Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: Clay92    17/04/2024    0 recensioni
Ho 28 anni, sono una ragazza come tante, niente caratteristiche particolari, niente successi da ricordare, non ci saranno opere o monumenti dedicati in mia memoria. Non vincerò un nobel o un oscar. Di ragazze come me, con una storia come la mia o forse peggio ce ne sono a migliaia, eppure oggi sento il bisogno di raccontarmi. Quando hai una vita come la mia, pensi sempre di esserti ormai abituata al peggio, sei convinta che niente possa più ferirti, deluderti o spezzarti. La vita però, così come la mia famiglia, è sempre pronta a sferrarti dei potenti ganci. Quando ormai pensavo che non si potesse toccare di più il fondo, quando ormai pensavo di aver sconfitto i fantasmi che mi portavo dietro ecco che proprio come una soap opera scadente, arriva l’ennesimo colpo di scena. Gli scheletri sembrano infiniti e alcune rivelazioni fanno più male che altre. Sono nata e cresciuta in un covo di vipere, circondata da tanto fango, le persone che mi hanno aiutato ad uscirne si contano sulle dite di una mano. È per me e per loro che oggi voglio raccontare la mia storia e soprattutto perché sono stanca che gente come “i Forrester dei poveri”, così
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
A diciassette anni nonno Armando scoprì di avere un tumore alla pelle. Per fortuna non fu niente di grave. Venne operato e filò tutto liscio e tirammo un sospiro di sollievo. Quell’anno zia Angela rimase incinta di due gemelli, purtroppo ne perde uno a inizio gravidanza e a dicembre nasce Alexander. La nascita di Fufi fu l’unica notizia positiva di quell’anno.


Qualche mese prima, mia madre mi venne a prendere alla metro, cosa non da lei, e nel parcheggio, una volta salite in macchine, iniziò a piangere a dirotto. Non ne capii il motivo finché non trovò il coraggio di darmi la notizia. Nonno Armando aveva un tumore alle ossa, era inguaribile, gli rimanevano dai quattro ai sei mesi di vita. Abbracciai mia madre, che nel corso degli anni avevo smesso di chiamare Psyco. Avrei voluto dirle che sarebbe andato tutto bene ma era una menzogna per cui le disse la cosa più logica: vedrai la supereremo insieme.


Io non piansi. Lo so può sembrare strano. In quegli anni tornai a vivere con i miei nonni. Andavo nel week end a casa di mia madre e durante la settimana dormivo a casa dei nonni o da nonna Matilde. Mio nonno era diventato il mio migliore amico. Lui stava sempre al bar finito il lavoro e quando io passavo di lì mi offriva sempre l’Estathè e io non perdevo occasione per andarlo a salutare. Nonno era anche il mio pusher di sigarette. Prendendo tutte e due la mattina la stessa metro lo incontravo spesso e se non avevo soldi per le sigarette o mi facevano storie per l’età mandavo lui. Ogni volta gli davo due euro per il pacchetto da dieci che condividevo con Jessica ma lui me li restituiva e mi comprava quello da venti. Ovviamente era il nostro segreto. Anche quando avevo smesso di fumare e poi avevo ripreso lui era stato il primo, dopo nonna Matilde, a saperlo e come sempre mi copriva. A volte capiva anche quando fingevo il mal di pancia e mi faceva da spalla con nonna Genoveffa e mamma. Mio nonno era famoso per due cose: il russare e per il dormire in piedi in metro. Come riuscisse a stare in equilibrio in metro tra le varie frenate e poi svegliarsi alla fermata giusta rimane ancora un mistero. Ma soprattutto, esattamente come nonno Marco, ho un ricordo particolare nel cuore dedicato lui. Una sera dopo essere andata a vedere la partita di calcio allo stadio tornai a casa in lacrime. Avevo avuto una delusione d’amore e quando tornai a casa andai dritta a piangere fuori a balcone nonostante piovesse. Ero ancora tutta imbacuccata con sciarpa e cappello e cercavo disperatamente di accendere una sigaretta. Nonno si svegliò e senza fare domande prese una sedia e un ombrello. Venne fuori al balcone con me e mi si mise vicino. Si sedette sulla sedia e aprì l’ombrello riparandoci entrambi. Restammo fuori in silenzio per parecchio tempo. Non mi chiese niente, non volle sapere niente. Quando finii tutte le lacrime che avevo in corpo rientrammo e prima di andare a letto mi disse semplicemente: domani avrai sicuramente mal di pancia. Io penso alla nonna tu però poi chiami tua mamma e l’avvisi di non essere andata a scuola.


