaricarmi in questo modo, come se quello che abbiamo trascorso assieme non avesse significato niente? Ah, certo.» Strusciò la mano bagnata sotto il naso altrettanto bagnato, risucchiando una sorsata di fiato che le annacquò la gola. La pioggia in bilico fra le ciglia, come le lacrime che Valentina ancora si rifiutava di versare. «Dev’essere stato proprio divertente giocare con i miei sentimenti per un’estate intera, farmi tutta quella compassione spiattellando quelle tue storielle da ragazzino randagio privo di legami e di affetto, e poi comportarti ancora peggio di tutti gli altri. Sei proprio un bastardo, lo sai?»

Bruno alzò le spalle. Fu di un’indifferenza disarmante. «Non è la cosa peggiore che mi sono sentito dire.»

«Oh, tu…» Valentina si rifiutò di riconoscere quell’estraneo che le si palesava davanti. Non poteva credere che sotto la pelle di Bruno potesse esistere un individuo tanto freddo e spietato. Credeva di potersi fidare di lui. Credeva… «Credevo che fossi diverso.» Abbandonato il ringhio di ferocia, Valentina piegò il capo in avanti. I capelli di nuovo incollati alle guance, i rivoletti di pioggia a gocciolarle dal mento e dalla punta del naso. «Credevo fossi migliore di tutti quei ragazzi che mi hanno spezzato il cuore, e invece…» Strizzò le dita sulla gonna bagnata. «E invece tu sei ancora peggio di loro. E io che ho fatto di tutto per correrti dietro e che…» Sollevò i lembi dell’abito, sentendo l’umiliazione colarle addosso, fredda e sgradevole come la pioggia che non accennava a concederle una tregua. «E che mi sono ridotta in questo modo solo per fare in tempo e impedirti di andartene. Si può sapere perché è già la seconda volta che finisco conciata in queste condizioni per colpa tua? Prima nella fontana, e ora sotto la pioggia, e ogni volta…» Preannunciate da un singhiozzo, le prime inevitabili lacrime scesero a scottarle le guance. «E ogni volta io vengo sempre lasciata indietro.»

Il respiro di Valentina si ruppe in una raffica di singhiozzi che le fecero ingoiare pioggia e lacrime. Valentina si tappò gli occhi allagati, strofinò fra le palpebre inondate. Il pianto ormai senza freni offuscò il grigio del cielo, della stazione, della parete del monte, e le impedì di accorgersi della colpevolezza dipinta nello sguardo di Bruno.

La voce di Valentina pigolò di dolore. «Perché, Bruno?» Valentina strofinò i pugni sugli occhi, raccolse le lacrime dalle guance. Il gesto di una piccola bimba. «Perché mi hai trattata così? Se sapevi che alla fine avresti comunque deciso di partire e di lasciarmi…» Un altro singhiozzo. Altra pioggia le sbrodolò dal naso e dalla bocca, costringendola a darsi un’altra strofinata alla faccia. «Avresti anche potuto fare a meno di illudermi. Avresti dovuto lasciarmi in pace invece che farmi innamorare di te e poi spezzarmi il cuore senza pietà. Be’, sai che ti dico?» Il fiato le bruciò la gola, scese a soffocarle i battiti nel petto. «Spero almeno che tu ti sia divertito, Bruno, perché io…» Un altro scoppio di pianto, «Io non ho…», che questa volta lei non riuscì a controllare, annegando in un’amarissima alluvione di lacrime.

Lo sguardo di Bruno era ben lontano da quello di qualcuno che si stava divertendo. Tutt’altro. Quell’ombra di colpevolezza ora faceva più fatica a rimanere nascosta, nonostante il costante gocciolio della pioggia che lo teneva coperto sotto l’apertura dell’ombrello. «Tina…» Bruno teneva gli occhi bassi, gli angoli delle labbra torte in una tremolante smorfia di disagio e di vergogna. Strinse la presa attorno al manico fino a far scricchiolare le falangi, come se anche lui stesse compiendo lo sforzo di non crollare come stava crollando Valentina. «Non piangere, Tina» le disse. «Non ne vale la pena, credimi. Non per uno come me.» Scosse il capo, più rassegnato di lei. «E soprattutto non servirà a trattenermi qui.»

Valentina tirò su col naso. «Conto davvero così poco per te?» singhiozzò. «Non vuoi…» Deglutì un tiepido e asprigno sorso di lacrime e pioggia che in qualche modo acquietò il feroce ruggito del suo cuore. I suoi grandi e lucidi occhi verdi, brillanti nel grigio del maltempo, del tutto simili a quelli di una gattina tremante abbandonata sul ciglio della via. «Non vuoi nemmeno dirmi addio?»

«Forse non è un vero addio.» Bruno scivolò di un piccolo passo indietro, urtò la valigia con la gamba e tornò immobile, come se con quel gesto avesse trovato un appiglio, come se si fosse aggrappato a tutto ciò che gli restava, all’unica certezza della sua vita. «Magari un giorno ci rivederemo.» Ma non c’era alcun tono di speranza in quella frase, nessuna dolcezza e nessuna luce. Parole fredde come la maschera che era diventata la sua faccia. «Magari la prossima estate tornerò a lavorare qui.»

Invece di rassicurarla, quell’affermazione la rese ancora più furibonda. «Io non voglio aspettare fino alla prossima estate» esclamò Valentina. «Non voglio dirti addio, non voglio vederti andare via senza nemmeno sapere se un giorno ci rincontreremo. Avevi detto…» Spinse all’indietro una manciata di capelli – spruzzi d’acqua zampillarono fra le dita – e boccheggiò, sentendosi già soffocare al solo pensiero di non rivedere mai più Bruno, di non poterlo mai più abbracciare, e poter respirare sulla ruvida pelle del suo collo, e morsicare di baci le sue labbra che sapevano di sale, rosmarino e caffè. «Avevi detto che per me ne sarebbe valsa la pena.» Sorse un altro velo di lacrime. Attraverso la vista appannata, sbocciarono le luci dei fuochi d’artificio che avevano colorato la notte del loro primo bacio, la prima volta in cui Valentina aveva succhiato ogni sapore da quelle labbra così aride, bisognose e assetate di lei. «Avevi detto che questa volta era diverso anche per te» piagnucolò. «Che avevi finalmente trovato un buon motivo per rimanere senza sentirti costretto a vagabondare da un paese all’altro.»

