Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Emma Speranza    25/04/2024    0 recensioni
Il Ministero è caduto, le lettere di convocazione al Censimento per i Nati Babbani sono state inviate e quando Lydia Merlin riceve la sua, sa che è arrivato il momento di nascondersi. Ma una lezione che ha imparato durante i sette anni ad Hogwarts è che i suoi piani non vanno mai come dovrebbero.
Un incontro fortuito con un ex compagno di scuola ed un bambino troppo chiacchierone le ricorderanno che la fuga non è un’opzione, e che in un mondo magico che ha dimenticato cosa sia l’umanità e la pietà, c’è ancora qualcosa per cui vale la pena combattere.
Una storia di sopravvivenza, ingiustizia e dei mostri che si annidano nei luoghi più oscuri.
Dall'Epilogo:
​«Corri!»
Lydia sapeva che era arrivata la loro fine.
Nulla li avrebbe salvati.
Sfrecciò in mezzo ad un gruppetto di anziane signore, che reagirono lanciandole imprecazioni che mal si addicevano a delle così adorabili nonnine.
«Scusate, scusate!»
E ovviamente Lance perse tempo a cercare di farsi perdonare piuttosto che correre per salvarsi la vita.
Genere: Avventura, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mangiamorte, Nuovo personaggio, Ordine della Fenice, Vari personaggi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 39
La solitudine dei sopravvissuti


 
Lydia Merlin odiava gli ospedali. Il silenzio ovattato, le pareti troppo candide, l’odore di disinfettante che copriva ogni altro e pizzicava il naso, le sedie scomode per i visitatori, le finestre che non si potevano aprire, i bip regolari che provenivano da dentro e fuori la stanza, i parenti che piangevano nei corridoi per non farsi vedere dai malati.
Lydia Merlin odiava ogni cosa dell’ospedale San Mungo, ma non si sarebbe mossa da lì per alcuna ragione.
Alice sonnecchiava, un incantesimo sensore che le controllava costantemente i parametri vitali, una coperta leggera che le copriva le gambe. Lydia temeva che potesse sentire freddo ma l’ultima volta che aveva provato a coprirla meglio, Alice si era svegliata agonizzante, urlando che non riusciva a respirare. Il guaritore aveva cercato di consolare Lydia dicendole che era solo una reazione naturale del corpo di Alice dovuto agli abusi a cui era stata costretta durante la prigionia. Non aveva funzionato, il senso di colpa aveva comunque attanagliato Lydia, che ora faceva ancora più attenzione a non ferire la sua migliore amica. Solo che era un’impresa difficile, se non impossibile. Qualsiasi movimento Lydia facesse, portarle alla bocca il cibo o il bicchiere d’acqua, spazzolarle i capelli, aiutare i guaritori a lavarla, provocavano nella sua amica intense fitte di dolore. Lo stesso guaritore le aveva detto che era anche esso naturale, che la sua amica aveva solo bisogno di un po’ di tempo per riprendersi. Lydia non aveva voluto chiedere quanto.
Le due settimane di degenza iniziavano comunque a dare degli effetti positivi: Alice riusciva a rimanere sveglia anche per un’ora di fila prima di ricadere nel suo sonno agitato e indotto dalle pozioni che la sostenevano, e il suo respiro era molto migliorato, al punto da poter concludere una frase intera senza rantoli. Lydia era diventata un’esperta nel sottolineare all’amica tutti i progressi che stava facendo per mantenerle alto il morale, un’impresa difficile considerando che Lydia stessa non aveva nulla che potesse renderla felice nell’ultimo periodo.
Erano passate quasi due settimane dal giorno della liberazione di Azkaban.
Una settimana dal funerale della mamma di Henry.
Era stata una cerimonia semplice, Lydia aveva temuto che sarebbero stati presenti solo lei, la famiglia O’Brien, sua nonna e i pochi bambini rimasti nelle loro cure. Ma quando era arrivata al piccolo cimitero, con la mano stretta attorno a quella di Henry, si era commossa nel vedere una piccola folla. C’erano sua mamma e suo papà, Silas, Cyril e Nikolas, i genitori e la sorella di Katherine, appena tornati dalla Francia dove la figlia li aveva fatti rifugiare ad inizio guerra, e poi tutti i bambini che erano stati ospiti di casa O’Brien con i rispettivi famigliari. Henry si era fatto forza per tutta la cerimonia, con la schiena dritta, senza dire mai una parola e senza lasciare neanche per un istante la mano di Lydia.
Dalla perdita della madre, Lydia si era ripromessa di stargli vicino, e aveva fatto la stessa promessa ad Alice. E così le sue giornate erano divise tra l’ospedale ed Henry, con il costante senso di colpa di aver lasciato solo Henry quando si trovava con Alice e viceversa. Aveva persino pensato di portare il bambino in ospedale, ma era bastata una rapida occhiata nelle stanze attigue a quella di Alice e ad Alice stessa per ricredersi. Quello non era un luogo per bambini, e Alice non aveva nessun altro tranne lei. Per contingentare gli ingressi, il San Mungo aveva emesso una circolare che permetteva ad un solo famigliare per paziente di entrare nel reparto, e visto che i genitori di Alice erano babbani e non potevano entrare da soli nell’ospedale, avevano implorato Lydia di diventare il suo contatto di emergenza. Lydia aveva accettato all’istante.
Ospedale, pranzo veloce, pomeriggio con Henry, ospedale, casa dei genitori di Alice per informarli delle sue condizioni. Era questa la sua vita ora. Non le servivano gli sguardi preoccupati di Lance o di qualsiasi altro componente della famiglia O’Brien per accorgersi di essere esausta. Le bastava guardarsi allo specchio e vedere le profonde occhiaie violacee che le solcavano il viso, i capelli spettinati e racchiusi in code sempre più caotiche, senza contare i mal di testa che erano tornati con prepotenza e il dolore alle costole che non sembrava più volerla abbandonare dopo la giornata passata al Ministero. Però il lato positivo di passare la maggior parte del tempo in un ospedale era che il guaritore addetto ad Alice aveva notato le sue ferite e le aveva passato sottobanco alcuni unguenti. Un crema per cicatrizzare più velocemente la ferita sulla nuca, una pozione contro il mal di testa ed un tubicino minuscolo di tintura per alleviare i dolori alle ossa. Erano campioncini di cui nessuno avrebbe notato la mancanza, le aveva assicurato il guaritore, ma quando Lydia aveva chiesto se aveva qualcosa anche per guarire le ossa multi fratturate o sensibilizzare i nervi di una mano, aveva scosso la testa desolato. Lydia aveva messo in tasca la tintura per le ossa. Avrebbe sopportato il dolore delle costole ancora per un po’ se significava alleviare almeno una frazione di quello di Duncan.
E Duncan l’aveva adorata per questo.
Quando la sera prima gli aveva dato la fialetta, Duncan aveva prima borbottato sulla quantità minuscola contenuta, per poi prodigarsi a tessere le sue lodi quando la tintura aveva fatto effetto. Lydia aveva seriamente temuto che il guaritore avesse confuso i campioncini, consegnandole involontariamente del veleno, o una pozione illegale, o qualsiasi stramberia che potesse spiegare il sorriso beato che si era dipinto sul volto del ragazzo. Duncan non era stato l’unico a ringraziarla, anche la nonna aveva molto apprezzato il cessare dei suoi borbottii, anche se l’effetto non era durato a lungo.