Nonostante ciò che dissero i medici mio nonno dopo quattro mesi era ancora con noi e riuscì a partecipare al mio diciottesimo. Fu un bellissimo compleanno. Ricordo le lacrime di quella sera. C’erano tutti i miei parenti, erano tutti lì per festeggiare me, mi sentii importante. Mio zio Matteo mi dedicò persino la canzone di Eros Ramazzotti “più bella cosa” .  Nonna Matilde mi regalò il mio primo pc portatile e le feci fare una figuraccia perché sorpresa da quel gesto esclamai: nonna non dovevi, ti sarà costato tantissimo e non navighiamo nell’oro. La quale mi rispose: Tata muccala, ti sembrano cose da dire!


I miei nonni invece mi regalarono dei soldi. Quando aprii la busta non riuscii a trattenere le lacrime. Andai subito ad abbracciarli e a dirgli che dopo tutto quello che stavano facendo per me, che già vivevo con loro, non avrebbero dovuto farmi niente. Fu la seconda volta che vidi mio nonno piangere per me. C’eravamo commossi.


Una settimana dopo il mio diciottesimo litigai con Michael, con il quale nel frattempo ero tornata insieme dopo la storia di Federico. Mi lasciò per uno sbaglio mio che feci tra l’altro in un periodo in cui non stavamo insieme. Ero troppo innamorata però per rendermi conto che avrei dovuto mandarlo solo a quel paese. Lui non si era nemmeno presentato al mio diciottesimo facendomi non solo restare male ma anche facendo una figuraccia con mia madre e le mie zie che non vedevano l’ora di conoscere il ragazzo con cui stavo ormai insieme da quattro anni. Nonostante questo e il fatto che mio nonno potesse andarsene via da un momento all’altro la mattina dopo il litigio mi svegliai alle sei, andai da nonna Matilde a prendere i soldi del compleanno e il libretto postale. Dissi a lei e ai nonni che sarei andata con la mia migliore amica Marta a un concerto a Como. Mi credettero subito, io e Marta eravamo famose per le ore di attesa agli instore dei vari artisti e gli inseguimenti al taxi di Marco Carta. Eravamo già state a Como per un concerto. Invece andai in centrale da sola e presi il treno che mi portò giù in Puglia. Ai tempi non esistevano power bank e non c’erano porte usb dove ricaricare il cellulare. La mattina mamma mi ordinò di andare a cena a casa di una zia perché era il suo compleanno e io le risposi di no. Partì come sempre un litigio e così spensi il telefono. Lo riaccesi solo più tardi, a metà del viaggio e mi chiamò la Falsona. Voleva uscire e quando gli dissi che non potevo e non potendo usare anche con lei la scusa di Marta, visto che era anche sua amica, le dissi la verità. Risultato? Poche ore dopo mia madre mi stava minacciando di mandarmi i carabinieri perché sapeva dove mi stavo dirigendo. A volte mi chiedo se mia madre usasse la bocca tanto per dare fiato. Avevo diciotto anni, mi ero allontanata liberamente da casa, avevo i soldi, lei sapeva dove mi trovavo i carabinieri non avrebbero potuto fare niente. Quando arrivai dopo otto ore di viaggio mi catapultai in braccio a Michael. Una volta che mi chiarii con lui feci la ricarica al cellulare e mandai un messaggio a mia madre. Giocai sporco, lo so, in quel messaggio gli spiegai il mio gesto e poi conclusi dicendole che anche mio padre per lei avrebbe fatto lo stesso, e infatti si addolcì e mi lasciò stare. Una volta fatto questo però i sensi di colpa iniziarono a divorarmi l’anima. Da quando avevo saputo della malattia del nonno non mi ero mai staccata da lui. Mi ero ritirata da scuola perché appena prendevo il pullman mi venivano attacchi di panico. Il giorno che mamma mi disse della malattia mi ero ripromessa solo una cosa, non avrei pianto ma avrei passato ogni giorno con mio nonno per costruirmi ricordi indimenticabili, per piangere avrei avuto tutto il tempo una volta che lui se ne fosse andato. Come se non bastassero i sensi di colpa il cellulare si scaricò e nessuno aveva un carica batterie e quindi non potevo sapere come stesse nonno. Michael mi regalò anche le fedine e un pupazzo di Hi-Ho. Erano i miei regali di compleanno. Il giorno dopo tornai a Milano pronta agli schiaffoni