Bruno tornò a scuotere la testa, forse già estraneo a quei ricordi. «Non far finta di non aver sempre saputo che io me ne sarei andato una volta arrivato l’autunno, Tina. Sai come funziona la mia vita e sai come funziona il mio lavoro.»

«Potresti cambiarlo.» Una misericordiosa vocina di speranza le giunse in soccorso. «Non sei costretto a continuare a vagabondare e a fare lo stagionale per tutta la vita. Potrei…» Il cuore di Valentina sobbalzò, le intiepidì le guance e le rischiarì la vista. «Ecco, potrei aiutarti io. Potrei aiutarti a trovare lavoro a Portorosso, e a sistemarti in una casa tutta tua.»

Le labbra di Bruno tremolarono in un sorriso cupo e carico di amarezza. «E rubare casa e lavoro a voi che siete legittimi abitanti di Portorosso, facendomi così odiare e perseguitare ogni volta in cui metterei piede fuori di casa?» Un’altra scrollata di capo. «Temo proprio che non sia una buona idea.»

Valentina riconobbe il fatto che lui potesse anche avere ragione, dunque… «Allora…» Dunque giunse alla conclusione che aveva già tratto ancor prima di correre alla stazione. «Allora fammi venire con te.»

«Non dire assurdità.» Bruno lo disse con una tale velocità che Valentina sospettò che lui già si aspettasse una tale uscita da parte sua. «Venire con me?» Bruno finalmente trovò il fegato di rivolgerle lo sguardo, quei suoi occhi grigi e duri come piombo. «E in favore di cosa? Qui a Portorosso c’è tutta la tua vita. Hai una famiglia, un lavoro, dei genitori che ti amano, degli amici che farebbero di tutto per te.» Socchiuse le palpebre, affilò un tono provocante. «Sul serio saresti disposta ad abbandonare tutto questo per inseguire qualcuno come me che non ha nulla da offrirti tranne che una vita fatta di incertezze?»

«Sì.» Valentina rispose con la medesima sicurezza. Testa alta e sguardo aperto, non un’ombra di paura a rimpicciolirla. «Perché tu sei già importante per me tanto quanto lo sono la mia famiglia e i miei amici. Bruno, tu…» Un respiro profondo. Il petto si alzò e si abbassò, accogliendo l’aspro e polveroso odore di pioggia. Nonostante il peso della stoffa bagnata a schiacciarlo, il cuore di Valentina non era mai stato tanto leggero. «Tu non sei un’incertezza, tu sei una delle poche certezze che sono sicura di volermi tenere stretta. Credevo…» Però quel timido pigolio di dubbio tornò a rompere la sua vocina bagnata dai precedenti singhiozzi di pianto. «Credevo di esserlo diventata anch’io per te.»

Bruno arricciò la bocca formando una profonda fossetta nella guancia. Tornò ad appiattire le labbra, a voltare il capo e a sbuffare dalle narici. «Questo non cambia comunque le cose.»

«Solo perché sei tu quello che si sta sforzando di non cambiarle» ribatté Valentina. «Come credi che io mi sia sentita quando mi hanno detto che tu te n’eri andato? Quando ho creduto di averti perso, allora l’ho capito.» Annuì. «Ho capito che io sarei disposta persino a rinunciare alla mia vita a Portorosso pur di stare con te.»

«Ma sarò io che ti impedirò di venirmi dietro e di rinunciarci» le disse Bruno. «Anche se adesso ti sembra di volerlo, non ci metteresti molto a pentirti della tua fuga, fidati. Adesso ti sembra così allettante, così avventuroso, così diverso dalla vita che hai sempre fatto qui, vero? Perché tu sei una a cui piace andare controcorrente. Ma è solo di questo che si tratta, Tina. Di una ribellione e di uno strappo alla regola.» Diede un altro colpetto al manico dell’ombrello. La sua voce sfumò in un brusio grigio del tutto simile a quello della pioggia. «Magari come lo sono stato io.»

Valentina ansimò, inorridita. «No!» scattò. «No, non è vero!» Si sporse, la suola dello stivaletto sdrucciolò dall’orlo della banchina, il suo braccio si tese senza riuscire a raggiungere Bruno al di là delle rotaie. Se solo avesse potuto stringerlo, se solo avesse potuto scuoterlo, e strappargli dalla testa tutti quei pensieri orribili. Pensieri che certe volte avevano sfiorato persino le sue di orecchie. «Tu non…»

«Ci metteresti poco a renderti conto di aver commesso un colossale errore.» Gli occhi di Bruno si animarono di una profondità diversa. L’accusa di un peccato imperdonabile. Un dolore più intimo e tangibile che pareva lacrimare anche sull’asciutto delle sue guance. «E in più spezzeresti il cuore a tuo padre, facendogli un torto simile. Non mi renderò complice di qualcosa del genere.» Scosse il capo, forse annunciando il rifiuto definitivo. «Non mi renderò complice della distruzione di una famiglia.»

Rabbrividendo, soffrendo una piccola vertigine che fece traballare l’immagine delle rotaie su cui era in bilico, Valentina arretrò, tornò al sicuro con entrambe le suole sul cemento bagnato della banchina. «Ma non è vero che si distruggerebbe. Si…» Alzò le spalle, ancora non del tutto certa del reale significato di quel discorso. «Si allargherebbe soltanto. Anche tu diventeresti la mia famiglia. Questo secondo te non sarebbe abbastanza?»

«Io…» Il fiato di Bruno rimase sospeso, bianco e vaporoso, sul tremore delle labbra che non portarono la frase a termine. Bruno strinse i denti. Rughe di cordoglio gli solcarono i bordi anneriti delle palpebre. Quando parlò, la sua voce suonò fragile come tutta quell’acqua da cui si stava proteggendo. «Io non me la merito una famiglia.»

Valentina non capì. Però aveva colto quella piccola esitazione nella risposta di Bruno, quella crepa nella corazza che la spronava a continuare a grattare per raggiungere la parte molle. «Parli come se fra noi due non fosse successo nulla, come se quello che abbiamo condiviso valesse meno di niente. È così, eh, Bruno?» La pioggia era tanto abbondante sul suo viso che lei quasi non si accorse di essere nuovamente sull’orlo delle lacrime. «Per te io non sono significata niente?»

Bruno strusciò la manica della giacca su naso e bocca, sviò la questione. «Vedrai che entro la prossima estate ti sarai già dimenticata di me.»