«Da quando sei interessata a Pozioni?»
Lydia sollevò lo sguardo dal giornale che stava fingendo di leggere, una vecchia edizione di Pozionista Oggi, datata quattro anni prima, che aveva trovato nella sala d’aspetto. «Io sono sempre stata interessata a Pozioni. Avrei potuto diventare la più grande pozionista al mondo se solo qualcuno avesse compreso il mio genio.»
Alice ridacchiò, per interrompersi subito con una smorfia di dolore, facendo percepire a Lydia l’ennesima stilettata di senso di colpa e facendola piombare nel silenzio. Sapeva che non avrebbe dovuto sentirsi in colpa, che le condizioni di Alice non erano una sua responsabilità, eppure continuava a considerare impossibile ignorare il fatto che anche lei avrebbe potuto trovarsi nelle medesime condizioni se le cose fossero andare diversamente, che forse se quel giorno fosse entrata al Ministero almeno la sua amica non avrebbe dovuto affrontare quell’incubo da sola. Forse avrebbe visto la mamma di Henry e… Un dubbio la assalì. Sollevò di nuovo lo sguardo su Alice mentre una domanda si formava nella sua mente. La sua amica riconobbe all’istante la sua espressione. «Cosa c’è?»
«Mi chiedevo…» Poteva chiederlo? Doveva. «C’era una donna, lì» Non specificò dove, non ce ne era bisogno «Rachel Morrison. Lei… aveva un bambino… Henry, quello di cui ti parlo sempre e…» Non seppe come continuare la frase. Come poteva dirle che voleva sapere se lei l’aveva conosciuta per avere qualcosa da dire a suo figlio quando sarebbe stato più grande? L’unica informazione che gli impiegati del Ministero le avevano dato era che Rachel era morta dopo la liberazione a causa delle ferite riportate. Nulla di più. Né esattamente quando né per quali ferite. Non sapevano neppure da quanto tempo era stata catturata. La sua vita era avvolta dal mistero da quando aveva lasciato la casa della nonna.
Alice si irrigidì e Lydia si pentì all’istante della domanda. Era stata una stupida, un’insensibile. «Scusa, non dovevo.»
«Eravamo in troppi, Lydia.» Alice serrò gli occhi, il dolore che le deformava il viso. «All’inizio no. C’erano abbastanza celle per tutti coloro che si erano presentati al Censimento, ma con il passare dei mesi eravamo sempre di più.»
Lydia avrebbe voluto implorarla di smetterla, che non doveva farlo, ma nella realtà si trovò bloccata. Dalla curiosità, dalla volontà di cercare di capire.
«Conosco solo due nomi. Della e Shelly. Sono state le prime donne con cui ho condiviso la cella. Ci tenevamo compagnia, cercavano di tenerci su di morale, di trovare un modo per sopravvivere alla mancanza di aria, al cibo marcio, alle torture a cui ogni tanto ci sottoponevano quando i Mangiamorte si annoiavano. Ma poi è arrivato il Vaiolo del Drago. Ci siamo ammalate.» Il fianco di Alice era fasciato, ma Lydia sapeva che sotto le garze candide si nascondevano gli stessi puntini violacei che aveva visto in così tanti prigionieri al Ministero. «Della e Shelly sono morte in una settimana, io pensavo che le avrei seguite, ne ero convinta, ma…» Un rantolo le spezzò il respiro. Stava parlando troppo, era uno sforzo eccessivo per i suoi polmoni danneggiati. Gli incantesimi sensori iniziarono a lampeggiare con maggior intensità.
«Alice, dovresti riposare.»
«Sono sopravvissuta.» Alice aveva spalancato gli occhi, erano rivolti al soffitto, ma Lydia era sicura che riuscissero a vedere solo una lurida cella in una prigione in mezzo al mare. «E sono rimasta sola. Non c’erano più Della e Shelly, erano già state portate via dai Mangiamorte, li potevamo vedere dalle sbarre quando gettavano qualcuno nella fossa, e questa volta era toccato alle mie compagne.»
Il guaritore entrò di corsa nella stanza. I sensori dovevano averlo allertato. Esaminò la scena per un istante e poi si avvicinò al fianco della paziente. «Alice cara, adesso è il momento di riposare. Sono sicuro che la tua amica potrà ascoltare il tuo racconto in un altro momento.» No, la sua amica non avrebbe mai più voluto ascoltare il suo racconto, la sua amica in quel momento voleva solo scappare.
Ma Alice non poteva sentirlo, era ancora persa nella sua prigione. «La mia cella non è rimasta vuota a lungo. Continuavano ad arrivare prigionieri, Nati Babbani catturati o traditori del loro sangue in attesa di un processo che non sarebbe mai avvenuto. Avevano bisogno di spazio e così mi sono ritrovata stretta in una cella minuscola con altre cinque, poi sette, poi dieci persone. Non avevamo neanche lo spazio per sdraiarci per terra.»
«Alice, penso che sia il momento di dormire un po’, va bene?» Il guaritore estrasse da una tasca una fialetta contenente un liquido ambrato.
«Non eravamo mai le stesse persone. Una mattina ti svegliavi e scoprivi di aver dormito accanto ad un cadavere, e allora i Mangiamorte arrivavano, lo portavano via e lasciavano un nuovo prigioniero.»
Il guaritore le mise una mano sotto alla nuca per sollevarla leggermente, mentre con l’altra avvicinava la fialetta alle sue labbra. «Ecco, così, brava. Devi berla tutta.» E Alice obbedì.
Quando ripose la testa sul cuscino però, continuò a parlare. «Ho scoperto che era più facile se non conoscevo i loro nomi. Potevo fingere che fossero dei perfetti sconosciuti quelli che venivano gettati nella fossa. Non ho chiesto a nessuno di loro il nome, né da dove venivano, cosa li avesse condotti lì, se avevano qualcuno che li aspettava a casa.» Le ultime parole erano strascicate, mentre la bocca di Alice cominciava a non rispondere più ai suoi comandi, e le sue palpebre a farsi sempre più pesanti. «Mi aiutava a non impazzire. Ma non so se ha funzionato.» Il suo rantolo si trasformò nel respiro leggero del sonno.
«Pozione Calmante.» spiegò il guaritore, sprimacciando il cuscino e rimboccando la coperta di Alice, ancora rigorosamente posata solo sulle gambe.
Lydia avrebbe voluto chiedergli se ne aveva una dose in più, perché era sicura che quella notte non sarebbe riuscita a dormire.