di mia madre che invece non arrivarono. Presa da quel buon umore raccontai tutto quello che avevo fatto sfoggiando la fedina, a quella vista mamma per poco non svenne, pensava che mi fossi sposata. Quando chiesi di mio nonno mamma disse che stava bene e tirai un sospiro di sollievo. La sua reazione, la paura di averlo deluso mi fecero tremare le gambe una volta arrivata fuori alla porta di casa. Venne nonna Genoveffa ad aprire che mi girò la faccia dicendomi che lei non mi avrebbe più rivolto la parola. Sai che peccato o che disgrazia. Manco avessi ucciso un uomo. Nonna Matilde mi guardò solamente, non era arrabbiata ma piuttosto confusa e forse un po' si sentiva tradita perché era la prima volta che le mentivo così. La verità è che non le dissi niente perché sapevo che mamma se la sarebbe presa con lei e in qualche modo volevo proteggerla. Sapevo che il primo posto in cui sarebbe andata a cercarmi e scoprire dove fossi era proprio da nonna Matilde. Quando entrai nella stanza del nonno avevo paura. Lui però appena mi vide si alzò dal letto mettendosi seduto e mi disse come se fosse del tutto normale: sei tornata? E io: si si nonno, ti sono mancata? E quando mi rispose di sì gli dissi: aspetta che ti racconto tutto. Mi misi seduta vicino a lui a raccontargli tutto nel dettaglio, con il cuore leggero e felice. Mio nonno mi amava ancora, gli ero mancata e non era arrabbiato. Nonno diceva sempre che parlavo tanto e a volte quando tornavo a casa per non sentirmi faceva finta di dormire ma lo sgamavo subito perché si dimenticava di fare finta di russare. Una volta andai a ballare con Jessica, dopo un anno che c’eravamo perse di vista. Mio nonno mi aspettò sveglio ma quando sentì l’ascensore si mise a letto, peccato che lo beccai dal fatto che aveva spento male la sigaretta e non stesse russando. La notte ci alzavamo per bere il latte e mangiare i bomboloni. L’ho detto e lo ripeto mio nonno negli ultimi anni della sua vita era diventato il mio migliore amico.
A giugno dell’anno dopo la scoperta della malattia del nonno, dopo una lunga battaglia contro il tumore al seno, venne a mancare Lucy, mamma di Antony. Era giovanissima e oltre a lasciare Antony diciassettenne lasciò anche Alex, il fratellino di Antony. Morì a Napoli e non potei andarla a salutare. Quando Antony tornò a Milano cercai nel limite del possibile di stargli vicino. Io non potevo capire il suo dolore e anche se eravamo cresciuti insieme e da piccoli avevamo avuto una sbandata l’una per l’altro, ma insomma si parla dell’asilo, avevamo preso strade diverse. Lo conoscevo ma allo stesso tempo non lo conoscevo. Volevo stargli vicino ma non sapevo come fare. Non volevo uscirmene con belle frasi fatte, uscite dai cioccolatini o essere presuntuosa, facendo finta di capire un dolore che non potevo nemmeno immaginare. Quindi quelle volte che lo vedevo per prima cosa lo abbracciavo e poi lo ascoltavo parlare.
Nonno peggiorava sempre di più. Doveva andare in giro con la bombola d’ossigeno e molte sere cadeva a terra. Io cercavo di tirarlo su mentre nonna urlava come una matta che avrebbe chiamato l’ambulanza, poi zio Simone, Golfredo e infine zio Matteo. Nonno si arrabbiava e la rimetteva in riga e così mi dava una mano a tirarlo su. Faceva male vedere nonno conciato così. Lui era sempre stato un uomo d’altri tempi. Aveva sempre mantenuto la famiglia, mai preso un giorno di malattia a lavoro, lavorava da mattina presto fino al pomeriggio e poi andava a farsi la passatella al bar. Era un bravissimo cuoco e adoravo quando cucinava il pesce. Molte volte andava lui a pescare e tornava sempre con un secchiello pieno di granchi che poi faceva sfilare sul tavolo prima di cucinarli.


Nonno e nonna non sapevano del male che aveva colpito la nostra famiglia, sapevano solo del tumore alla prostata, i medici avevano detto che nascondere la verità era la cosa migliore. A volte i pazienti si lasciano andare prima del tempo dopo queste notizie e riguardo a nonna Genoveffa lei non era abbastanza forte per sopportare una notizia del genere.