«E tu?» gli domandò Valentina. «Anche tu ti sarai già dimenticato di me?»

Un altro tremore scivolò fra le labbra socchiuse di Bruno, un’altra ruga di conflitto gli solcò la fronte. I denti strinsero, succhiarono un pesante respiro che gli impedì di continuare a mentire. «No.» Il rumore della pioggia scrosciava incessante nel silenzio della stazione, batteva aspro sulla tettoia laminata e scivolava frammentandosi in piccole cascatelle lungo la vegetazione arrampicata sulla parete del monte. «No» ammise di nuovo Bruno. «Non credo che potrò mai farlo.» Lo confessò con una faccia pietosa, di sconfitta.

Valentina non ebbe nemmeno il tempo di risollevarsi, di continuare a sperare, perché…

«Ascolta, Tina.» Da sotto l’ombrello, Bruno alzò lo sguardo e lo volse ai tetti di Portorosso che sbucavano nella striscia di cielo racchiusa fra le nubi e la nebbia di pioggia. «Quello che c’è stato fra noi due…» Annuì. «È stato bello. Sono stato bene assieme a te, e per questo ti ringrazio. Sei stata sul serio la cosa più bella che mi sia capitata da quando sono arrivato a Portorosso. Anzi, forse…» Le sue spalle si arricciarono in un improvviso e tenero moto di timidezza. «Forse fin da quando ho cominciato a…» Ingoiò un sussulto pizzicandosi il labbro fra i denti. «A viaggiare.»

Il cuore di Valentina si spalancò davanti a quella dichiarazione, ne accolse la luce, il calore di una speranza che forse poteva ancora rincorrere.

«E mi rendo conto che la colpa di tutto questo è soprattutto mia» le confessò Bruno, frantumando quel battito. «Non avrei dovuto farmi coinvolgere tanto pur sapendo che un giorno me ne sarei andato a prescindere dalla mia volontà e dalla tua. Per questo è meglio se ci diciamo addio adesso, capisci? È meglio ora prima che diventi davvero impossibile farlo.»

Ma Valentina aveva abbandonato quell’ipotesi già da tanto tempo. «Per me è già impossibile dirti addio» gli disse. «E sono sicura che anche una parte di te, una parte piccola piccola, non vuole lasciarmi andare.»

Bruno scosse la testa. «Non doveva succedere.»

«Cos’è che non doveva succedere?» Gli occhioni abbandonati di Valentina luccicarono di dolore e consapevolezza. «Che ci innamorassimo per davvero?»

«Questa cosa…» Il braccio di Bruno che impugnava l’ombrello riprese a scuotersi, e quei tremori gli aggredirono le spalle, lo fecero irrigidire in quella corazza che lui ancora si rifiutava di far cadere. «Quello che potrebbe succedere se io e te rimanessimo assieme va al di là di quello che proviamo o vogliamo.» Un suo sibilo di rabbia condensò un fiotto bianco. «E tu non te ne rendi nemmeno conto.»

«Spiegami tu di cosa dovrei rendermi conto, allora» rispose Valentina, con altrettanta rabbia, perché il suo cuore continuava a stringere i pugni, a pestare i piedi e a rifiutarsi di capire. «Perché dobbiamo lasciarci, se è vero che nemmeno tu lo vuoi?»

«Perché non c’è verso che funzioni. Io e te siamo…» Dopo un sospiro, il tono di Bruno tornò freddo. L’ombra dei riccioli a celare il mistero racchiuso nel suo sguardo. «Troppo diversi.» Con la mano che non reggeva l’ombrello, Bruno rimboccò la giacca scamosciata, scivolò di un passetto all’indietro. «Non hai la minima idea di quello a cui andresti incontro, Tina.»

«Co-cosa…» Valentina fu attraversata da un brivido più freddo e pungente delle gocce di pioggia che le stavano graffiando la schiena. Sbatacchiò le ciglia gocciolanti, stordita e disorientata. Le parole di Bruno – così strane, troppo strane – distorsero i suoi pensieri come il diluvio stava distorcendo il panorama annacquato da tutto quel grigio.

«Sei mai uscita da Portorosso, Tina?» Adesso il tono di Bruno fu tanto duro e freddo da suonare come un’accusa. «Sai cosa significa vivere in un luogo che non ti appartiene? Lontana dalla tua casa, senza la certezza di avere ogni giorno la sicurezza di un tetto sulla testa o del cibo sulla tavola? No.» Nei suoi occhi scuri lampeggiò una fiamma di rabbia e risentimento. «E credimi quando ti dico che non vuoi nemmeno sapere cosa si prova. Non hai idea della vita a cui stai andando incontro.»

Valentina abbassò il capo ma, a pugni stretti, continuò a sostenere il suo sguardo. «E tu, allora?» Si aggrappò con entrambe le mani all’abito fradicio, sentendolo gocciolare fra le dita. Non aveva ancora intenzione di mollare la presa. «Tu sai già a quale vita stai andando incontro, fuggendo da un posto all’altro? Dov’è che andrai, questa volta? Cosa farai quando te ne sarai andato da Portorosso?»

Bruno alzò le spalle, buttò un’occhiata superficiale alla gola del tunnel da cui il treno non era ancora sbucato. «Magari seguirò il consiglio di chi non mi vuole vedere qui in giro.» Sbuffò dal naso e arricciò un ghigno disgustato. «Magari me ne tornerò giù

Valentina allontanò una manciata di capelli bagnati dagli occhi, li fece gocciolare dietro l’orecchia, giù per il collo. «Giù dove?» Calma. Patteggiò con se stessa di rimanere calma, nonostante la vena provocatoria delle sue parole e i battiti accelerati del cuore che scalpitava d’impazienza. «Giù al Sud…» Ora era lei la pescatrice, l’acchiappa-merluzzi, e come tale si preparò a gettare la sua rete più robusta, a scoccare il suo arpione più affilato e letale. «O giù negli abissi?»

Bruno sgranò lo sguardo che, sbiancando di colpo, mutò in una spettrale maschera di orrore. Le nuvole si pietrificarono, la pioggia smise di cadere, lo scrosciare si interruppe, il cielo annerì e gettò sulla stazione un drappo d’ombra che rese l’ambiente gelido e immobile, come se il cuore del mondo avesse smesso di pulsare, come se il respiro del tempo si fosse fermato.

Non una parola da parte di Bruno, non un fiato. Solo il vacuo vacillare dei suoi occhi che parevano essere sprofondati nello stesso abisso di oscurità appena precipitato dal cielo.