 
Alla fine il guaritore ebbe pietà di lei e le disse di recarsi alla Sala da tè dell’ospedale per prendersi una bibita. L’ultima cosa di cui Lydia aveva bisogno era mettere qualcosa nello stomaco, ma il desiderio di lasciare la stanza anche solo per qualche minuto ebbe la meglio. Per poter raggiungere la Sala da tè però, avrebbe dovuto attraversare l’intero corridoio con tutti i suoi malati e dopo quello che le aveva appena detto Alice non sapeva se sarebbe riuscita ad affrontarlo. Non con la consapevolezza che Alice le aveva raccontato solo una minima frazione di tutto quello che lei e gli altri prigionieri avevano dovuto sopportare. Si ricordava che il parente di un degente a cui aveva chiesto le indicazioni per arrivare alla Sala da tè nei suoi primi giorni lì, le aveva indicato una scala secondaria che passava sul retro; avrebbe cercato quella.
E con quel nuovo obbiettivo, si avviò verso la parte opposta del corridoio. Raggiunse le scale che le erano state descritte e le salì. Non vi erano indicazioni sui pianerottoli del piano in cui si trovava, per questo seguì l’istinto. Si accorse di aver sbagliato a contare nell’istante stesso in cui tirò la pesante porta di ferro. Il corridoio in cui si trovava era identico a quello che aveva appena lasciato; era indiscutibilmente un altro reparto, non la Sala da tè.
Ma sembrava silenzioso, più di quanto fosse normale in un ospedale. Senza sapere cosa la spingesse a farlo, Lydia iniziò a percorrere il corridoio, quasi in punta di piedi. Una distrazione l’avrebbe aiutata a cancellare dalla mente gli orrori che Alice le aveva appena raccontato. Si avvicinò alla prima porta. Appeso accanto ad essa vi era un cartoncino su cui svettava un nome segnato a biro.
MacAllister B.
Passò a quella successiva. Erano tutte chiuse ed avevano lo stesso cartellino appeso al loro fianco, con un nome diverso su ognuno di loro. Arrivò fino a metà corridoio, e si paralizzò.
Perché il nome segnato accanto alla porta lo conosceva bene. Fin troppo bene. Senza sapere come, sollevò una mano e prima che potesse rendersi conto di ciò che stava realmente facendo, aprì la porta con un colpo secco.
Blake sobbalzò nel letto, ma il suo spavento si trasformò in vero e proprio stupore nel momento in cui si accorse chi era appena entrato nella sua camera d’ospedale.
«Lydia?» sussurrò, con un tono interrogativo, come se si stesse domandando se si trattasse solo di un sogno. Lydia si stava chiedendo la stessa cosa, perché le sembrava di stare solo sognando, di non avere il controllo del proprio corpo mentre si avvicinava al letto. Si fermò ai suoi piedi, un metro li divideva ma lei non riuscì a compiere il passo che avrebbe annullato la loro distanza.
«Lydia!» ripeté Blake. Doveva essersi accorto che lei era veramente lì. Il suo viso era scavato, di un colore giallastro, le labbra secche, una benda gli fasciava il petto, ma tutto sommato sembrava stare bene, soprattutto se messo in confronto con i prigionieri di Azkaban. «Lydia, non posso crederci!»
«Sei vivo.» furono le uniche parole che Lydia riuscì a rivolgergli. Da quando aveva convinto i soccorritori a prendersi cura di lui, Lydia aveva cercato di evitare a tutti i costi di lasciarlo entrare nei suoi pensieri.
Blake non si lasciò scoraggiare dal suo tono monocorde. «Per un soffio, mi hanno detto. L’ultimo ricordo che ho è la maledizione di Isaac, poi il nero più totale, fino a quando mi sono svegliato qui. I guaritori mi hanno detto che la maledizione mi aveva fermato il cuore. E poi mi hanno detto che è crollato il muro e io sono finito sotto le macerie, non ho capito bene come ha funzionato, ma l’impatto ha spezzato la maledizione e ha permesso al mio cuore di riprendere a battere.»
L’impatto o la morte di Mills sotto le macerie.
«Adesso sto meglio, mi fanno male tutte le ossa ma sto meglio. I guaritori però hanno deciso di tenermi in osservazione, hanno detto che ho passato diversi minuti senza ossigeno al cervello e hanno paura che possa aver causato qualche danno.»
Lydia annuì. E poi basta. Rimase lì, immobile come una statua ai piedi del letto, muta. Non aveva parole da rivolgergli, né nulla da rivelargli. E così fece un passo indietro, verso la porta. «Aspetta!» Blake sollevò una mano per afferrarla, nonostante si trovasse fuori dalla sua portata.
Lydia si ritrasse per istinto. Si immobilizzò quando vide le catene che gli legavano le mani al letto. Blake seguì lo sguardo di Lydia fino alle proprie mani. «Oh, queste? Sono per precauzione. Sanno che ad inizio battaglia ero dalla parte sbagliata, quindi sono in attesa di processo. Ma mi hanno detto che una ragazza mi ha difeso, quando ero ad Hogwarts, sei stata tu, vero?»
Lydia non rispose.
«Dovrò essere comunque giudicato… Da come ho capito tutti quelli che si trovano su questo piano dovranno essere sottoposti a processo.»
«E vi tengono imprigionati solo con le manette?»
Blake esitò. «No. Ci sono incantesimi alla porta. Se provassimo a superarla senza permesso ci stordirebbe all’istante. E ci hanno tolto le bacchette.» aggiunse con dolore. Lydia deglutì. Capiva la sua sofferenza, aveva odiato ogni istante passato senza la propria bacchetta, e quando si era risvegliata a casa O’Brien e l’aveva ritrovata sul comodino, la sua gioia era stata talmente immensa da soppiantare solo per un istante il vuoto che provava. Poi si ricordò che il motivo per cui era rimasta senza la sua bacchetta era Blake stesso, e la compassione svanì. Quello non era il suo posto, si accorse, doveva andarsene. Si voltò e fece un passo verso la porta.
Fu in quell’istante che Blake si trasformò. L’accenno di sorriso che le aveva rivolto dal suo ingresso scomparve, soppiantato da un’espressione di puro terrore, i suoi arti si irrigidirono, ed un tremore si impossessò di lui.
«Non andartene!» urlò «Resta, ti prego, resta!»
La supplica di Blake si perse nel silenzio. Lydia rimase in sospeso, nello spazio tra il letto e la porta. Doveva decidere. Fece un altro passo verso la porta.
«No!» l’urlo disperato di Blake la fece sobbalzare. Si arrischiò a voltarsi verso di lui e lesse la stessa disperazione della sua voce anche nel suo corpo teso, le braccia tirate verso di lei nello spazio limitato «Ti prego, Lydia, ti prego… non lasciarmi solo. Non ho più nessuno. Ho tradito i miei amici, i miei genitori non sono mai venuti a trovarmi, non mi hanno neanche contattato. È come se fossi morto per loro. Mi sei rimasta solo tu. Non lasciarmi solo, ti prego.» Le lacrime che scorrevano sul suo viso giallastro erano vere. «Non ho più nessuno. Ho solo te.»
E Lydia si sentì soffocare. Senza voltarsi indietro, uscì dalla stanza, ignorando le urla disumane di Blake, corse verso le scale da cui era arrivata, voleva andare via da lì, dimenticarsi di esserci mai stata. Ma sbatté contro un guaritore comparso dal nulla. Inciampò e furono le braccia del guaritore ad impedirle di cadere.
