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Autore: LubaLuft    14/04/2024    2 recensioni
Sta per iniziare la finale fra l'Ali Roma e l'Asas Sao Paulo, e i nostri due beniamini sono pronti all'ennesima sfida...
Dal testo:
"Shoyo si voltò, aveva sentito un paio d’occhi blu bussare alle sue spalle.
Kageyama, che gli sembrava sempre più alto e piazzato nonostante avesse smesso di crescere da un pezzo, i suoi capelli neri allungati sulla fronte, l’espressione già concentrata e il suo sorrisetto sardonico e sbilenco che gli faceva girare le palle da una vita.
Si guardava tutte le sue partite e ogni volta che alzava sentiva i suoi piedi scattare sul pavimento come se volessero correre, impazienti di raggiungerlo.
Ma poi, nel tempo, aveva smesso di guardare la palla: guardava solo Tobio e l’arco perfetto delle sue braccia, il collo piegato, il piccolo rimbalzo sull’avampiede quando tornava sulla terra.
Guardava avido, triste, invidioso e appassionato, il corpo del suo nemico/amico/compagno/avversario. Non ne aveva mai abbastanza..."
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il Palalottomatica.
Uno strano edificio tutto di vetro.

“Andrà pure bene per giocare ma ha un’acustica terribile.” commentava Alessandro detto Lex, schiacciatore laterale dell’Ali Roma. “Qualche anno fa ci ho visto Santana, aveva un batterista che pestava di brutto, e un’altro po’ spaccava pure i vetri.”
“Già. Vedi di non spaccarli oggi tu con una pallonata!” Gli fece eco Nicholas, ex centrale dell’Amburgo, da quell’anno in squadra con loro.

Il palazzetto intanto si stava lentamente riempiendo, del resto era una finale importante, quella fra l’Ali e l’Asas Sao Paulo. 

Tobio aveva sentito Hinata via whatsapp ma non era riuscito a vederlo, dato che insieme alla sua squadra si era ritirato, subito dopo il suo arrivo, in un centro sportivo alle porte della Capitale, per allenarsi.

Di nuovo in campo, di nuovo a stabilire chi dei due vi sarebbe rimasto da vincitore.

Era carico a mille, impaziente di rivederlo, di giocarci contro, di parlarci, di chiamarlo boke. 

Sentiva che il fatto che fosse a Roma avrebbe sospeso per qualche giorno la sua strana condizione di giocatore immigrato, non integrato, ospite in una casa estranea.

L’avrebbe fatto sentire meno solo, insomma.

Era così che Tobio si sentiva ancora, nonostante l’accoglienza, il sostegno dei tifosi, l’adrenalina ancora in circolo per quella nuova avventura. Non era abituato alla confusione senza fine della città, al disordine del traffico, ai mezzi pubblici che non avevano orari, all’individualismo sfrenato di chi aveva intorno.

Aiutati che Dio t’aiuta, Chi vuole Cristo se lo prega, per citare le massime più frequenti di Lex.

Ma poi accadeva che Elide, la portiera del suo palazzo, lo fermasse e gli dicesse sulle scale Tobie’, te vedo sciupato! Non è che te stanno a fa lavora’ troppo?

All’inizio si irrigidiva davanti a quella confidenza non richiesta ma poi aveva ceduto a Elide-san, ai suoi modi spicci, che lo vedeva giapponese e senza famiglia e per di più sempre di corsa, sempre ad allenarsi, sempre a testa bassa.

“Tobie’, è arrivato l’amico tuo… aho’, che casino che fanno sti brasiliani!”

La voce di Lex e il suo dito puntato verso la panchina avversaria

Hinata, di spalle, i capelli al solito sparati ovunque, piccolo in mezzo ai giganti del suo club  ma più massiccio di come lo aveva trovato l’ultima volta. Fletteva le gambe inaspettatamente muscolose, scioglieva il braccio destro, si leccava le labbra. Impaziente.
Maglia numero 21.

Shoyo si voltò, aveva sentito un paio d’occhi blu bussare alle sue spalle.
Kageyama, che gli sembrava sempre più alto e piazzato nonostante avesse smesso di crescere da un pezzo, i suoi capelli neri allungati sulla fronte, l’espressione già concentrata e il suo sorrisetto sardonico e sbilenco che gli faceva girare le palle da una vita.

