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Autore: lucille94    16/04/2024    0 recensioni
"A volte raccontare una storia è il solo modo per comprenderla."
Oscar è un fresco diciottenne che vorrebbe godersi l'estate della maggiore età con una frizzante vacanza a Ibiza con gli amici. Non sa che il suo destino lo attende in un luogo ben diverso e sotto un nome che non dimenticherà mai: Cassandra.
Il suo cammino incrocerà quello di lei, cominciato molto tempo prima e rimasto incagliato in una tragedia tutta da scoprire attraverso i ricordi di un'esistenza lontana come un sogno sul far del mattino, ricordi in cui entrambi si immergono grazie alla forza del legame che li unisce.
Dopotutto, se si sono incontrati, è per un puro e semplice motivo: Cassandra è morta.
E Oscar deve guidarla alla ricerca della propria storia attraverso le trame della sua memoria perduta.
Genere: Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Erano dodici: dodici paia di mani si muovevano tra l’erba riemergendo con movimenti estenuantemente lenti. Il terreno bagnato si smuoveva facilmente, si faceva modellare come burro. Alla pallida luce del temporale, talvolta rischiarate dai lampi, le mani si spingevano fuori. Man mano apparivano i polsi, le braccia, i gomiti; a un tratto cominciarono a spuntare le teste.

Non so come non persi i sensi di fronte a quella scena da film horror a cui nessuno sarebbe stato preparato, figurarsi io che ero lì solo per girovagare tra le rovine. So solo che di punto in bianco le mie gambe cedettero e mi ritrovai inginocchiato ai piedi dell’ulivo a contemplare allucinato: erano giovani donne d’argento. D’argento era la loro bellissima pelle senza macchia o difetto, d’argento i capelli e d’argento le iridi degli occhi languidi con cui mi fissavano; d’argento le labbra socchiuse, esauste, che si muovevano senza riuscire a emettere suono.

La giovane più vicina, puntando entrambe le mani per terra, fece forza per trarsi fuori, ma ricadde stremata dopo un piccolo tentativo.

«Prendimi con te, salvami!» proruppe a fatica, prima di reclinare il capo sul petto e sospirare. Un’altra, udendola, si protese con entrambe le braccia nella mia direzione: «No, prendi me!» disse. «Prendimi e portami via, ho atteso più tempo di lei!»

Erano emerse dalle spalle in su e, per quanto tentassero, non riuscivano a fare di più. Presto, tutte cominciarono a rivolgermi le loro preghiere, ma io ero così stordito che non osavo muovermi, figurarsi rispondere!

Ormai ero rassegnato: rassegnato a morire. Cos’altro poteva essere questo se non l’inizio della mia fine? Sudavo freddo e la testa voleva scoppiarmi. Non aspettavo altro che il momento in cui sarebbe successo.

Invece, con un anelito di vento che mi percosse in pieno il viso spruzzandomelo di pioggia, mi arrivò un profumo di fiori impossibile da ignorare. Scrollai le spalle e la testa e, con gli occhi stanchi e le palpebre pesanti, mi sforzai di guardare di nuovo verso il castello, oltre le fanciulle d’argento, oltre gli stipiti di pietra, per affondare di nuovo nell’oscurità dei ruderi.

In un primo tempo, la mia vista era confusa e mi parve che una nebbia aleggiasse tra le mura; quando affinai lo sguardo concentrandomi, definii i contorni di una figura in piedi, languidamente appoggiata proprio allo stipite del portone principale, intenta a sbirciare quanto stava accadendo all’esterno con l’aria di chi ormai è abituata a simili spettacoli. Rimasi colpito dalla grazia che quella figura sconosciuta emanava da sé; mi colpì ancora di più il moto istintivo con cui si scosse allorché si accorse di essere stata notata da me. La mano con cui prima accarezzava la pietra dello stipite rimase sospesa a mezz’aria per qualche istante, prima che lei la abbassasse.

Si mosse con urgenza per venirmi incontro, come non avesse mai aspettato altro in vita sua: era un’altra ragazza, una ragazza d’argento che la terra non aveva inghiottito. I suoi capelli erano lunghi e sciolti, e le cadevano lungo la schiena in dolci boccoli. Indossava un’ampia veste bianca che le lasciava scoperte le caviglie e i piedi nudi, e le maniche, ampie e vaporose, disegnavano a malapena la linea delle sue spalle e delle sue braccia.

Percorse la distanza che ci separava con un’andatura tanto delicata da parere volasse, invece ogni suo passo toccava terra scostando l’erba proprio come avrebbe fatto chiunque. In breve mi fu di fronte, ma io mi trovavo ancora in ginocchio, impietrito dalla paura o dalla meraviglia. La vidi esitare solo allora, soffermarsi un secondo a guardarmi: evidentemente, qualcosa di me la turbava.