«Oh, scusami tanto.» La voce del guaritore era allegra, in netto contrasto con tutto ciò che quel corridoio rappresentava. «È solo che è scattato il sensore e non potevo credere che qualcuno fosse finalmente arrivato per Blake! Sei Lydia Merlin, vero?»
Lydia sgranò gli occhi.
«Blake non fa altro che parlare di te! Me l’ha detto che saresti venuta. Bene, ora che sei qui possiamo risolvere alcune questioni.» Con un colpo di bacchetta, il guaritore fece comparire nell’aria una cartellina. Sulla copertina era scritto il nome di Blake. «Bene, bene, bene.» Con un altro tocco di bacchetta la cartellina si aprì, vomitando fuori una serie di documenti che cominciarono a svolazzare attorno a Lydia, che fissava la scena con il fiato spezzato e lo stesso stupore paralizzante. «Per prima cosa devi firmare la nomina come contatto di emergenza di Blake, così potrai avere sempre libero accesso al piano e potremo discutere con te delle medicazioni e di eventuali complicanze mediche. Blake ha fatto subito il tuo nome, ma senza anche la tua firma di consenso non possiamo procedere e… dove vai?»
Ma Lydia era già lontana. Corse fino alla porta del corridoio, la spalancò e si precipitò giù dalle scale. Le bastarono una decina di scalini per lasciarla completamente senza fiato, il male alle costole che le impediva di inspirare ed ogni singola ferita che si era procurata durante la battaglia si era risvegliata, provocandole fitte di dolore nella maggior parte del corpo. Ma non si fermò e continuò a correre.
 
«Dovresti riposare.»
«Disse la giornalista che passa più tempo in redazione che a casa.»
Lydia continuò a fissare l’orto vuoto di Lance mentre Katherine si sedeva al suo fianco sulla panchina. «Non fate altro che ripetermelo tutti. Vi giuro che sto bene.»
«Non ti sto dicendo di fermarti. Anzi, capisco come mai è così importante per te.»
«Davvero?» chiese Katerhine, stupita.
Sì, Lydia lo sapeva perché in fondo stavano facendo entrambe la stessa identica cosa: occupare ogni secondo della giornata per tenere le loro menti distratte e gli incubi lontani. Solo che per Lydia non stava funzionando. «Come stai?»
Katherine si rilassò, chiuse gli occhi e sollevò il volto rivolgendolo verso i pochi raggi di sole che riuscivano a superare le nuvole. «Bene. Male. Non lo so più neanche io.»
«Stanca.»
«Sì, stanca potrebbe essere la definizione giusta.»
«E il bambino?»
Katherine sorrise, con il volto ancora rivolto verso il sole. «Lui, o lei, bene. Io passo tutta la giornata a vomitare e suo padre è obbligato a rimanere immobile a letto per non peggiorare le sue ossa martoriate. Direi che tra tutti il bambino, o la bambina, è quello che sta meglio.»
«Avevate la visita della guaritrice oggi, vero? Come è andata?»
Il sorriso sparì dal volto di Katherine, e quando riaprì gli occhi, erano intrisi di preoccupazione. «Niente di nuovo. Ha detto che potremmo tentare di rivolgerci ai dottori babbani, che potremmo pensare ad un intervento chirurgico, ma non promette nulla di buono. Gli abbiamo spiegato la situazione e ci ha risposto che probabilmente è proprio questa la causa della sua incurabilità: quando l’Acromantula ha morso la gamba di Duncan gli ha iniettato una dose di veleno, non abbastanza da ucciderlo ma sufficiente per impedire alle sue ossa di risaldarsi.»
«Mi dispiace.»
«Duncan non l’ha presa bene. Vorrei chiederti di provare a parlargli ma hai già abbastanza pesi sulle tue spalle.»
Lydia non lo negò. «Anche tu hai troppe responsabilità addosso. Forse dovresti davvero ascoltare la nonna e prenderti un po’ di tempo per te.»
«Non posso. Non ora, con così tanto da fare e così poco personale. Alla Gazzetta siamo rimasti in pochissimi. Chi sosteneva i Mangiamorte è stato allontanato e di tutti quelli che eravamo ad inizio guerra, metà sono dovuti scappare o hanno dovuto nascondersi come me, e solo in pochi sono riusciti a tornare.» Katherine chinò il volto «Non ce l’hanno fatta, sai? I miei colleghi, quelli che sono stati arrestati quando io sono riuscita a scappare dall’ufficio. Ho impiegato giorni a scoprirlo, non erano negli elenchi ufficiali forniti dal Ministero, ma poi ho scoperto che quando si è diffusa l’epidemia di Vaiolo del Drago ad Azkaban sono morti talmente tanti prigionieri che durante quella settimana hanno smesso di segnare i loro nomi. Sono stati semplicemente gettati in una fossa comune. Hanno riavuto il loro nome solo due giorni fa. La terra non dimentica niente, sai?»
Lydia si sfregò la mano sulla fronte, nel vano tentativo di allontanare l’emicrania e l’immagine di una fossa in un prato salmastro. «Finirà mai, tutto questo orrore?»
«Un giorno, non so quando sarà, ma un giorno ci sveglieremo e tutto questo ci sembrerà un ricordo sbiadito. Spero solo che non si cancelli del tutto, che rimanga solo un po’, abbastanza da ricordare il motivo per cui non dovremo mai più permettere che accada di nuovo.»
«E intanto cosa dobbiamo fare?» La domanda di Lydia era sincera. Da quando aveva attraversato la porta di Blake era l’unica che occupava la sua mente.
Katherine appoggiò la testa sulla sua spalla. «Resistere, fare tutto quello che è in nostro potere per rendere le nostre vite di nuovo migliori, e stare gli uni vicini agli altri. Quello di cui abbiamo più bisogno è sapere che siamo ancora qui, siamo insieme e non siamo soli.»
 
Le parole di Katherine rieccheggiarono nella mente confusa di Lydia per giorni. Non siamo soli. Nessuno di loro lo era. Nessuno di loro doveva esserlo.
Ogni giorno andava da Alice, si assicurava che stesse migliorando, o almeno fosse stabile, cercava di tenerle compagnia nei momenti in cui riusciva a stare sveglia, la sosteneva quando i guaritori la consideravano abbastanza in forze per rimanere seduta qualche minuto.
Quando Lydia usciva dal reparto però, si trovava di fronte ad una porta serrata, con un cartoncino scritto a mano, a tentare di convincersi di aprire quella serratura e affrontare il ragazzo distrutto che stava dall’altro lato. Ed ogni volta, scappava.
Si odiava per questo. Perché come aveva detto Katherine, nessuno doveva rimanere solo, Lydia stessa non sarebbe riuscita a sopravvivere ai suoi incubi se fosse stata sola, e a Blake era rimasta solo lei. Le aveva salvato la vita e per quanto quella notte Lydia aveva pensato che non c’era più niente in quel mondo per lei, aveva ora scoperto che non era vero, che Alice ed Henry avevano bisogno di lei, e se era ancora lì ad aiutarli era solo merito di Blake. Era tornata da Lance, dai suoi genitori, dalla nonna, dalla famiglia O’Brien, e solo perché Blake aveva messo a repentaglio la propria vita per salvare la sua.