Si guardava tutte le sue partite e ogni volta che alzava sentiva i suoi piedi scattare sul pavimento come se volessero correre, impazienti di raggiungerlo. Ma poi, nel tempo, aveva smesso di guardare la palla: guardava solo Tobio e l’arco perfetto delle sue braccia, il collo piegato, il piccolo rimbalzo sull’avampiede quando tornava sulla terra. 

Guardava avido, triste, invidioso e appassionato, il corpo del suo nemico/amico/compagno/avversario. Non ne aveva mai abbastanza.

Si avvicinarono, all’altezza del palo, sotto l’asticella.

“Allora, boke, pronto a ricevere i miei servizi?”

“È solo pensando a quelli che mi sono ammazzato di ricezioni. Comunque, fai attenzione perché se ti sbilanci troppo a sinistra finisci dritto nelle mani di Alvarez, che le prende tutte. Poi, come ti dicevo durante la finale…”

Hinata, anche dopo mesi che non si vedevano, aveva la capacità di riprendere qualsiasi discorso esattamente dal punto in cui lo avevano interrotto. Era l’unica persona che lo faceva sentire come se il tempo non passasse ma si ripiegasse semplicemente su se stesso.

Bastavano la sua voce e l’odore di air salonpas e si tornava a scuola, al freddo di Myagi, alla stanza scalcinata del club che rimbombava del vocione di Daichi e delle risate sguaiate di Tanaka, ai nazionali, a ciò che lo faceva stare bene.

Non che non stesse bene, ma con lui che accendeva i ricordi stava effettivamente meglio.

L’arbitro fischiò.

“Sarò io a vincere, Cretiyama.

“Come ti sbagli, boke.

E, in effetti, Hinata si sbagliò, ma di poco. Al tie break, dopo aver raccolto un pallone praticamente perso con una ricezione che aveva del miracoloso, si preparò e saltò dalla seconda linea ma Lex e Nicholas, che se lo erano studiato per tutta la partita, compresero perfettamente dove l’avrebbe spedita e con quale tempismo. Il muro, preciso al nanosecondo, respinse la palla, non abbastanza sotto rete per i centrali, non abbastanza a centro campo per Alvarez ma dietro, in quel metro scoperto a fondo campo in cui non c’era nessuno.

La bandierina rossa si abbassò come una lama di ghigliottina.

21 a 19 per l’Ali Roma, il palazzetto che risuonava di vetro e metallo.

Onegai shimasu, quando si diedero la mano sotto rete.

“Sono arrivato di nuovo prima di te.”

“Sì, ma non ti ci abituare!”

“Riparti subito?”

“No, potrei restare un paio di giorni.”

“Allora resta.”


****


San Saba, un piccolo edificio di mattoni a vista, una piccola piazza. Tobio avrebbe potuto scegliere anche Trastevere, Parioli, Vaticano ma aveva deciso per un appartamento a un passo dal Circo Massimo, dove poteva andare a correre tutte le mattine. Si buttava poi sull’erba, a osservare il Palatino, il cielo azzurro e bianco.

Mentre salivano, per le scale si sentiva la voce allegra di Elide-san, affaccendata forse in qualche anfratto noto solo a lei.

Hinata era dietro di lui, con in mano un piccolo borsone con un cambio. Aveva lasciato il resto del bagaglio in albergo per farlo spedire a Milano, da dove sarebbe ripartito con la sua squadra due giorni dopo.

Tobio aprì la porta su un piccolo ingresso, in cui erano parcheggiati un mobile per le scarpe, dei pesi, una libreria e un pallone.

L’ingresso aveva una porta scorrevole che dava su una stanza grande, ordinata, nella quale c’erano una cucina a vista, un divano due posti, un televisore enorme, uno scaffale pieno di dvd di partite e riviste di pallavolo, un tavolo con quattro sedie.

Da lì, un’altra porta dava su un corridoio che conduceva a una unica camera da letto e a un bagno.

“E questo è tutto. È piccola, vero?”

“Sicuramente è più grande della mia.”

“Il divano letto è già pronto, bisogna solo tirarlo giù.”

“Ok. Che facciamo?”

“Se vuoi ce ne andiamo a piedi al centro, mangiamo qualcosa in giro.”

“In tutta sincerità, sono stanco. Ci ordiniamo qualcosa? Mi piacerebbe mangiare brasiliano… tu lo hai mai assaggiato?”