Venti giorni dopo la morte di Lucy scrissi ad Antony per sapere come gli andavano le cose. Mi disse che erano morti due suoi amici e che era un periodo di merda. Prima sua madre e ora loro. Io e lui non avevamo amici in comune e non potei far altro che dispiacermi per lui e per quei poveri ragazzi giovanissimi. La sera stessa però, ovvero il 24 giugno, compleanno di mio fratello, tutti a casa parlavano di questi due ragazzi giovani fratelli, che erano stati uccisi dal ex di lei.  Io l’unica cosa che potei dire fu che mi dispiacesse e che non se lo meritavano e che mi facesse ancora più male pensare ad Antony e al suo dolore. Era davvero una brutta storia la loro. L’ex della ragazza voleva tornare con lei e chiese aiuto al fratello che però si rifiutò di aiutarlo. L’ex allora lo pugnalò e infine scaricò il cadavere in un cassonetto della pattumiera in un paese vicino. Infine, era andato a casa della ex e dopo averla stuprata per ore le aveva messo un sacchetto in testa soffocandola. Già così è una storia terribile, peggio di ogni film dell’orrore ma quando venni a sapere chi fossero il mio mondo si capovolse. In serata qualcuno accese la tele e partì il tg e vedi l’unica cosa che non avrei mai voluto vedere. Alla tv passano le foto di Ilaria e suo fratello Gianluca. Non può essere, non possono essere loro. Non può essere lei. Tutti ma non lei. Mi sentii male, mi mancava l’aria, gettai chissà dove la sigaretta e corsi fuori al balcone. Mi mancava ancora l’aria e mi sporsi di più dal balcone e poi mi accasciai a terra. Ero un disco rotto, riuscivo solo a dire non può essere lei. Mio fratello cercò di tirarmi su mentre al tg andava ancora in onda il servizio sulla mia amica e suo fratello. Corsi a casa di nonna Matilde dove avevo il pc, entrai tremante su Facebook e mi fiondai sulla pagina social di Ilaria, tutti le scrivevano di riposare in pace e di quale meraviglioso angelo fosse.
Nonna pianse insieme a me. Anche lei aveva conosciuto Ilaria. Era una ragazza speciale, sapeva leggerti dentro e ti spronava sempre a dare il meglio di te stessa. Per un anno frequentammo la stessa scuola e la mattina che mi accompagnava nonna a scuola la passavamo a prendere. Era davvero eccezionale. Amava il fratello, erano molto uniti e l’unica cosa che mi ha dato un po' di conforto è stata sapere che se ne fossero andati via insieme, nessuno dei due sarebbe riuscito a superare la perdita dell’altro. I tg però dissero un sacco di fesserie su Ilaria, tanto che la mia prof d’italiano mandò una lettera al tg5 per parlare di chi fosse davvero Ilaria. Lei era una ragazza guerriera che faceva anche tre lavori per mantenere lei e suo fratello. Era l’amica di tutti e a differenza di molte persone, davvero su di lei si potevano dire solo cose belle. Era impossibile poter parlare male di lei.
Lei era poco più grande di me, con tanta voglia di vivere e di fare e per colpa di uno squilibrato mi è stata portata via. Ho un tatuaggio dedicato a lei, il soprannome che mi dava. Ila mi ha consolato in ogni litigata con Michael ed era sempre pronta ad ascoltarmi. I funerali furono strazianti, quando uscii dalla chiesa mi buttai subito in macchina di mamma e scoppiai di nuovo a piangere. Per tanto tempo non feci altro che pensare a loro, al fatto che non avessi mai pensato di farmi una foto con lei, di non averle chiesto qualcosa di lei, ero così presa a raccontarle dei miei problemi e lei così disponibile ad ascoltarmi, ma per davvero, e ad aiutarmi che mi sono ritrovata ad accorgermi che su di lei sapevo poco e niente. Perderla è stata un dolore che mi porto ancora dentro e spesso ancora piango quando il suo ricordo riaffiora nella mia mente. Il primo mese ero entrata in lutto, ci pensò la mia amica Elena a tirarmi fuori di casa e a farmi riprendere, ma soprattutto fu la stessa Ilaria a prendermi a calci nel didietro, come solo lei sapeva fare, e a dirmi di andare avanti. Una notte sognai di essere in un campeggio, ero seduta a un tavolo di legno insieme ad altre persone mai viste finché non la vidi. Era in mezzo a dei cespugli, vestita di bianco, sembrava davvero un angelo e io la segui. Ero così contenta, l’abbracciai, le dissi tremila cosa senza senso e poi tornai al tavolo chiamando mia madre, dicendole, o meglio urlando come una pazza che Ilaria era tornata. Mamma persino nel sogno mi guardò come se avessi due teste ma mi seguì. Ilaria era girata di spalle e quando la andai a chiamare e lei si girò mi prese un colpo. Non era Ilaria, ma solo una che le assomigliava. Mamma mi disse: amore mio Ila non tornerà più. Ma io continuavo a dirle che non ero pazza, che l’avevo vista e parlato. La cercai in quel bosco e quando la trovai lei mi disse che dovevo lasciarla andare, che dovevo andare avanti, che stava bene e che dovevo smettere di preoccuparmi. La vidi andare via, sparire in mezzo al bosco. Mi svegliai con le lacrime agli occhi e poi guardando in alto sorrisi e le mandai un bacio. Il bastardo che ha ucciso lei e Gianluca non pagherà mai abbastanza per il male che ha fatto, per ciò che si è preso, la vita di due ragazzi splendidi.