Negli ultimi anni tutti quelli che più amava le avevano dato dell’egoista. Si era ripromessa di non esserlo più, di essere migliore. Eppure si sentiva proprio così ogni volta che scappava da lui.
Egoista e codarda.
Ma da quella sera, nell’appartamento di Eileen, il nome di Blake si era indissolubilmente legato agli assassinii di zio Ryan, di Paul. All’odio di zia Maisie. Alla sua cicatrice. Ed ogni singola volta che Lydia si trovava davanti a quella porta e si convinceva che Blake meritava la sua presenza, gli spettri dello zio e di Paul ricomparivano davanti ai suoi occhi, impedendole di proseguire.
Lydia tornava a respirare solo una volta tornata nella sua camera a casa O’Brien.
Lontana dall’ospedale, dai silenzi assordanti dei corridoi di casa, ora che non vi erano altri bambini oltre ad Henry e la piccola Keira a rallegrarli.
Odiava quel silenzio. Le faceva pensare a tutti i bambini che era stata costretta a salutare negli ultimi giorni. Sapeva che non era un addio, per nessuno di loro, ma non riusciva a rallegrarsene, e si sentiva in colpa per questo, perché era un’egoista a desiderare che quei bambini si trovassero ancora con lei quando erano tornati dalle persone che amavano.
E a volte quello stesso senso di colpa che provava per i bambini e per Blake la portava a cercare un rifugio, un posto dove potersi nascondere da tutti i pensieri che si affollavano nella sua testa.
«Ancora non ho capito cosa ci fai qui.»
Duncan la squadrava dal letto, sospettoso.
«Volevo farti compagnia.» rispose Lydia tranquillamente.
«Sei entrata in camera venti minuti fa e sei in silenzio da allora.»
Su quello aveva ragione.
Lydia sbuffò. «E va bene. Di cosa vuoi parlare?»
«Di niente. Preferisco il silenzio.»
La ragazza alzò gli occhi al cielo.
«E comunque mi hai almeno portato un altro po’ di quel meraviglioso unguento?» Duncan cercò di sistemarsi il cuscino, movimento reso difficoltoso dalla gamba completamente ingessata e sollevata di qualche centimetro da un incantesimo. Lydia non provò ad aiutarlo, l’ultima volta che lo aveva fatto, Duncan aveva sbuffato e ringhiato come un drago (guadagnandosi di conseguenza una ramanzina da parte della nonna).
«No.» rispose incrociando le braccia al petto.
«Non lo sai che se si va a trovare un infermo occorre portare un regalo?»
«Non sei un infermo.» Duncan squadrò prima lei, poi la sua gamba ingessata. «E va bene.» concesse Lydia «In questo momento sei effettivamente infortunato, ma prima di quanto immagini sarai di nuovo in piedi e attivo.»
«Hai qualche miracolo in serbo per me?» Il ghigno di Duncan non poteva nascondere il dolore nei suoi occhi.
«Nessun miracolo. Ma appena i guaritori ti lasceranno muovere, ti alzerai da questo letto e tornerai alla tua vita.»
«È stata Kate a dirti di parlarmi, vero?»
«Forse. O forse è perchè so cosa significa pensare che la propria vita sia finita.» Lydia si sfiorò la cicatrice. «Hai Kate, un bambino in arrivo, i tuoi genitori, tuo fratello, tua sorella. Non ti permetterò di stare qui su questo letto a guardare la vita che ti scorre davanti.»
Duncan la fissò, e se Lydia non lo avesse conosciuto così bene avrebbe detto che era quasi commosso. «Lo stesso vale per te, sai?»
«Io sono in piedi.» replicò immediatamente Lydia, sulla difensiva.
«Fisicamente sì, ma Kate non fa altro che dirmi quanto stai correndo per tutti tranne che per te stessa.»
«Io non ho bisogno di niente.»
«Hai bisogno di riposo. Come tutti noi, o probabilmente anche di più.»
«Non posso lasciare sola Alice, ed Henry ha bisogno di me, e…» Blake. Anche Blake aveva bisogno di lei.
«La guerra è finita, Lydia.» la interruppe Duncan «Vorrei solo che ti ricordassi di questo.»
 
Lydia cercò di ascoltare il consiglio di Duncan e nel breve tragitto che separava le loro due camere, continuò a ripeterselo più e più volte.
La guerra era finita.
La guerra era finita.
Eppure ogni volta le sembrava una menzogna.
Perché la realtà era che, come diceva Lance, la guerra per lei non era ancora terminata. Non quando Alice assomigliava terribilmente ad uno scheletro, non quando Henry piangeva tutte le sere implorando la sua mamma di tornare, non quando Blake era legato ad un letto di ospedale, solo, con il terrore che quello sarebbe stato il suo destino.
Un leggero bussare alla porta della camera risvegliò Lydia dai suoi pensieri. «Scusami se ti disturbo, cara.» disse la signora O’Brien comparendo sulla soglia «Ma…» esitò. Sollevò una mano e Lydia riuscì a vedere cosa stava trasportando. Una felpa insanguinata, dei pantaloni stracciati. Per un istante si sentì schiacciata sotto un muro di pietra.
«Non li voglio.» boccheggiò.
La signora O’Brien li fece sparire dietro alla schiena. «L’ho pensato, ma volevo essere sicura. Sai, quando siete tornati ho messo tutti i vostri vestiti in lavanderia, chiusi in un cassetto. Non so perché non li ho buttati via prima, era solo… Ma adesso è ora di pensare al futuro, non trovi?»
Lydia annuì, non del tutto convinta. Come poteva pensare al futuro quando il passato la stava ancora tormentando?
«Comunque ho trovato questa, nella tua tasca. Scusami, non l’avevo vista prima, se no te l’avrei portata subito.» E le tese una busta. Era stropicciata, stracciata in alcuni punti, un angolo era intriso di sangue, eppure il nome vergato su di essa era ancora perfetto. Lydia Merlin.
La lettera di Eileen.
La lettera che Lydia aveva trovato tra gli scatoloni rovesciati quando era stata rinchiusa in camera da Blake all’arrivo di Mills e O’Neill.
Lydia ricordava di averla messa in tasca, ma dopo se ne era completamente scordata.
La prese, accorgendosi che le sue mani erano attraversate da un leggero tremito. «Grazie.»
Non sentì la risposta della signora O’Brien, né la porta richiudersi. Si limitò a fissare la busta e a sedersi sul bordo del letto. Il sigillo era ancora intero, nessuno aveva letto quella lettera prima di lei.
Lo ruppe.
Nella busta erano contenuti due fogli di pergamena. Il primo era una specie di contratto, che Lydia, nella sua confusione, non riuscì a comprendere, il secondo era la lettera di Eileen. La dispiegò delicatamente, il sangue secco stridette quando la distese.
 
Cara Lydia,
Ti starai di sicuro domandando il perché di questa lettera considerando che ci conosciamo poco. Ti darò presto la risposta ma prima, ti supplico, regalami un po’ del tuo tempo, consideralo come l’ultimo desiderio di una condannata.
Se hai ricevuto questa lettera significa che sono morta.
Ecco, l’ho scritto.