Tobio ci pensò e trovò la soluzione: un piccolo locale alla Garbatella che faceva cucina sudamericana. 

“No, ma so chi chiamare.”

Mezz’ora dopo divoravano Moqueca de Peixe annaffiandola di birra. Hinata rideva e commentava ricordi e momenti del loro passato al Karasuno. 

Mangiavano seduti sul tappeto davanti a un film di cui evidentemente non fregava nulla a entrambi, non avevano neppure apparecchiato e svuotato le vaschette dell’asporto. Siete due animali, avrebbe detto Tsukishima tirandosi su gli occhiali.

Shoyo osservava la sua gamba destra, stesa accanto alla gamba sinistra di Kageyama. La sua più corta e tozza, quella dell’altro più lunga e slanciata, si sfioravano impercettibilmente. 

La sua testa era leggera, appoggiato al divano, con il calore di quell’altro corpo a pochi centimetri.

Kageyama non poteva sapere quanto aveva dovuto faticare con il mister e l’organizzazione per poter restare a Roma un paio di giorni in più: aveva dovuto annullare una conferenza stampa per la tv brasiliana, un’amichevole a Milano e altre faccende di sport e immagine di cui non gli fregava minimamente.

Gli anni e i chilometri che lo avevano separato da Kageyama dichiaravano ora tutta la loro inutilità, in quella piccola casa romana.

Il cuore gli batteva forte, praticamente stava giocando il sesto set. Non poteva farci nulla se era innamorato di lui e se nessuno era stato mai in grado di sostituirsi a lui sul campo e nella vita. 

Così, il film inutile terminò senza lasciare rimpianti. Allora misero su la registrazione della partita olimpica fra Giappone e Argentina, che divenne una specie di documentario popolato di strani animali, alcuni mostruosi come Oikawa altri forse un po’ meno ma sempre insidiosi, che si sfidavano all’ultima schiacciata, l’ultima ricezione, l’ultimo tuffo per non lasciare cadere la palla, per non lasciare il campo.

“Mettiamoci sul divano, mi si è addormentato il culo” disse Tobio a un certo punto.

Continuarono con la partita finché Tobio non avvertì qualcosa che gli si appoggiava sull’omero. Hinata era scivolato lentamente nel sonno.

Spense la tv e gli restò seduto accanto. Di nuovo quella sensazione prepotente di non essere più solo, di essere a casa, e il sospetto che ci fosse altro che si infilava nella sua testa con altrettanta prepotenza, in quell’istante, a scaldargli i pensieri.

Un sospetto che durava da anni. 
Un sospetto che si trasformava in certezza.

Con la guancia gli sfiorava quei capelli senza senso, profumati di bagnoschiuma.

Si spostò piano per sentirselo meglio addosso.

Oggi, domani e poi basta, ognuno per conto proprio a giocare altrove la propria vita.

Il telefono vibrò. Un messaggio di Lex

Domani andiamo al mare, da quell’amico mio che ha lo stabilimento e il campo da beach volley. Dillo all’amico tuo che domani lo sdrumo!

Lex, sempre così pulito e immediato, chiaro, come le sue parallele che se ti finivano addosso ti ammazzavano.

Okay, rispose Tobio.

Si alzò piano per non svegliarlo. Lo spinse lentamente sul divano, facendogli scivolare un cuscino sotto la testa. Non faceva per niente freddo ma gli mise addosso un lenzuolo.

Spense la luce e se ne andò in camera sua, pieno di strani pensieri, e si addormentò a fatica.
 

Shoyo si svegliò per primo, forse a causa di quella posizione rannicchiata che aveva tenuto per tutta la notte.
Per i primi dieci secondi non capì dove si trovava, poi realizzò che era a casa di Kageyama e che Kageyama lo aveva messo a letto invece di prenderlo a calci.

A proposito, dov’era?

Si alzò e si affacciò sul corridoio. La porta del bagno era aperta, quella della stanza da letto accostata.

La aprì lentamente.

Kageyama dormiva a pancia in giù abbracciato al cuscino.

Stavolta era lui ad essere arrivato primo, ma forse nel caso del sonno quel tipo di sfida non valeva…

Arretrò per tornare in soggiorno, non voleva svegliarlo, ma mentre usciva sentì un ohi impastato di sonno che gli era sfuggito dalle labbra. 