Credete alle streghe bianche? Io sì. Anni prima di questo avvenimento straziante io feci un sogno. Ebbene sì, sogno molto spesso e me li ricordo quasi tutti.
Era un sogno strano, mi trovavo in una cucina che non avevo mai visto, alle finestre c’era una tenda legata con delle calamite a forma di farfalla. Davanti a me c’era un pc portatile aperto su youtube, guardai mamma per dirle di ascoltare questa canzone, la canzone che avevano scritto per i miei amici che erano morti. Quando mi svegliai il giorno dopo ricordavo la cucina e le tende ma non ricordavo i nomi degli amici, non ricordavo il nome del cantante e tanto meno il testo della canzone. Anni dopo mi ritrovai davvero in quella cucina, con quelle tende e quelle calamite, lo stesso pc e la pagina Youtube, la canzone era dedicata a Ilaria e Gianluca. Erano le loro foto quelle che passavano in quel video. In un certo senso mi sentii in colpa, mi chiesi se avessi potuto evitarlo. Certo quel sogno l’avevo fatto quando nemmeno sapevo dell’esistenza di questi meravigliosi guerrieri. Non potei far meno però di chiedermelo forse avrei potuto evitare tutto questo dolore.


Certo però sarebbe meglio sognare i numeri del lotto ma da quel giorno stavo molto attenta al risveglio cercando di ricordare nei minimi dettagli qualsiasi cosa sognassi.


In estate il nonno peggiorò. Ora doveva andare in giro sulla sedia a rotelle e non poteva mai essere lasciato solo. Io restavo con lui da metà pomeriggio fino alla mattina, poi venivano le sue figlie a darmi il cambio. Il pomeriggio veniva anche la cognata di nonno a giocare a carte con lui. Nonno però non era stupido. Cercava di farsi forza davanti agli altri, diceva a nonna Genoveffa di mettergli da parte il giaccone per l’inverno o cose così. Tutti erano convinti che lui non sapesse ma la realtà era diversa. Un giorno mamma e zie andarono all’ingrosso a prendere dei vestiti per poi rivenderli e lasciarono Alexander con me e il nonno. Mentre stavo cambiando il pannolino al bambino sul lettone nonno scoppiò a piangere. Finii di cambiare il bambino e lo presi in braccio avvicinandomi al nonno. Stava davvero piangendo e ancora prima che io potessi chiedergli perché mi sorprese dicendomi: - mi dispiace, non posso mantenere fede alla mia promessa. Io non ti vedrò mai sposata, non ti vedrò mai essere mamma, non ti vedrò con tuo figlio in braccio e non vedrò mai crescere Alexander.


Avevo capito che nonno aveva inquadrato la situazione, trattenni le lacrime e cercai di metterla sul ridere dicendogli: - figa nonno bella fiducia eh! Va bene che sono una rompi cazzo ma prima o poi lo troverò uno sfigato che mi sposerà. Non abbattiamoci prima del tempo.