Sì, io, Eileen Moore sono morta a causa delle decisioni che ho preso nella mia vita. Tutte le scelte che ho fatto negli ultimi anni hanno portato a questo esatto momento.
Ho appena finito di scrivere la mia lettera di addio per Blake, pensavo di riuscire così a sentirmi in pace con me stessa, pronta a quello che inevitabilmente accadrà se questa stupida guerra non finirà presto. Il problema è che quando ho finito di scrivere non mi sono sentita in pace. No, una piccola parte di me pretende che io racconti la mia storia a qualcuno.
La mia vera storia.
Ma forse è meglio iniziare dal principio.
Da bambina avevo un sogno: che il nostro mondo potesse diventare un luogo senza divisioni, in cui l’amore avrebbe potuto essere più importante del sangue, in cui i bambini potevano essere liberi di essere tutto ciò che desideravano, senza che il destino fosse già scritto per loro. Nel mio mondo ideale, e forse molto ingenuo, non vi era spazio per le ingiustizie, per maghi oscuri o guerre, la magia sarebbe tornata ad essere quella raccontata anche dalle fiabe babbane. La realtà, però, era ben diversa.
Una premessa, che forse essendo tu una Nata Babbana, non potrai comprendere pienamente. Essere Purosangue non significa solamente provenire da una famiglia che possiede la magia da generazioni, è molto di più. È un bagaglio di tradizioni e responsabilità che vengono tramandate di padre in figlio, di madre in figlia da secoli. Mentre il mondo babbano è progredito, noi siamo rimasti fermi, siamo il corrispondente di un’aristocrazia che non esiste più. Veniamo cresciuti con l’ideologia che avevano i nostri antenati, che solamente il nostro sangue è puro, che coloro che non possono vantare di un patrimonio culturale come il nostro non sono altrettanto degni di essere chiamati maghi e streghe. I nostri antenati la pensavano così, e hanno trasmesso questa convinzione ai figli, i quali l’hanno tramandata ai loro figli e così via, in una catena che solo pochi hanno avuto il coraggio di spezzare, ed ognuno di quei pochi è stato condannato all’oblio per questo.
Sono consapevole dei pregiudizi di molti nei confronti delle famiglie Purosangue, e di conseguenza dei Serpeverde, essendo la Casa che ospita la maggior parte di noi, ma vorrei solamente farti capire quanto è difficile rompere questa catena. Se sin da quando hai solo pochi mesi, i tuoi genitori, coloro di cui ti fidi e che ami, cominciano a dirti che tu sei migliore degli altri, allora è naturale che inizi a crederlo tu stesso. E nella mia famiglia non è stato molto diverso. Mia madre è stata allevata con questa ideologia, e per lei è stato naturale crescere anche me e Blake nello stesso modo. Ed eccoci qui, al motivo per cui ti sto raccontando tutto questo… ho bisogno che tu capisca perché da quando vi conoscete, Blake ti ha trattato in un modo così atroce. Non lo sto giustificando, non fraintendermi, ma, come temo che anche tu sappia troppo bene, mio fratello non è mai stato particolarmente capace di imporre il proprio pensiero, o di avere il coraggio di possederne uno diverso da quello delle persone che lui considera amici. Quando mi sono accorta dei pregiudizi che dimostrava, del modo in cui offendeva gli indifesi, ho provato in tutti i modi a farlo desistere, a cercare di aiutarlo, ma la mia impresa è stata vana, soprattutto perché in famiglia ero l’unica a cui importava. Mia mamma lodava il suo comportamento, le amicizie che era riuscito a stringere ad Hogwarts, mio padre era accecato dall’amore, e considerava le sue discriminazioni semplicemente come delle piccole marachelle, senza alcun conto. Perché in fondo ai suoi occhi era solo un bambino.
Sembrava quasi che solo io riuscissi a vedere il male che stava facendo, e la strada pericolosa che aveva imboccato.
E poi sei arrivata tu, Lydia. E io ho visto il modo in cui Blake ti guardava quando pensava che nessun altro lo vedesse. Lui desiderava la tua amicizia, eppure quando era in compagnia dei suoi amici ti trattava nel peggior modo possibile. Ma io riuscivo a vedere la verità. E tu sei diventata la mia speranza. Dovevo solo trovare un modo per farvi passare del tempo insieme, lontani da tutti i vostri amici, ed è stato fin troppo semplice inventare scuse sempre più strampalate per mettervi in punizione e costringervi a parlarvi. Il mio piano ha funzionato. Ho visto la vostra amicizia fiorire proprio nel vostro risentimento nei miei confronti. Oh, non sai quanto ero felice quando vi vedevo in biblioteca insieme, o nei corridoi a complottare il modo per fermarmi. Ma la mia felicità è durata poco. Alla fine di quello stesso anno la vostra amicizia era già terminata, Blake ha iniziato ad allontanarsi anche da me, e ad ogni anno che passava era sempre più avvinghiato alle sue amicizie, pronto a ripetere come un pappagallo il loro pensiero, senza mai accorgersi di quanto fosse infelice. Io ci ho provato, Lydia. Giuro di aver provato in tutti i modi ad allontanarlo da loro e dalla sua stessa arroganza, finché ho capito che era completamente inutile. Blake era perso. E la guerra era iniziata.
Ho pensato a lungo e intensamente a tutte le possibilità. Alla fine mi sono dovuta arrendere all’evidenza. Se Blake non era cambiato in tanti anni ad Hogwarts, dopo le innumerevoli opportunità che gli avevo dato, dopo le possibilità che tu gli avevi donato, non l’avrebbe fatto di sicuro ora, circondato da convinti sostenitori di Voldemort e senza via di fughe. Ecco, l’unico modo per salvarlo era offrirgli un’ultima via di fuga e costringerlo a prenderla anche contro la sua volontà.
Durante gli anni di scuola, ho impressionato con le mie abilità due Serpeverde particolarmente crudeli. Zachary Harris e Thaddeus Mills, forse li conosci, o meglio, conosci il fratello di Mills, Isaac e la sorella di Harris, Celia. Due dei migliori amici, se così possiamo definirli, di Blake. Sapevo che Zachary e Thaddeus sarebbero stati i primi a sostenere Voldemort e i suoi Mangiamorte, e infatti hanno creato un gruppo di sostenitori, e, proprio come avevo previsto, mi hanno proposto di unirmi a loro. Ho finto di essere sorpresa, quando in realtà era proprio ciò che volevo. Erano loro la mia ultima occasione per proteggere Blake dalla guerra. Il fratello di Mills è il migliore amico di Blake, se fossi riuscita a barattare il mio ingresso nel gruppo con l’estromissione di Blake da ogni movimento a sostegno di Voldemort, allora sarei riuscita a salvarlo. E così ho fatto. Ho proposto loro un contratto, vincolato dalla magia, che li proibisse di far entrare Blake in qualsiasi gruppo a sostegno di Voldemort e lo costringesse a tornare a casa dai miei genitori. E ha funzionato. Harris e Mills hanno accettato e Blake è tornato a casa, lontano dalla guerra.