“Ehm, scusa, volevo sapere se eri sveglio e potevo usare la doccia.”

“Non ti serve la doccia, andiamo al mare con Lex, a giocare a beach volley.”

“Gwaaah!” Esclamò Hinata.”Ma non ho il costume appresso!”

“Te lo presto io. Ti andrà abbondante, immagino.”

Kageyama gli scoccò un sorrisetto.

Shoyo realizzò che tutta quella conversazione stava avendo luogo con Kageyama che era ancora sdraiato a pancia in giù e con le braccia attorno al cuscino.

Quella posa involontariamente languida lo mise in difficoltà.
Distolse in fretta lo sguardo, la mente, il cuore.

“Faccio un caffè?” Propose.

“Ok. Le cialde sono nel primo cassetto.” 

Fecero una colazione veloce, poi Lex li raggiunse.


****

In macchina, Hinata tentò di capire l’italiano applicando le sue competenze di brasiliano e la cosa li divertì alquanto, poi Lex fece partire a palla Ja sei namorar dei Tribalistas e Hinata iniziò a cantarla. 

“Daje Sho’, facce sogna’!!” lo incitava Lex. “Ma poi, che dicono? What are they singing about?”

E Hinata lo spiegò in anglobrasiliano.

 

“Dice: Già so amare
già so baciare con la lingua
adesso devo solo sognare
già so dove andare
già so dove stare
adesso devo solo partire

Non ho pazienza per la televisione
E non do retta alla solitudine
io sono di nessuno
io sono di tutto il mondo
e tutto il mondo mi vuol bene
io sono di nessuno
io sono di tutto il mondo
e tutto il mondo è anche mio”

“Ah… un po’ come ‘na mignotta, insomma? Do you know the word mignotta?”

E glielo spiegò. Hinata rise mentre Tobio si passava una mano sugli occhi scuotendo la testa, ma alla fine non riuscì a frenare neanche lui una risata. 

“E poi: Ti voglio
come nessuno
ti voglio
come Dio vuole
ti voglio
come io ti voglio
ti voglio
come si deve”.

Shoyo cantò l’ultimo verso quasi a se stesso mentre osservava il profilo sorridente di Kageyama. Ti voglio come ti voglio, ti voglio come si deve. Adesso devo solo partire. Domani, per l’esattezza, ma che differenza faceva?

Arrivarono che era quasi ora di pranzo e si tuffarono in piscina. 

Pranzarono con appetito e dopo aver rifatto un bagno, si spostarono sul campo da beach volley dello stabilimento.

L’amico di Lex, Lucio, il gestore dello stabilimento, aveva giocato in A2 ed era in alzatore niente male.

“Come ci organizziamo? Voi giapponesi volete fare coppia?”

Shoyo scambiò uno sguardo eloquente con Kageyama, che colse immediatamente.

“No. La nostra sfida continua. Vero, boke?”

“Assolutamente sì, Cretiyama.”

Le due squadre erano abbastanza equilibrate, dal momento che Kageyama e Lex non erano proprio abituati alla sabbia ma erano più alti, mentre Lucio e Shoyo avevano più dimestichezza con quel tipo di campo.

La partita fu combattuta dal primo all’ultimo punto. Giocavano talmente bene che furono presto circondati da bambini estasiati, bagnanti curiosi e tante, tante ragazze.

“Oooh ma quello è Kageyama dell’Ali Roma! E c’è pure Alessandro!!”
“Ragazzi, che ficata!”

"Tobiooo, Tobiooo!”

“Hai capito l’amico tuo…” scherzava Lex “Ci dà con le donne, eh?”
“Già. Però aspetta, che ora lo faccio incazzare! Ehi Kageyama! Somigli sempre di più a Oikawa!”

E Shoyo si prese in risposta tutto il suo sguardo torvo, blu come il lapislazzuli, magnetico come il nucleo della terra. Adorava la sua espressione furiosa, che l’età e l’esperienza non avevano addolcito affatto ma reso più virile. Avrebbe voluto le sue mani addosso, provava un desiderio inutilmente infantile di toccarlo ed essere toccato da lui. 

“Ohi…”
“Ok, ok, scherzavo…!"
“Ecco, ora va meglio.”

Si tennero l’un l’altro alle costole fino all’ultimo punto, ma Lex saltò più in alto e segnò.