Sorrise e mi disse che al massimo potevo sempre provare ad andare a Uomini e Donne Over. Si certo molto simpatico mio nonno.
Quando la sera ripensai a quelle parole non riuscii a trattenere le lacrime. La promessa che nonno sapeva di non poter mantenere risaliva a quando avevo sei anni. Ero magra e lui mi chiamava sempre Olivia, come la fidanzata di Braccio di Ferro, e un giorno gli chiesi se quando mi fossi sposata mi avrebbe potuto accompagnare lui all’altare perché io un papà non ce l’avevo. Mi disse: - certo Olivia, ti accompagnerà il nonno, promesso.


A otto anni quando nacque Jonathan tornai da nonno per cambiare la promessa, non doveva più accompagnarmi all’altare perché l’avrebbe fatto mio fratello, ma volevo che lui stesse lì in prima fila e che soprattutto avrebbe dovuto valutare il mio futuro marito, perché se non fosse piaciuto al mio nonnino non l’avrei sposato.
Già a diciotto anni mi ritrovavo a chiamare mio nonno nonnino. L’amavo tantissimo.


A fine settembre iniziò a peggiorare sempre più. Mamma e zie decisero che la notte era meglio che ci fosse un uomo con il nonno perché ormai non si reggeva più in piedi e allora mi spedirono a dormire a casa di nonna Matilde. Per questo fatto ce l’ho ancora con loro. Avevo tutto il diritto di restare lì, infondo era anche casa mia. La mattina del due ottobre la Falsona accompagnata da Golfredo vennero a prendermi a casa di nonna Matilde, il nonno era entrato in coma e a casa sua c’erano già tutti i parenti. Credo di non essermi mai imbestialita così tanto. Mi vestii in fretta e furia e arrivai come una iena a casa di nonno. Lui era nel letto che russava, sembrava che stesse dormendo ma nonostante zia Angela lo chiamasse a voce troppo alta lui non reagiva. Casa era piena di parenti, tutti lì pronti a far vedere che erano presenti. Molte di quelle persone in quei mesi di malattia di nonno non si erano mai visti, ora invece erano pronti a far vedere alla gente che loro erano lì a piangere il poveretto di turno. Pronti a prendersi le condoglianze e a recitare la parte di chi stava soffrendo. Ho sempre odiato i funerali e uno dei primi motivi è proprio la falsità e l’ipocrisia che alleggia a questi avvenimenti. Smerdano una persona per tutta la vita poi questa si ammala o muore e all’improvviso diventa la persona migliore del mondo. Tutti a ricordare i momenti belli e i pregi, ma per favore. Quando una persona muore non ha più occasione per migliorarsi, per rimediare ai propri errori e sbagli. Non si diventa santi magicamente morendo, così non si diventa santi o non ci si aggiudica un posto in paradiso solo per la messinscena e le lacrime di coccodrillo.


Avevo un nervoso addosso e volevo sbatterli tutti fuori casa, non avevano nessuno diritto di restare lì. Dov’erano quando nonno stava male? Quando lo seguivo da lontano i pomeriggi che andava al bar per paura che cadesse da un momento all’altro? Mi bastò però uno sguardo con nonna Matilde per capire che mi sarei dovuta tenere la boccaccia chiusa e andai in cameretta da zia Angela. Anche lei la pensava come me e poi era arrabbiata perché avevano chiamato il prete per l’estrema unzione quando nonno respirava ancora e stavano trattando suo padre come se fosse già morto. Quando venne il prete noi due rimanemmo in cameretta. Dalla camera del nonno c’era un via vai di gente, avevo la nausea. Ma dovevo essere forte, l’avevo promesso a me stessa. I medici così come la psicologa avevano sempre detto che la mia presenza era stata un bene per il nonno, ma non sapevano che la presenza di mio nonno era stata un bene per me. Ci facevamo forza a vicenda, ci prendevamo in giro ed eravamo alleati contro nonna. Eravamo una squadra. Due ingranaggi che si incastravano alla perfezione. Ci capivamo, ci confidavamo e soprattutto ci spalleggiavamo. È sempre bello sapere di avere qualcuno che è pronto a guardarti le spalle, mio nonno era diventato proprio questa persona per me, in quel periodo.


I miei erano preoccupati per me, pensavano che io non sarei riuscita a sopportare questo dolore e la malattia, mamma voleva pure portarmi via da casa di nonno appena saputo la malattia, per fortuna ci pensò la psicologa a dirle che fra tutte le persone con cui aveva parlato io ero quella che la stavo affrontando meglio, anche se all’inizio mi aveva scambiato per la figlia di zia Angela.