Lydia rilesse l’ultima riga. E poi guardò il contratto. Poteva sentire nella carta stessa il peso delle maledizioni che lo impregnavano. Eppure non aveva funzionato. Perché Blake si era unito comunque al gruppo di Isaac Mills e allora… il suo sguardo cadde sulla data del contratto. Era stato firmato una settimana dopo all’intrusione di Voldemort al Ministero e della conseguente conferma del suo ritorno. Ma Blake le aveva confessato di essersi unito al gruppo di Mills il giorno stesso delle vicende del Ministero. Eileen non lo sapeva. Il suo contratto non era retroattivo, non valeva nulla, e i fratelli di Mills e Harris invece dovevano saperlo per forza. Eileen si era unita a loro per nulla. Blake era già perso.
Quello che stiamo facendo è sempre più disumano. Vetrine rotte sono diventate ossa frantumate. Vandalismi si sono tramutati in torture. Ho rinunciato alla mia umanità per mio fratello, ma lo rifarei pur di poterlo salvare da questo stesso destino. Ma adesso basta, ho preso la mia decisione. Non andrò oltre. Se arriverà il giorno in cui mi costringeranno a prendere la vita di qualcuno, e temo che accadrà molto presto, mi rifiuterò e finalmente li farò pentire di tutto il male che hanno fatto, a qualsiasi costo.
Spero solo di aver guadagnato abbastanza tempo. Blake ha molti difetti, ma di sicuro non è un mostro e sono fermamente convinta che non si unirebbe mai a loro adesso, le violenze commesse sono sempre più orribili e mio fratello è bravo a parlare, ma gli manca il coraggio (o la sventatezza) di mettere in pratica le sue minacce.
Ed eccoci qui, alla fine della mia storia.
Ora mi sento finalmente libera.
Ti ringrazio per avermi permesso di raccontartela, Lydia. Ma ti prego, ti supplico, nessun altro deve saperla. Non Blake, non i miei genitori. Non avrebbe senso, causerebbe loro troppo dolore, e non farebbero altro che accusarsi a vicenda per una scelta che è stata mia, e mia soltanto. Nessuno mi ha costretta, e considerando che finora ha portato alla salvezza di Blake, non me ne pento. Preferisco che loro mi credano una Mangiamorte piuttosto che distruggere la mia famiglia.
Da piccola mi ero ripromessa di liberare il mondo dalle ingiustizie, di difendere coloro che non potevano proteggersi da soli, e, in fondo, è quello che ho fatto.
Arriviamo infine al motivo per cui ho scelto di confessare tutto questo proprio a te, Lydia.
Non solo affinché almeno una persona in questo mondo conosca la mia vera storia, ma anche perché ho un ultimo favore da chiederti: proteggi mio fratello.
Se questa lettera è giunta nelle tue mani significa che io sono morta, e non potrò più proteggerlo, ti chiedo di farlo tu al posto mio.
So di star chiedendo molto e dopo il dolore che Blake ti ha causato hai anche tutti i motivi per rifiutarti. Ma sei l’unica a cui posso chiederlo, l’unica di cui mi fido. I miei genitori sono stati incapaci di sostenerlo nella maniera adatta negli ultimi vent’anni, li amo ma come posso fidarmi di loro? Per quanto abbia tentato di nasconderlo e negarlo, Blake prova una grande stima nei tuoi confronti e sono sicura che sei l’unica persona che ascolterebbe. Ti prego, aiutalo a ritrovare la parte buona della sua anima, aiutalo a fargli comprendere di non aver bisogno delle opinioni degli altri per vivere.
Ti ringrazio per il tempo che mi hai dedicato e, se accetterai il mio desiderio, per il tuo prezioso aiuto.
Nella speranza che il mondo trovi presto la sua pace.
Con riconoscenza,
Eileen Moore
 
Quando Lydia concluse di leggere la lettera, capì infine cosa doveva fare.
 
 
Lydia non ebbe nessuna esitazione ad aprire la porta della camera di Blake.  La lasciò aperta e si sedette sull’unica sedia presente nella stanza, posta accanto al letto.
«Sei tornata.» Lydia vide gli occhi del ragazzo luccicare, il sollievo che gli distendeva le rughe sulla fronte. Era ancora pallido, ma almeno aveva perso il colorito giallognolo, per il resto non sembrava essere particolarmente migliorato nei giorni trascorsi dal loro ultimo incontro. «Lo avevo detto a John che saresti tornata.»
«John?»
«Il mio guaritore. L’unica persona che ho visto da quando sono qui.» L’angoscia tornò ad adombrare il suo volto, solo per un istante «Ma non importa. Adesso ci sei tu.»
«Ho perso la bacchetta di Eileen.» La frase di Lydia spiazzò completamente Blake. «L’ho lasciata cadere quando stavano arrivando i Dissennatori. E poi non l’ho più trovata. Abbiamo cercato anche sotto le macerie.»
Blake scosse la testa. «Non importa.» Gli importava. Lydia aveva letto la tristezza nei suoi occhi, ma Blake sembrava solo voler cambiare discorso, e Lydia lo accontentò.
«Eileen mi ha chiesto di proteggerti.»
 «Hai trovato la lettera.» Blake comprese subito, per un istante esitò, come se stesse decidendo se dirle la verità, alla fine dovette optare per quella scelta, perché ricominciò a parlare «Quando l’ho trovata tra le sue cose dopo che è morta non riuscivo a capire come mai avesse voluto lasciarti una lettera. Ho provato ad aprirla, ma non ci sono riuscito. Ero curioso.» Blake parlava velocemente, come faceva ogni volta che cercava di giustificarsi «E poi quando sei arrivata ho avuto paura che Eileen ti avesse raccontato che ero nel gruppo di Isaac, temevo che tu non avresti capito, sapevo che dovevo essere io a raccontartelo. Ma te l’avrei consegnata, Lydia! Lo giuro, al momento giusto ti avrei dato la lettera, ti avrei detto tutto. Volevo solo accertarmi che tu fossi al sicuro, prima.»
«Lo so.» Un accenno di sorriso distese le labbra di Lydia «Staremo bene, Blake.»
Blake si lasciò ricadere sui cuscini con un sorriso dipinto in volto «Se siamo insieme, andrà tutto bene.»
E Lydia comprese che sarebbe stato ingiusto continuare ad evitare la realtà. Prese un respiro profondo e si concesse un istante, non per esitazione, ma perché sapeva che le parole che avrebbe pronunciato sarebbero stati di fondamentale importanza. «Non posso restare.» lo disse ad alta voce. Era finito il tempo delle incertezze, dei dubbi e dei sensi di colpa.
Blake si irrigidì. «Cosa?»
Lydia si chinò verso di lui, con una carezza gli sistemò una ciocca di capelli che gli era ricaduta sulla fronte. «Non posso rimanere, Blake. Non sarebbe giusto per nessuno dei due.»