Quando la pioggia ricominciò a cadere, quando il suono del diluvio tornò a martellare il cemento, le pozzanghere, e a scandire lo scorrere del tempo, anche Valentina riprese a respirare. Strizzò i pugni per percepire lo scorrere dell’acqua fra le dita, mosse le punte dei piedi dentro gli stivaletti zuppi per assicurarsi di avere ancora le suole ben piantate a terra. Sapeva che l’arpione aveva centrato il bersaglio. Eppure non aveva nulla da festeggiare, nulla di cui essere orgogliosa, non se Bruno era ancora così distante da lei. Così scosso e smarrito. Così asciutto.

«Credevi davvero che non ci sarei mai arrivata?» gli disse Valentina. «Non sono stupida fino a quel punto, sai?»

Bruno batté le palpebre, contrasse la fronte, e si disfò di quell’espressione vacua e terrorizzata, rispondendo a muso duro ma con schietta sincerità. «Non ho mai pensato che tu lo fossi.»

Le labbra di Valentina si sciolsero in un roseo sorrisino da ebete – Ooh – che subito si ruppe per lasciar spazio a un grugno imbufalito – No, no, arrabbiata. Valentina si colpì con un piccolo schiaffetto alla guancia. Arrabbiata, Tina, concentrati. Tu sei arrabbiata con lui! «Tu non vieni dalla terraferma come noi, non è vero, Bruno? Sei una di quelle creature del mare, una di quelle che ha visto anche il vecchio Sergio.» Il cuore accelerò, le arroventò la bocca ora incapace di fermarsi, di smettere di spiattellare tutto quello che sapeva di aver capito. «Per questo dici di aver paura dell’acqua e non la tocchi mai davanti agli altri, per questo non esci mai dalla tua stanza quando piove, per questo sei scappato dalla piazza quando ti ho schizzato con l’acqua della fontana, e per questo la mano ti è diventata blu quando Pepe te l’ha leccata.»

Il pugno di Bruno stritolò il manico dell’ombrello, rabbrividì facendo tremolare anche la caduta delle gocce di pioggia rotolate dal telo blu. Lui scosse il capo, si girò, e si strofinò la mano libera sui pantaloni. «Tutte sciocchezze.»

Valentina strinse la presa, tirò la lenza. «Se sono solo sciocchezze allora dimostramelo» esclamò. «Dimostrami che non è vero. Ma ti giuro che anche se fossi…» Girò attorno alla pozzanghera più larga per sporgersi dal bordo della banchina che cadeva sulla griglia di binari. Ed era ancora troppo lontana. «Anche se tu fossi una specie di mezzo pesce o di mezza sirena a me andrebbe bene lo stesso. Non smetteresti mai di piacermi per un motivo simile. L’unica cosa che non mi sta bene è che tu continui a mentirmi, quindi vieni qua e dimostramelo. Dimostrami che se te ne stai andando è davvero solo perché hai paura di essere scoperto.» Si rese conto di essere di nuovo sull’orlo del pianto solo quando sentì il fiato sobbalzare in petto e gli occhi ricominciare a scottare. «Dimostrami che non te ne stai andando solo perché ti sei stufato di me.»

Bruno rimase nascosto nel suo silenzio, nella sua solitudine, protetto da quell’impenetrabile muro di dolore che nemmeno l’acquazzone riusciva a sciogliere. «Va’ a casa, Tina.»

Valentina digrignò i denti facendo schioccare la mandibola. «No.» Pestò il piede a terra schizzando acqua grigia e polverosa fino al ginocchio. «Non me ne vado neanche per sogno» gridò, incurante del dolore al petto e del bruciore alla gola. «Questa volta no, Bruno. Io le bugie non le dico, al contrario di te, e non ti ho mentito quando ti ho detto che sei il primo per cui sento che vale la pena stringere la presa e impedirti di andartene. Quindi non ti lascerò. Non senza una spiegazione.» Annaspò soffiando bolle di fiato bianco che le pizzicarono le guance diventate fredde come la pietra. «Non senza la tua parola sul fatto che mi sto sbagliando.»

La bocca di Bruno tremò. «Mi dispiace, Tina.» Dopo quel sibilo mortificato, lui piegò il capo in un triste gesto di disfatta, lasciandosi sommergere lo sguardo dalla caduta di riccioli. «Temo proprio di non potertela dare.»

La rabbia di Valentina divampò in un’ultima feroce fiammata che, come il lume di un fiammifero appena acceso, rimpicciolì e morì nella stessa velocità con cui era sbocciata. I brividi le scivolarono via dalla pelle, sciacquati e raffreddati da tutta quella pioggia che non si fermava, che lacrimava come lacrimavano i suoi occhioni, tristi e sconfitti davanti alla crudeltà di quell’acqua che alla fine si sarebbe sul serio portata via Bruno. Fu facile immaginarlo. Un’onda di pioggia lo avrebbe raccolto, strappandolo alle braccia di Valentina, e lo avrebbe trascinato nelle profondità del mare a cui apparteneva. «Se proprio non c’è possibilità che io possa tenerti qui con me, allora…» Valentina singhiozzò. «Allora non lo farò.» Si strofinò un occhio, sentendo il calore delle lacrime mescolarsi al freddo delle gocce di pioggia. «E se è vero che tu non vuoi più avere niente a che fare con me, allora non ti costringerò, perché non voglio farti del male o renderti infelice.» Tirò su col naso, «Ma ti chiedo solo un’ultima cosa», ricacciò i singhiozzi in gola, «Solo un ultimo desiderio».

Bruno piegò il capo di lato lasciando che i riccioli scivolassero e scoprissero una scintilla baluginata in fondo al suo sguardo. Inarcò un sopracciglio, storse la punta del naso in una smorfia insospettita e diffidente. «Quale?»

Valentina spalancò le braccia. Copiosi rivoli d’acqua gocciolarono dagli orli delle maniche. «Vieni qui» ordinò a Bruno. «Vieni qui e abbracciami un’ultima volta.» Un’abbondante versata di lacrime discendere le gote arrossate, nonostante l’assenza di singhiozzi. Gli occhi di Valentina ancor più belli sotto quel cielo grigio che piangeva come stava piangendo anche il suo cuore. «Un ultimo abbraccio.» Rivoletti lacrimarono anche dal luccichio dorato della collanina, da ogni sua ciocca di capelli, da ogni fibra del suo abito, e la infradiciarono fino alle ossa, fino alla biancheria intima. «Solo uno.»