Quella mattina, dopo un tempo che mi parve infinito, mentre guardavo mio nonno sdraiato nel suo letto, con il suo intramontabile russare capii che il viaggio era finito. Mi dicevano che nonno non poteva sentirmi ma al diavolo ciò che dicevano gli altri. Guardai mio nonno e l’avvisai che stavo andando a casa da nonna Matilde a farmi una doccia e di aspettarmi che avrei impiegato poco tempo. La Falsona subito si propose di accompagnarmi ma io avevo bisogno di stare da sola, di prepararmi. Il viaggio era finito e io dovevo prendere le ultime cose. Arrivai da nonna e mi feci la doccia, tirai fuori un abito nero, quello che avrei usato per il funerale, poi andai al pc, misi a tutto volume la canzone di Grido “sei come me” e iniziai a scrivere le ultime parole che avrei dedicato a mio nonno, scrissi la lettera che avrebbero letto in chiesa per salutarlo. Dopo quindici minuti, finii, salvai e tornai da mio nonno. In stanza con lui si trovava solo mia madre, le chiesi gentilmente di uscire perché dovevo parlare con mio nonno e di farmi il favore di non far entrare nessuno. Lei lo fece. Mi sdraiai sul lettone vicino a mio nonno e gli presi la mano. Iniziai il mio discorso: - allora nonno ci siamo eh? Siamo alla fine del viaggio? be’ lo so che ti avevo promesso che se mi avessi permesso di seguirti, di tenerti per mano, fermata dopo fermata, ti avrei lasciato andare quando saresti arrivato alla tua destinazione finale. Ma vedi nonno c’è sempre un’altra scelta quindi ora tu puoi mantenere la tua promessa, lasciarmi la mano, scendere alla tua fermata e non voltarti indietro. Oppure sai nonno, puoi scegliere un’altra fermata, la mia. La vedi nonno? È la fermata più luminosa, quella con la scritta a caratteri cubitali al neon, c’è scritto DIVINA, è la mia fermata, perché lo sai molto bene quanto io sia modesta e soprattutto Divina, quindi nonno scegli. Prometto che se scegli la tua fermata io ti lascerò la mano, ti lascerò andare.


Appena finii il mio discorso nonno smise di russare, aveva fatto la sua scelta, aveva smesso di combattere, era arrivato alla sua fermata, era sceso e non si sarebbe più voltato indietro. Poco dopo entrò nonna Matilde con la puntura che doveva fare al nonno, si avvicinò a lui e poi mi disse sottovoce che il nonno se n’era andato. Io l’avevo già capito ma feci solo un cenno di assenso. Quando nonna diede la notizia agli altri partirono urla e pianti. Nonna Genoveffa per poco non si buttò giù dal balcone e ci pensò zio Matteo a fermarla e a buttarla a terra. Zia Angela urlava come una matta verso suo padre. Zio Simone venne vicino a me e mi disse di prendermi cura di nonna Genoveffa, di starle vicino perché loro ora stavano troppo male. Uno zio, cognato di nonno, e suo figlio iniziarono a dirmi che mio nonno mi aveva aspettato, che aveva aspettato me e il mio ritorno dalla doccia per andarsene. Sarà una stupidata ma l’ho sempre pensato anch’io che nonno avesse aspettato proprio me per andarsene. Era il nostro viaggio e l’avevamo affrontato giorno per giorno insieme.


Quando nonno aveva iniziato a peggiorare erano arrivate anche le allucinazioni. A volte vedeva un cane per casa e altre volte diceva che lui doveva prendere il treno e andare a Romano. Quando le zie gli chiedevano se potevano andare con lui rispondeva sempre di no, che doveva andarci da solo. Per me era stato diverso, eravamo una squadra, con gli anni avevamo fatto tante promesse e patti di cui solo noi sapevamo l’esistenza. Quando gli proposi di fare come qualche anno prima, ovvero di incontrarci in metro e fare per metà tragitto insieme e poi ognuno per la propria strada iniziò a cedere. Da lì fu facile persuaderlo e convincerlo ad accettare il mio patto. Io avrei viaggiato con lui, tenendolo per mano e quando sarebbe arrivato a destinazione l’avrei lasciato andare. Fu quello che feci. Gli tenni la mano dall’inizio di quel viaggio fino alla fine e quando lui scelse a quale fermata scendere lo lasciai andare.