Poi, flebilissima, udii la sua voce dirmi: «Se nel vostro cuore palpita un poco di compassione, vi prego di aver pietà di queste miserelle che vi supplicano». E parlando mi mostrò il palmo della sua mano destra nell’atto di offrirmi aiuto per rialzarmi. Fu un gesto tanto gentile che mi fu spontaneo corrisponderle: mi accorsi subito che era fredda, per non dire gelida, in modo innaturale. Mi diede un tuffo al cuore toccarla, e anche lei sobbalzò di sorpresa. Mi sollevai senza pesarmi su di lei perché avevo paura di romperla come un cristallo al minimo movimento azzardato; quando tornai a guardarla, vidi che era più bassa di me poco meno di una spanna (io ero alto circa un metro e settanta all’epoca) e trovai conferma al fatto che anche i suoi occhi, come quelli delle altre ragazze, erano del colore dell’argento, senza sfumature e con la pupilla nera in netto contrasto con l’iride, quasi che il suo sguardo non avesse profondità umana.

«Che cosa siete?» domandai in modo molto maleducato. Lei contrasse leggermente le sopracciglia. «Che siam noi? Oh, via, siamo noi persone pari vostre, fanciulle. O che altro potremmo noi essere?»

Angeli, fate, visioni ultraterrestri… avrei avuto un sacco di ipotesi valide. Tuttavia, la sua risposta in qualche modo mi soddisfece e tranquillizzò. L’albero di ulivo ci offriva ancora protezione contro la pioggia, che si era fatta più fitta e insistente, ma non era il rifugio più indicato in caso di temporale: era isolato e sulla cima di un’altura, ottimo bersaglio per i fulmini.

Stringevo ancora la mano della ragazza d’argento e, ormai riavutomi dallo spavento e premuto da cose più urgenti, dissi: «Andiamo, o finiremo fritti se restiamo qui».

Mi incamminai e lei mi seguì mansueta, senza obiezioni. Le sue compagne di sventura, zittite dall’apparizione di lei, accennarono un leggerissimo inchino del capo e si abbandonarono all’indietro, come volessero sdraiarsi. Il terreno le accolse in sé e le ricoprì, sicché quando mi gettai un’occhiata alle spalle prima di tornare nel bosco dalla strada per cui ero venuto, le zolle erano smosse, ma nessun’altra traccia di loro era rimasta. Qualche passante distratto, forse, avrebbe potuto pensare all’opera di qualche cinghiale ruspante.

Come la ragazza d’argento non aveva opposto ragioni alla mia iniziativa, così neanch’io pensai a quanto fosse strano andarsene in giro io e lei, per mano, finché non intravidi dietro le ultime fronde verdi scosse da vento e pioggia i muri del paese.

Fu solo allora, appena prima di uscire allo scoperto, che mi resi conto di dover prima capire cosa stesse accadendo. Mi fermai così all’improvviso che lei mi superò di un passo prima di imitarmi con aria interrogativa. Anche questa volta, però, non osò lamentarsi o chiedere il motivo del mio brusco cambio di intenzioni.

«Ma tu, esattamente, cosa vuoi da me?» domandai a mezza voce, da buon maestro di educazione ed eleganza. La sua espressione si fece ancor più dubbiosa; abbassò gli occhi ed emise come uno squittio, un singhiozzo, quindi tornò a guardarmi. «Non lo so.»

«Aspetta un momento…» dissi allora, più a me stesso che non a lei. Mi portai la mano all’orecchio destro e la premetti forte, poi la ruotai nei due sensi con energia; non contento, scossi la testa due o tre volte. «Puoi parlare ancora?»

«Non so che dire…»

Se non avessi visto le sue labbra muoversi, avrei potuto pensare di aver immaginato di sana pianta il nostro breve dialogo. Invece lei parlava, solo che…

«Qualcosa non va, forse non mi sento bene», bisbigliai, cercando il primo appoggio buono per sedermi; mi appollaiai sul tronco fradicio di un albero ricurvo e presi un profondo respiro. La sentivo nella testa, ma non con l’udito. La sua voce rimbombava dentro di me come se fosse la voce della mia coscienza.

«Non vi sentite bene?» domandò in un sussurro che fu a malapena distinguibile anche per me: ciò che mi permetteva di distinguere i miei pensieri dalle sue parole era il suo tono femminile, nonché il suo accento e il suo modo di intonare le frasi.