Le guance di Bruno tornarono a sbiancare e la sua bocca si mangiò un sussulto, come se un pugno gli avesse centrato lo stomaco. Arretrò urtando la valigia che giaceva ai suoi piedi. «Va’ via, Tina.» Si aggrappò al manico dell’ombrello con entrambi i pugni. La fronte nera di rabbia e quel baluginio di timore a vacillare nel grigio delle sue iridi. «Non rendere le cose ancora più difficili di quello che già sono.»

«Sei tu che le stai rendendo difficili!» strillò Valentina. «Ti ho chiesto un abbraccio. Un abbraccio solo, porca miseria! Direi che almeno questo me lo devi.»

«No» fu la lapidare risposta di Bruno. «Non ti devo un bel niente.»

Valentina sbuffò gettando schizzi di acqua dalle labbra infreddolite. «Bene.» Raccolse con entrambe le mani le pieghe della gonna che, pesante e bagnata, finì per sbrodolare una pozzanghera attorno ai suoi stivaletti. «Se non sarai tu a darmi un ultimo abbraccio…» Indurì le spalle come una vera guerriera – uno di quei gladiatori romani che da piccola vedeva illustrati nei libri di Storia –, pronta a tuffarsi nei boati della battaglia. «Allora me lo vengo a prendere io.» Per raggiungere l’altro lato della banchina non si preoccupò di prendere il sottopassaggio, tanta era la paura che Bruno potesse fuggire non appena distolto lo sguardo da lui. Valentina avanzò di un passo, compì un saltello, e cadde sul letto di pietre attraverso cui correva la linea delle rotaie.

Bruno cacciò un rauco grido inorridito. «No!» Si slanciò verso di lei. «No, Tina! Ferma!»

Ma Valentina avanzò. Con soli due passi scavalcò i binari, raggiunse l’altra sponda, e sollevò il ginocchio per arrampicarsi e risalire la piattaforma.

Bruno – la bocca ancora aperta in quell’urlo spezzato a metà – guardò verso la gola della galleria da cui sarebbe dovuta piombare la corsa del treno. Grazie al Cielo rimase vuota, nera e muta.

Valentina si rialzò dalle ginocchia, fece ricadere la gonna stropicciata sulle gambe sporche, si diede una spolverata alle mani arrossate e maculate di piccoli sassolini, e lanciò a Bruno un penetrante sguardo di sfida scoccato da sotto i capelli incollati alla faccia. Il nastrino sciupato le cadeva miserevolmente davanti a un occhio e sulla guancia, come una lacrima verde. A noi due, Bruno. Una volta per tutte.

Bruno si tenne aggrappato al manico dell’ombrello – il gesto di un cavaliere che impugna la sua spada per difendersi dalle fauci del drago che gli è appena balzato davanti, inondandolo col suo fiato di fuoco, bollente e letale. «Tu sei pazza.»

Valentina sogghignò. «Ma dai.» E forse lo era per davvero, perché un isterico singulto di risa le rimbalzò proprio in fondo al petto. Il prurito di una curiosità e di un’eccitazione che crebbe grattandole le pareti dello stomaco. Un languorino che avrebbe brontolato fino a quando non sarebbe stato saziato. «Vediamo fin dove posso arrivare con la mia pazzia, allora.» Avanzò verso Bruno, un passo alla volta.

E Bruno arretrò. «Stai indietro.» Sbatté sullo spigolo di una colonna, e all’impatto gemette come se lo avessero accoltellato alla schiena. Si voltò, urtò la colonna con l’ombrello che si piegò grondando per davanti. Bruno ci girò attorno schivando le gocce che avevano rischiato di bagnargli i piedi, ma inciampò una seconda volta, sempre più in bilico, sempre più alle strette davanti all’ombra di Valentina che si allargava su di lui. «Non sto scherzando, Tina.» A corto di fiato, soffocato dalla mano di terrore che gli era sempre più stretta attorno alla gola, Bruno guardò Valentina con occhi lucidi di rabbia e di supplica. «Stammi lontana, altrimenti…»

«Altrimenti cosa?» Valentina avanzò di un altro passo. «Mi mordi?» Sfoderò un mezzo ghigno che un po’ folle lo era per davvero. «Mi mangi? Mi trascini fino al mare e mi sbrani le budella?»

«Non sai quello che dici.»

«Aiutami a capirlo.»

«Non vuoi saperlo.»

«Questo lo stabilirò io.»

«Vattene!» Bruno scappò giù per quelle che credeva essere le scale del sottopassaggio. Sei o sette gradini che lui divorò in sole due falcate. Si ritrovò a sbattere le mani su una porta di ferro traballante – crash! – su cui era appeso un triangolo giallo che racchiudeva una saetta sbarrata. La centralina elettrica.

La caduta della pioggia arrivava anche lì, scivolava lungo i gradini di pietra, rimbalzava lungo la discesa come un banco di vivaci pesciolini trasparenti, e si accumulava attorno agli scarponi di Bruno appiccicati con i talloni alla porta sprangata. Lo scroscio del diluvio picchiava incessantemente sull’apertura dell’ombrello che continuava a proteggere Bruno, a tremare per i brividi che lo scuotevano mentre stringeva il manico con sempre più forza. «Va’ via» strillò contro Valentina. Strusciò un piede a terra e mollò due calci all’aria come per tenere lontano un serpente. «Non ti avvicinare!»

Valentina scese anche l’ultimo gradino e avanzò, senza fretta, perché ormai Bruno era con le spalle al muro, il sottoscala era troppo stretto, e lui non poteva sviarsela risalendo i gradini senza il rischio di essere toccato o di perdere l’ombrello, bagnandosi.

Bruno colpì la porta di ferro con una manata – slam! –, si aggrappò alla maniglia, la sbatacchiò su e giù, diede un colpo di spalla, ma la serratura rimase chiusa, irremovibile. Sollevò lo sguardo da sotto i riccioli e implorò Valentina con occhi terrorizzati, pietosi e supplichevoli. Tornò ad agguantare il manico dell’ombrello con entrambi i pugni – l’unico appiglio che gli impediva di precipitare, di farsi inghiottire dalla risacca di pioggia. «Tina…» Bruno strizzò gli occhi, fece strusciare le suole all’indietro fino a spingersi nell’angolino del sottoscala. Rabbrividì. Un primo singhiozzo asciutto gli rimbalzò in gola. «No.»