Game over.

“Sono arrivato di nuovo prima di te!” Esclamò Tobio, ma stranamente il viso di Shoyo non sembrava particolarmente infastidito. Anzi, tutt’altro… sembrava altrove. Forse si era rotto le palle di giocare e voleva fare altro.

“Ehi, ci prendiamo qualcosa da bere?” propose.

“Volentieri” rispose Lex “Però per le sei vorrei riprendere la strada per Roma, che stasera c’ho da fa danni… do you know danni, Shoyo? It means that I am seeing some girl”
“Oh, I see… “ rispose Shoyo, che però guardò Kageyama con una domanda che non riusciva a reprimere.

“Anche tu vuoi fare danni?” Gli chiese allora.

Kageyama lo guardò interdetto. “A dire il vero, vorrei restare qui ancora un po’. Possiamo prendere il treno fino a San Paolo. Da lì siamo vicinissimi a casa. Sempre se non vuoi andare tu a fare danni.”
“Regà, no eh? Io i danni li vado a fare da solo! Com’è che si dice da voi? Wakarimasu ka?
Hai, wakarimasu!” rise Hinata.

Si salutarono e mentre Lex riprendeva l’auto, tornarono in spiaggia.

“Andiamo a fare una corsetta a riva?” Propose Hinata.

“Ok.”

Dopo un chilometro, si fermarono per un tuffo.

“Beh, boke, è da ieri che ti passo continuamente avanti. Ho vinto il mondiale, e anche questa importantissima partita sulla sabbia! E poi prima di te sono entrato nella V-League e in nazionale…”
“Cos’è, mentre cresci ti si rimpicciolisce l’autostima e devi tirartela?” Rispose acido Hinata, ma si vedeva che era divertito. “E sentiamo, in cos’altro mi saresti passato avanti?”

“Beh… se ricordo bene, anche agli esami…”
“Quello non vale.” Hinata abbassò lo sguardo sulle sue mani che giocavano con la sabbia. Anche la sua voce si era abbassata e come intristita. 

Tobio pensò che non erano affari suoi, ma una domanda voleva fargliela ed era una domanda che andava oltre la pallavolo, oltre l’Hinata con cui si confrontava in campo.

“Senti, boke, come ti va la vita, in generale?”

Shoyo si stupì di quella domanda ma rispose con sincerità.

“Tutto sommato bene. Ma a volte mi sento solo.”

Tobio era curioso e voleva andare a cercarsela.

“Nessuna storia…?”

Hinata sorrise

“Oh, sì ho avuto di recente una specie di relazione sentimentale…”

La notizia trapassò Tobio e andò a conficcarsi nella sabbia della piccola duna alle sue spalle. 

Perché non glielo aveva mai detto?

Si accorse che gli occhi di Hinata erano ora fissi su di lui con malcelata curiosità. 

“E tu? Dai. Dimmelo!” Incalzò Shoyo. Improvvisamente era un’informazione per lui vitale sapere se anche Kageyama aveva avuto una storia sentimentale. Il letto in camera sua era ad una piazza ma nel divano letto ci si stava comodi anche in due…

“No. Mai…” rispose lui bruscamente.

Tobio mandò giù l’amaro calice, per non averlo preceduto e, soprattutto, perché qualcun altro aveva preceduto lui!

L’idea che le labbra di Hinata avessero incontrato altre labbra lo turbava, lo ingelosiva, lo portava più lontano di quanto non fosse già nonostante ce lo avesse davanti.

“Mah” continuò Hinata “Secondo me, Wakatoshi sta messo peggio di te. Quello vede solo le Mikasa, palleggia solo con quelle!!”

Scoppiò a ridere lasciandosi andare giù di schiena sulla sabbia.

Anche Tobio rise, l’idea di Wakatoshi che baciava una Mikasa era comica.

Poi tornò serio.

“Com’è?” Chiese.

“Bello, credo, se sei innamorato. Io però non ero innamorato di quella persona. Credo fosse una specie di rimpiazzo. È brutto dirlo ma è così.”

“Perché un rimpiazzo?”

“Mi sentivo solo e la persona che mi piaceva davvero era troppo lontana. In tutti i sensi… credo.”

“Ma questa persona lo sa?”

“No.”

Restarono in silenzio, poi Shoyo ebbe l’illuminazione.