Vedere piangere gente che con mio nonno non c’entrava niente mi aveva ridato la nausea e così presi Alexander e andai a casa di zia Giselle dove si trovavano gli altri bambini. Piangevano tutti quanti la perdita del loro nonnino, ricordo solo che gli dissi che dovunque fosse andato il nonno lui viveva nel loro cuore e che non dovevano piangere perché lui non l’avrebbe voluto. Smisero per un po' e poi ripresi Alexander e andai a farmi un giro. Quel bambino però a tratti mi spaventava. Il nonno gli aveva insegnato il gesto del “vai a quel paese” e ogni tanto Fufi guardava un punto e poi faceva quel gesto, come quando lo faceva insieme al nonno.


Il giorno del funerale mi permisi di cedere. Nonna Matilde mi teneva da una parte e mia cugina Susanna dall’altra. Le gambe non mi reggevano, volevo indietro il mio nonnino, avevo ancora bisogno di lui. In chiesa mi misi seduta vicino a nonna Genoveffa e quando un’amica di famiglia lesse la lettera che avevo scritto per nonno scoppiammo a piangere. Alla fine della lettera tutti applaudirono, mi voltai per ritrovarmi una chiesa gremita di gente. Mio nonno era davvero ben voluto da tutti. Al cimitero però, io che avevo sempre odiato le tarantelle, le urla e le sceneggiate napoletane, diedi il peggio di me. Mentre buttavano terra sulla bara di mio nonno volli raggiungerlo. Nonna e Susanna mi fermarono in tempo, volevo buttarmi nel buco insieme al mio nonnino, per fortuna loro mi riportarono a ragionare. Mi accasciai a terra, la testa fra le mani, il cuore rotto, un dolore insopportabile ma le loro mani ferme sulle mie spalle. Potevo contare su di loro, avevo perso mio nonno ma sicuramente nonna e Susanna non mi avrebbero abbandonato e mi avrebbero dato tutto il supporto necessario per superare questo periodo.


I giorni dopo furono confusi. Io e nonna Matilde stavamo sempre insieme a nonna Genoveffa. Grazie a noi la sera mangiava qualcosa, parlavamo e ridevamo. Quando nonna Matilde tornava a casa sua rimanevamo solo io e nonna Genoveffa, ci mettevamo in quel lettone in cui dormivamo con il nonno. Nonna piangeva tutte le sere e si addormentava piangendo, guardando la tv e con gli occhiali ancora sul naso. Io le tiravo via gli occhiali, le asciugavo le lacrime e le spegnevo la tele. Poi le baciavo dolcemente la fronte, come quando da piccola nonna Matilde lo faceva con me. Andavo nel letto con lei e l’abbracciavo, condividevamo lo stesso dolore.
Ogni giorno passavo a casa delle varie zie a prendermi un caffè e a monitorare la situazione. La perdita del nonno aveva distrutto tutti.


Poco dopo nonna Genoveffa iniziò a lamentarsi che da sola non riusciva a pagare l’affitto ma non voleva andare da zia Angela e Gertrude non la voleva in casa sua, tanto da dire che se fosse morta sua madre suo padre se lo sarebbe preso in casa, ma sua madre invece non la voleva. Eh già l’amore di una figlia senza eguali. Alla fine, decisero che mia madre e famiglia si sarebbero trasferiti a casa di nonna Genoveffa, ovvero in quella che era casa mia. Io non volevo. Avevo impiegato anni per andarmene via da loro e anche se ora i rapporti con mia madre erano buoni non avevo intenzione di tornare in quel loop di litigate e urla di prima mattina. Lo disse anche in faccia a mia madre, che come è normale che sia ci rimase male.


La convivenza forzata con loro non era poi così male all’inizio ma alla fine decisi di tornare a vivere da nonna Matilde e saltuariamente tornavo a casa di nonna Genoveffa. Vivevo in due case. Era bello stare da nonna Matilde, li stavo tranquilla e potevo fare quello che volevo, però era bello anche stare da nonna Genoveffa e dormire di nuovo insieme a mio fratello e farci le partite alla playstation o parlare fino a tardi di qualunque cosa.  Verso i primi di novembre, grazie alla cognata di zia Angela trovai lavoro come cameriera in un ristorante vicino ai navigli. Era la mia prima esperienza lavorativa ed era ciò che avevo bisogno per riprendermi dalla morte di mio nonno. Il due ottobre avevo perso una parte di me, avevo concluso un viaggio e il diciannove novembre di quello stesso anno ne avrei iniziato un altro, questa volta da sola. Un viaggio nel mondo del lavoro.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Clay92