Valentina continuò ad avvicinarsi, fradicia, gocciolante, lenta. Paziente. Non c’era fretta, nonostante il bruciore alle gambe, i rimbombi del cuore, e il nodo d’ansia che cominciava a formarsi in fondo alla lingua diventata arida e stopposa. Adesso era lei che cominciava ad avere paura di quello che stava per affrontare, di quello che si sarebbe palesato una volta che avrebbe ottenuto da Bruno le risposte che cercava.

«Tina, ti prego.» Bruno si coprì sbattendosi entrambe le mani sulla faccia. L’ombrello ancora aperto sopra di lui, incastrato fra il braccio e la spalla, continuava a coprirlo e a respingere i rimbalzi dell’acqua. «Non…» I forti tremori delle gambe lo costrinsero verso il basso, a rannicchiarsi nell’angolino. Le ginocchia contro il petto e la schiena spalmata sul muro. L’ombrello ora simile al cappello di un fungo appena sbocciato dall’umido della terra. «Non farlo.»

Valentina si accovacciò davanti a Bruno lasciando che la gonna bagnata le si afflosciasse attorno come la corolla di una rosa marcita sotto un acquazzone troppo abbondante. Deglutì. Respira. Coraggio. Distese le braccia, porse a Bruno le mani bagnate e infreddolite senza nemmeno sapere a cosa stesse andando incontro, cosa doversi aspettare da quel gesto. Provò a deglutire di nuovo ma, nonostante l’abbondanza di acqua a correrle sulle labbra, non ci riuscì, e soffocò il fiato nel tentativo. Attraverso le gocce di pioggia che la separavano da Bruno, si materializzarono gli acquerelli appesi alla parete dell’osteria. Mostri marini dai denti aguzzi che possono sgranocchiare le ossa di un pescatore come fossero grissini, la coda a lancia tanto affilata da poter sbrindellare le reti da pesca, artigli talmente grossi da sbriciolare le assi di una barca, squame spesse come corteccia, occhi ardenti e maligni come quelli delle serpi.

Raggiunse il viso di Bruno, fece scivolare le dita bagnate sotto le sue mani tremanti, le sporcò immediatamente di blu, e gli avvolse le guance facendolo impietrire, come se con quel contatto gli avesse scaricato una scossa elettrica sulla pelle. Valentina mosse i pollici formando piccoli cerchi, spanse il tocco blu anche sul resto del viso, rendendo la sua pelle più morbida e cedevole.

Bruno sbatté le spalle al muro, torse il capo all’indietro, strizzò gli occhi e inspirò un forte sibilo fra i denti tremanti.

Valentina allargò le mani e sfregò ancora, dal mento agli zigomi, spandendo il blu e sfumandolo nelle zone di pelle più ruvida in un colorito viola che luccicava dove le squame umide si frastagliavano. Anche lei sussultò, ansimò di stupore, «Oh…», batté le ciglia gocciolanti e sgranò gli occhi assorbendo tutto il blu di quella trasformazione, di quella verità che finalmente veniva a galla come gli scogli durante la bassa marea.

Le spalle di Bruno si ammosciarono, ogni fibra di tensione si sciolse dal suo corpo, e lui cadde con il capo in avanti, sospirando. Una sua mano era posata su quella che Valentina gli aveva avvolto attorno alla guancia, le squame a contatto, mentre l’altra era ancora impugnata al manico dell’ombrello che ora proteggeva entrambi. I riccioli caduti in avanti a nascondergli gli occhi, a ombreggiare quella sconfitta, a sfiorare il blu smaltato che gli splendeva sulle guance. Ormai non tremava più. Non sembrava avere nemmeno voglia di scappare. Non aveva più paura, era solo rassegnato. E ferito.

Valentina riguadagnò fiato solo quando il rumore della pioggia, l’unico a riempire il silenzio, cominciò ad assordarla, e solo quando le goccioline sciolte dai suoi capelli cominciarono a pizzicarle le guance e a entrarle in bocca. «M-ma allora…» Deglutì. «Allora è vero.» Era davvero così che funzionava, come aveva detto il vecchio Sergio. Creature del mare che quando sono asciutte assumono un aspetto umano. Ma che quando si bagnano diventano…

«Mi dispiace, Tina.» Bruno mosse la mano sotto quella di Valentina, si grattò la faccia squamata, come sperando di scorticarsi dalla faccia quella sua seconda pelle. Persino le unghie mutarono al contatto, facendosi bluastre e spigolose. «Non volevo che tu lo scoprissi in questa maniera» mormorò. «Non volevo che tu lo scoprissi affatto. Speravo che andandomene…» Un fiotto di emozione si ruppe nella sua voce, come se anche lui si fosse liberato della prigionia in cui lo costringeva quell’identità nascosta. «Speravo che sparendo dalla tua vita ci saremmo entrambi dimenticati di questa storia, prima che diventasse troppo importante per tutti e due. Volevo che tu conservassi un altro ricordo di me, non volevo che tu mi vedessi così.» I suoi occhi sbocciarono da sotto i riccioli. Grigi, grandi, striati come il mare d’inverno, belli oltre ogni dire. Gli occhi che Valentina amava. «Interamente.»

Un battito di paura sprofondò nel petto di Valentina. Fece esplodere un colorato vortice di sapori dolci e aspri, il desiderio intrecciò un valzer con l’angoscia, la curiosità prese per mano la paura e la accompagnò attraverso quella spinta di frenesia che si prova prima di compiere un guaio, un salto nell’ignoto. Interamente. Stava per compiere la più grande stupidaggine della sua vita? «Mostramelo, allora» disse. E la sua fu una voce bassa e adulta. Persino lei stentò a riconoscerla. «Mostrami come sei…» Stava decisamente per compiere la più grande stupidaggine della sua vita. «Interamente.»

Gli occhi di Bruno rabbuiarono, sembrarono ammonirla. Sembrarono volerle dire: sei sicura? Guarda che dopo non si torna più indietro.

Ma lo sguardo di Valentina era alto e risoluto. Gli occhi fermi e affidati a quelli di Bruno che sapevano sostenere il peso dei suoi timori. La pioggia grondava inesorabile, rimbalzava sull’ombrello e formava piccole pozze dove i rivoli più abbondanti si raccoglievano e assunsero il colore della fanghiglia. Mostrami. Valentina annuì. Non ho paura.