Le risposi con un’altra domanda: «Ma come fai a non sapere quello che vuoi da me? Perché mi hai seguito?» Lei, di rimando, si chiuse su di sé, si fece piccola come un riccio impaurito.

«Ehi?» la richiamai a me, un po’ pentito dei miei modi non proprio signorili. Quando riebbi la sua attenzione, continuai: - Almeno mi dici come ti chiami?»

Ecco di nuovo i suoi occhi su di me.

«Cassandra» disse.

Subito pensai “Ma certo! È ovvio che si chiama così!”. Non sapevo perché mi venisse da pensarlo, e nemmeno mi importava.

«E quanti anni hai?» le chiesi ancora. Ed ebbe un’altra esitazione: lo capii perché i suoi occhi si mossero prima da una parte, poi dall’altra, corsero sulle sue dita per contare e poi tornarono su di me. A quel punto disse: «Vuo’ tu sapere quant’anni ho o quant’anni avrei adesso?»

Ristetti un momento considerando per la prima volta quella logica distinzione. Era venuto il momento di farsene una ragione e accettare la realtà: stavo avendo a che fare con un fantasma.

«Quanti anni hai?» confermai con un cenno affermativo della testa.

«N’ho sedici», rispose puntuale, ma senza guardarmi.

«E quanti anni avresti adesso?» domandai a quel punto. Si fermò a contare di nuovo, ma rispose quasi subito, sempre senza guardarmi: «Dovrei averne trecentosessantaquattro».

Il conto era presto fatto: doveva essere nata attorno al 1650, forse 1648 o 1649 per la precisione; ma sapevo, e ora lo so ancora meglio, che tenere memoria precisa della data di nascita era cosa tutt’altro che scontata, e inoltre il calendario era articolato diversamente in passato, facendo sì che il Capodanno non cadesse tra il 31 dicembre e il 1° gennaio.

«Può darsi che…» cominciò a dire Cassandra, strofinandosi delicatamente le mani lungo le braccia, «Può darsi che quel che vogliamo da te sia che tu ci salvi.»

«Salvarvi? E come? Da che cosa?» protestai lamentoso. «Ti ho appena incontrata, non ti pare di chiedere un po’ troppo?»

Mi sentivo sbiancare a ogni secondo che passava; i miei occhi saettavano spesso da lei alla strada che avrei dovuto percorrere, prima o dopo, per tornare a casa. Cassandra se ne accorse. «Vivi tu qui?»

«Ehm… temporaneamente. Sono qui adesso ma non ci abito tutto l’anno, anzi, per la verità sarà la terza volta che vengo qui in tutta la mia vita.»

«Come dici? Ma se…»

«Tra tre o quattro giorni partiremo per tornare dove abitiamo, su, in Lombardia. Non ti dico dove, tanto il nome della città non ti direbbe niente…»

Cassandra spalancò gli occhi. «Oh, no! Ti prego, per la bontà del Cielo, non lasciarmi qui sola, ora che m’hai tratto con te fin qui…»

«Vorrei aiutarti, davvero, ma tu non ti rendi conto!» balbettai, di nuovo in preda alla paura. «Io non capisco, non so chi tu sia, non so in che modo potrei esserti utile…» Quindi, voltandomi di spalle e parlando sottovoce, aggiunsi: «Chi me l’ha fatto fare?»

Cassandra dovette rianimarsi al sentire quelle mie parole, mi afferrò per il braccio e mi balzò davanti con insospettabile agilità per dirmi: «Siam legati, noi. Dacché m’hai dato la mano, ma già prima, noi siamo tutt’uno, il tuo fato è il mio, non ci si può dividere. Foss’anche che dovrai partire, vuol ciò dire che verrò con te».

Scossi anch’io animosamente la testa: «Non se ne parla proprio! Dove ti porto?! Ti pare normale che vada in giro con un fantasma…?»

La vidi diventare livida tutto d’un colpo; con un filo di voce affilato mi corresse: «Non sono un fantasma. Sono un ispirito».

Mi calmai di fronte alla sua fermezza. Non avevo capito che dietro la sua apparente fragilità si nascondeva un carattere così consapevole e orgoglioso e questo tratto me la rese ancora più simpatica. Tuttavia, il pensiero di doverla portare a casa con me, col rischio che i miei genitori la vedessero, mi assillava al punto da farmi sudare freddo. Non avevo scampo in nessun caso, perciò mi feci coraggio e pensai tra me e me: “Sarà il caso di tornare, vedremo come andrà”.

E lei, senza che io rivelassi nulla, cambiò l’aria imbronciata con un bel sorriso, uno spiraglio di gioia del tutto nuovo. «Grazie!»

   
 
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