“Ma allora… stavolta sono io a precederti!” E scoppiò a ridere.

Tobio, infastidito, scattò in piedi.

“Beh, non proprio. Se non lo sa è come se non glielo avessi mai detto. Quindi stai messo come me!”

Anche Shoyo scattò in piedi.

“Non proprio lo dico io: io ho già fatto sesso e tu no. E non valgono le seghe. O forse valgono solo per quelli come Wakatoshi!”

Tobio strinse i pugni. La notizia che Hinata era stato con qualcuno lo metteva ko. Era sconvolto, e rabbioso anche.

Shoyo notò quell’espressione incavolata e sfuggente sul viso di Kageyama e per un istante sperò che lui ci fosse rimasto male per la cosa in sé e non perché fosse rimasto indietro rispetto a lui.

“Non hai vinto!” Sibilò Kageyama “Fare sesso tanto per farlo è come farsi una sega!”

“Invece sì, ho vinto!”

Il sole iniziava a calare e ripartiva l’ennesima sfida. Kageyama lo guardò e poi gridò “ALLA BARCA!” e scattò di corsa verso una barca capovolta distante da loro poco più di mezzo chilometro.

Arrivarono entrambi allo stesso momento. 

Esausti, si accasciarono accanto allo scafo.

 

Shoyo osservava Kageyama. Il sole ormai andava giù e gli lasciava sui capelli qualche raggio rosso, gli infuocava le guance, lo trasformava nell’immagine perfetta che gli faceva ballare il cuore.

Kageyama allora parlò quasi fra sé, guardandosi i piedi insabbiati.

“Credo che nessuno dei due riuscirà ad arrivare per primo.”

“A che cosa ti riferisci?”

“Alle questioni sentimentali. Come quando ti tocca la battuta e non hai il coraggio di andarci giù potente perché temi un fuoricampo. Semplicemente, non lo fai perché hai paura.”

Fu allora che accadde. 

Shoyo intercettò il raggio verde, l’ultimo colore del sole, come la speranza che sentiva invaderlo. Prese una decisione.

“Tobio… io non mi arrendo alla paura. Ricordi? Sono basso, ma posso saltare in alto e ora… lo faccio!”

Si allungò verso di lui e lo baciò.

Morbidezza e sale sulle sue labbra. E silenzio, soprattutto, perché Tobio, il suo Tobio, non parlava più dopo quell’incursione, parlavano solo i suoi occhi blu senza misura, tanta era la meraviglia.

Lui, il rimpiazzo, si chiamava Gilberto” Confessò Shoyo. 

Tobio gli prese il viso fra le mani e decise di rischiare anche lui. 

Era più grosso e lo tirò giù sulla sabbia.

Shoyo non disse più nulla, ma allungò una mano sul suo viso e lo investì in pieno con un sorriso e Tobio ebbe di nuovo la sensazione di essere a casa.

Si calò di nuovo su di lui, sulla sua bocca salata.

Le mani di entrambi iniziarono a muoversi e i granelli di sabbia fine che avevano addosso creavano attrito, scatenando brividi, i costumi erano bagnati e freddi ma sotto la pelle bruciava.

Bruciava tutto, la spiaggia, il cielo, il mare. Bruciavano le parole ormai inutili, in quel momento nel quale le bocche servivano ad altro, ad assaggiare pelle e sabbia.

“E comunque ho vinto io.” Disse Tobio serio, dopo un tempo infinito, la voce che veniva da un altro pianeta.
“No… io.”
“No… io!”
“E sentiamo… quando te ne saresti accorto?”
“Sicuramente prima di te!…”

E la serata passò così, a sfidarsi l’un l’altro, e poi ancora la notte, con altre sfide, prima sul letto di Tobio e poi sul divano, che era oggettivamente più comodo.

Al mattino, Shoyo partì molto presto.

Più tardi, Tobio uscì per la sua solita corsetta per il Circo Massimo, ma stava talmente bene che decise di tirare fino a Caracalla.

Elide-san lo aspettava al varco nell’androne del palazzo.

“Tobie’, te vedo sciupato… ma felice. Se vedeva che te mancava un pezzetto, eh? Bel pezzetto poi! C’aveva un sorriso…”

E lasciò Tobio paonazzo, mentre spariva per le scale cantando Fiore de saleeee… d’amore nun se moreeeee…


FINE





 
   
 
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