Bruno inspirò dal naso. Allentò la presa sul manico, lasciò scivolare l’ombrello dalle dita, lo fece cadere e rotolare di lato. Chiuse gli occhi, piegò di poco la testa all’indietro, e accolse la pioggia che gli si rovesciò sul viso, fra i riccioli, sulle guance, sulle spalle, dietro le orecchie, e ogni goccia, grande e piccola, era una macchia blu che brillava scivolando come smalto, poi unendosi alle altre e spalancando i colori di quella magia.

Folte squame gli sbocciarono fra i capelli. I riccioli tempestati dalla pioggia si tinsero di viola, si infoltirono e vibrarono proprio come avrebbero fatto larghi petali floreali sotto un getto d’acqua. Petali d’alga color indaco e glicine caddero attorno alle orecchie, gocciolarono, e allargarono i padiglioni in pinne sottili e sventolanti simili a ventagli.

L’acqua colorata scivolò come tempera sulla fronte di Bruno, lungo le guance, macchiò la sua faccia di blu, e accrebbe lo sbocciare delle squame che gli appiattì il naso riducendolo a due fessure. Le narici appena formate si dilatarono, risucchiarono l’aria annacquata, e sbuffarono una sottilissima nuvoletta di vapore bianco. Gli abiti scurirono. Creste di pinna si sollevarono sotto le maniche della giacca, e lo splash! della sua coda sbatté sul cemento bagnato su cui lui e Valentina erano accasciati.

Valentina si portò le mani alla bocca per contenere un gemito risucchiato dalla gola. «Ah.» Il cuore le saltò fra le guance, e quel battito la attraversò come una scarica elettrica, le infiammò il sangue e accese un prurito d’allarme, una vocina dietro l’orecchio che le ordinò di prendere le scale e scappare, se voleva avere salva la pelle, se non voleva finire con la gola dilaniata dai morsi e la pancia aperta a suon di unghiate.

Ma c’era anche una parte di se stessa, la più piccola, rumorosa e stupida e irrazionale parte del suo animo, che riconosceva il Bruno di sempre, nonostante l’aspetto diverso. Dietro il brillare delle squame, Valentina riconobbe lo sguardo del ragazzo di cui si era innamorata. Riconobbe il profumo e la voce del mare da cui si era sempre sentita chiamare e che adesso era lì, davanti a lei.

Bruno…

Bruno sventolò le orecchie scosse dalla caduta della pioggia. Sollevò una zampa pinnata, la usò per tirare su i capelli simili ad alghe che gli erano finiti sul muso, perché bagnati erano ancor più folti rispetto a quando erano asciutti. «Ecco…» Batté le palpebre. La pupilla si assottigliò e si allungò nell’iride ora di un grigio freddo e tagliente che nell’oscurità brillava di una luce perlacea, simile all’interno di un’ostrica. «Questo sono io.» Un minuscolo abbaglio bianco luccicò dalle punte delle zanne quando lui aprì la bocca per parlare. «Adesso lo sai.» La sua voce però era la stessa. Non ruggiva e non gorgogliava. Parlava come avrebbe parlato indossando il suo aspetto di sempre. Guardava Valentina negli occhi. La pioggia gli gocciolava dalle squame che, muovendosi sotto il suo lento e regolare respiro, riflettevano sfumature violacee. «Hai paura?»

Valentina aveva ancora le mani accostate alle labbra, ammutolita. Le abbassò, le socchiuse, singhiozzò per recuperare il fiato, poi semplicemente scosse la testa, e seppe di essere sincera.

Bruno si spostò, forse solo per aggiustare la posizione delle gambe, e la sua coda scivolò assecondando il movimento. La punta compì un rimbalzo sul cemento, la pinna schizzò un piccolo zampillo d’acqua, e quello spruzzo raggiunse Valentina, facendola di nuovo ansimare per lo spavento.

Bruno tese la zampa, «No», però non la toccò. Strinse le dita in un pugno, forse temendo di spaventare Valentina rivolgendole le unghie. «Non ti farò del male, lo prometto.»

A Valentina si gonfiarono le guance, e lei spernacchiò da dietro le mani premute sulla bocca. Rise forse più per il disagio che per il sollievo, ma fu una risata che le fece bene, calda e dolce nella pancia come una sorsata di camomilla. Non ne poté fare a meno: era tutto troppo assurdo, troppo eccitante. «L-lo so…» Anche lei aggiustò la posizione delle gambe, si rimboccò la gonna ormai rovinata, e affondò una grattata fra i capelli fradici e scompigliati. «È solo che…»

Bruno piegò lo sguardo, restrinse le spalle e sembrò perdere sicurezza. «Ti faccio impressione?»

Valentina rimase sincera fino in fondo. Glielo doveva. «Solo…» Si grattò di nuovo la testa, sorrise d’imbarazzo, e unì pollice e indice a racchiudere uno spazio poco più piccolo di un fagiolo. «Solo un po’.»

Bruno abbassò gli occhi e le orecchie, raccolse la coda attorno a sé, proteggendosi dietro quella corazza che Valentina credeva finalmente di aver oltrepassato. «Scusami.»

Valentina si affrettò a scuotere la testa e ad agitare le mani, dandosi della stupida. «Ma no, no, va tutto bene, tutto bene, sul serio, sei bellissimo.» Ah! «Cioè…» Si morse il labbro, ansimò, e un colorito paonazzo le scoppiò sulle guance, abbrustolendo ogni fredda goccia di pioggia che l’aveva fatta rabbrividire.

Bruno risollevò la fronte. Un baluginio di stupore a scintillare in fondo agli occhi, a intenerire il suo muso di squame.

«C-cioè…» Valentina arricciò attorno all’indice una gonfia e scompigliata ciocca ribelle. «Sei bellissimo come lo eri anche prima, ovvio.» Le scappò un’altra risatina.

Bruno, dopo aver stretto le labbra, si unì a lei e rise per la prima volta dopo tanto, troppo tempo. «Una bellezza non proprio tipica, forse.» Sollevò il dorso della zampa davanti ai denti in modo che non fossero troppo visibili mentre continuava a ridere.

Valentina sospirò. Il petto caldo e leggero, una ben meritata nebbiolina rosea ed euforica a ovattarle la testa, dopo tutte quelle nere lacrime di dolore e paura. Non c’era nulla da temere, ovvio, e si diede della sciocca per averlo pensato in primo luogo.

Raggiunse una delle zampe – mani? – di Bruno, e la avvolse. Era bagnata, certo. Le squame lisce e morbide quando venivano carezzate, leggermente gommose quando si premeva delicatamente con i polpastrelli, ma un po’ ruvide se le si strofinava contropelo. Si stupì di trovare la mano tiepida anziché viscida. Le piaceva quella sensazione. Le piaceva tutto del Bruno-Pesce come le piaceva tutto del Bruno-Umano. «Sei sul serio sempre tu?» gli domandò. «Non è che c’è una specie di Secondo Bruno che viene fuori quando ti trasformi e che quindi perde tutta la memoria del Bruno di prima?»

Bruno scosse la testa. Altra acqua gocciolò dai capelli d’alga e dalle orecchie a pinna. «No.» Sorrise, e di nuovo scoprì quella coroncina di luce perlacea che brillava in mezzo al blu delle labbra. «Sono sempre io. Il solito Bruno, te lo giuro.» Voltò la zampa, raccolse la mano di Valentina, e chiuse piano le dita, facendole sentire appena la debole e innocua pressione delle unghie a punta. «E tu sei Valentina. Sei nata il quattordici febbraio, il tuo gelato preferito è quello al pistacchio, il tuo più grande desiderio è avere una moto, sei appassionata di meccanica, da piccola eri brava a giocare a calcio ma eri anche troppo violenta, perciò preferivi giocare alla motocicletta mettendoti a cavalcioni sulle radici degli alberi. I tuoi migliori amici si chiamano Sara e Massimo. Adesso lavori all’osteria che si chiama Il Gabbiano d’Argento, il che è un peccato, a detta tua, perché non hai più occasione di fare scorpacciate di dolci e panini come quando lavoravi in panificio

Questa volta Valentina dovette proprio reggersi la pancia per contenere una risata senza ritegno. «Ehi, ehi, vacci piano.» Però si tenne aggrappata alla zampa di Bruno, rispose alla sua stretta e alla sua vicinanza. «Fra un po’ nemmeno io conoscerò tutte queste cose su me stessa.» Sollevò la zampa di Bruno davanti allo sguardo di entrambi. Distese le dita sul suo palmo e gliela fece divaricare, scoprendo il velo di pinna che cresceva anche fra le falangi. Glielo sfiorò con l’indice, percorse la consistenza simile a una pergamena umida, attraversò le sottili venature che si infittivano dove le dita di Bruno si separavano, e notò che… «Hai solo…» Piegò la testa di lato, inarcò un sopracciglio. Le contò di nuovo. «Quattro dita?»

Bruno ammosciò le orecchie e socchiuse una palpebra, spiazzato. La sua zampa fremette contro la mano di Valentina. «Sul serio è di questo che ti stai preoccupando?»

«Non è che mi preoccupa» protestò Valentina. «È che mi incuriosisce. Dove finisce l’altro dito?»

«Non hai più paura?»

«No.» E Valentina seppe di non averne per davvero. Strisciò in avanti con le ginocchia – al diavolo gli strappi sulla gonna – per essergli ancora più vicina. Strinse la zampa di Bruno fra i suoi palmi, come racchiudendola in un piccolo nido, e seppe di star ancora stringendo la mano di quel Bruno che non era mai scomparso. Era lui. Era sempre stato lui. «Perché so che sei tu.»

Il sorriso di Bruno però si affievolì. «Mi perdoni, Tina?» Lui abbassò le orecchie e chinò lo sguardo, di nuovo assumendo quella posa colpevole che lo aveva piegato quando si teneva nascosto sotto l’ombrello. «Mi perdoni per non avertelo detto prima?»

«Sì.» Valentina annuì. «Sì, perché ora me l’hai detto. Cioè…» Fece spallucce, le scappò un’altra ridacchiata. «In realtà l’ho scoperto io da sola, ma ormai non ci sono più segreti fra di noi, giusto?»

«Sì» rispose Bruno. «Giusto.» Di nuovo i suoi occhi aperti alla grigia luce della pioggia. Il brillare metallico delle iridi e l’infinito nero delle pupille a forma di spicchio. «Niente più segreti.»

Il cuore di Valentina accelerò, irradiato di fascino come lo erano i suoi occhioni incantati, mentre la pioggia continuava a cadere loro addosso, a scurire i loro abiti, a risplendere sul blu delle squame di Bruno, a gocciolare dai suoi capelli, e a picchiettare sulla sua coda che emise un altro fremito lungo la punta.

Bruno notò quel suo sguardo così fermo, intimo e avvolgente come un abbraccio. Forse lo fraintese. «Scusami.» Sorrise ma tornò a nascondersi. Si toccò la faccia, abbassò le orecchie e rimboccò il bavero della giacca attorno al collo, assumendo un’espressione triste e sola. Era di nuovo conscio del suo aspetto, di quella bizzarra nudità che lo rendeva diverso. «Sono orribile, vero?»

Valentina scrollò la testa con feroce convinzione, determinata a fargli dimenticare quell’assurdità. Avvolse le guance bagnate di Bruno e posò un bacio sull’umido e molle tepore delle sue squame, sentendo le sue orecchie fremere di emozione e schizzare goccioline d’acqua.

Bruno la circondò con un abbraccio tanto impetuoso da far ansimare entrambi. Se la strinse al petto – la coda curva attorno a lei e una zampa a reggerle la nuca – e le premette la faccia sulla spalla, facendole il solletico al collo con i suoi umidi capelli d’alga. Respirò forte, trasmise quel tremore al petto di Valentina, e gemette un singhiozzo disperato, forse commuovendosi. Forse aveva sempre sperato in qualcosa di simile. Aggrapparsi a qualcuno che lo accettasse in ogni sua forma, a un luogo sicuro, a un posto in cui finalmente fermarsi senza più sentire il bisogno di scappare, a quell’abbraccio che lei gli stava ritornando tenendosi aggrappata alle sue spalle e respirando sui suoi abiti bagnati.

Accadde proprio così.

Sopra di loro, la banchina del binario tremò al passaggio della locomotiva. Il vapore soffiò un fischio acuto che si lasciò dietro una scia bianca e vaporosa, il treno finì inghiottito dal nero della galleria, e proseguì il suo viaggio lungo la costiera ligure. La valigia di Bruno, abbandonata sulla piattaforma del binario, rimase con lui a Portorosso.

   
 
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