«No… no!» balbettò Blake, prese le mani di Lydia ed intrecciò le dita alle sue, come se in quel modo potesse impedirle di andarsene «Non puoi… Dobbiamo stare insieme, tu e io. È come dicevamo, abbiamo bisogno l’uno dell’altra. Hai visto anche tu che se siamo riusciti a sopravvivere alla battaglia è stato solo perché eravamo insieme! Insieme possiamo affrontare tutto.» Blake tirò a sé le mani di Lydia, costringendola a chinarsi verso di lui fino a quando i loro volti si trovarono a pochi centimetri di distanza «Quando uscirò dall’ospedale potremo ricominciare dall’inizio, proprio come volevamo. Potremmo andare comunque in Francia, oppure dovunque tu vorrai. Nessuno ci conoscerà, potremo essere chiunque vorremo.»
«Questo è il tuo sogno, Blake, non il mio.» Lydia districò le mani dalle sue e si sedette sul bordo del letto. «Eileen mi ha chiesto di prendermi cura di te, di aiutarti a capire il male che hai provocato, ma mentre leggevo le sue richieste, mi sono accorta che ho già rispettato le sue volontà. Tu hai già compreso che le scelte che hai fatto in tutti questi anni erano sbagliate, l’hai sempre saputo.»
«Ma ho bisogno di te per essere migliore! Per essere la persona che voleva Eileen, per essere la persona che vuoi tu
«È qui che ti sbagli, Blake. Tu hai già scelto di essere una persona migliore. Lo hai fatto quando ti sei rivoltato contro Mills e O’Neill durante la battaglia. Hai combattuto contro di loro senza che nessuno ti costringesse a farlo. È stata una tua scelta, per la quale hai anche rischiato la vita, ma pur sempre una scelta tua e solo tua.»
«Ho bisogno di te, Lydia!»
«No. Quello di cui hai bisogno è qualcuno che possa amarti e sostenerti. E quella persona non posso essere io. Non ne sarei in grado.» aggiunse prima che Blake potesse interromperla «Sono capace a malapena di non andare in pezzi io stessa, come posso pretendere di poter darti l’aiuto di cui hai veramente bisogno?»
«Non lasciarmi solo. Ti prego, non lasciarmi solo.» La supplica di Blake era diventata un sussurro. Lydia si alzò dal letto e il ragazzo tentò di afferrarla.
«Ma io non ti lascio solo, Blake.» E alzò il volto verso la porta lasciata aperta, in particolare verso l’uomo che stava sulla soglia, le spalle curve, un sacchetto di biscotti tra le mani. Blake seguì lo sguardo di Lydia e vide la figura in attesa. «Papà.»
«Ciao, figliolo.» Il signor Moore avanzò di un passo, poi si fermò. Sollevò un sopracciglio chiedendo al figlio il permesso per entrare. Blake non rispose, intento come era a fissare il padre, cercando di non sbattere neppure le palpebre, nel timore che potesse scomparire.
«Ho raccontato a tuo padre la verità. Tutta la verità. Dal giorno in cui ti sei unito al gruppo di Mills, di come ti sei ritrovato coinvolto nella guerra, che tu lo volessi oppure no, alla notte della battaglia.»
«Come…?»
Lydia si lasciò sfuggire un sorriso sghembo. «So essere particolarmente convincente quando voglio.»
«O testarda.» annuì il signor Moore «Ha incendiato le nostre aiuole a forma di fenice e ha minacciato di fare altrettanto con tutta la nostra tenuta se non l’avessi ascoltata.»
«Gli ho raccontato della battaglia, di come ti sei rivoltato contro di loro pur di salvare me. Sei stato coraggioso, Blake. L’unica cosa che devi fare adesso è ricordartelo e riuscire a ricominciare a vivere. È l’unica cosa che tutti noi possiamo fare.»
«Nella sua lettera, Eileen mi ha rivelato che la scelta di unirsi ai Mangiamorte è stata sua soltanto, per ragioni che non poteva spiegare.» Come per volontà di Eileen, Lydia nascose la verità, quella stessa verità che se fosse emersa, avrebbe distrutto la famiglia Moore per sempre «Ma che il suo unico desiderio era che voi rimaneste uniti… Il contrario di quello che è accaduto alla sua morte.» Il signor Moore abbassò il capo, il senso di colpa che pesava sulle sue spalle «Ma non è ancora troppo tardi.»
Il signor Moore ritrovò il coraggio e si avvicinò al figlio, che non aveva ancora smesso di fissarlo stupito.
«Farò tutto il possibile per aiutarti.» continuò Lydia «Ho provato a contattare l’ufficio degli Auror per liberarti da tutte le accuse, ma mi hanno congedata dicendo che tutti coloro che hanno collaborato con Voldemort saranno comunque sottoposti a processo. Ma non ti preoccupare, ho chiesto a tuo padre di avvisarmi e testimonierò a tuo favore al processo.»
«Ho già contattato il miglior avvocato del settore.» disse il signor Moore sedendosi sulla sedia posta accanto al letto «Mi ha garantito che con la testimonianza di Lydia sarai sicuramente dichiarato innocente.»
Lydia si avvicinò di nuovo a Blake, gli posò una mano sulla spalla e il ragazzo riuscì infine a distogliere lo sguardo dal padre per voltarsi verso di lei. «Grazie.» le sussurrò. Dietro a quella parola si nascondevano una miriade di emozioni.
«È questo il tuo nuovo inizio, Blake, quello che hai tanto sognato. Hai la possibilità di ricominciare senza dover cancellare il passato, perché in fondo solo guardando ai nostri errori potremo davvero diventare persone migliori, non trovi?»
Blake si voltò nuovamente verso il padre.
E Lydia gli rivolse un ultimo sorriso, che nessuno dei due vide, e si allontanò dalla stanza.
 
Vi era un unico desiderio rimasto nel cuore di Lydia Merlin. L’ultimo.
Di avere anche lei la possibilità, come Blake, di ricominciare a vivere.
Di poter tornare a casa.
 
Il cancello di casa O’Brien era spalancato. Lydia superò il cartello che lei, Lance e i bambini avevano dipinto mesi prima, in un pomeriggio invernale quando sembrava che le giornate fossero diventate incredibilmente lunghe nonostante il buio che calava sempre prima. Lydia ricordava ancora l’impegno con il quale i bambini si erano messi a dipingere il foglio sopra il quale Lydia e Lance avevano vergato le parole ‘Casa O’Brien’.
Lizzie aveva disegnato alcuni fiori, Beatrix un prato, Amelia il sole, Alexander la luna, Christine le nuvole, Lucas diversi puntini gialli che dovevano essere delle stelle. E poi Matthew una casa bianca, con una finestra al posto della porta ed un camino storto, Edrik alcuni cuori, Tristan un arcobaleno, Jodie un gatto, Bethany uno scivolo, Elinor un orsacchiotto, Leonard il pedone degli scacchi. Daniel aveva disegnato una macchinina rossa, Simon una rana e Henry un gufo.
Ogni singolo bambino aveva dato il suo contributo ed aveva partecipato con emozione alla cerimonia ufficiale celebrata da Simon in cui appesero tutti insieme al cancello il foglio, protetto da incantesimi contro le interperie.
Era rimasto solo il cartello.
I bambini che tanto si erano impegnati per renderlo così bello se ne erano andati ormai da giorni.
Solo Henry e Keira erano rimasti a riempire quel vuoto.
E Lance.
Lydia lo vide, in fondo al giardino, immerso nell’orto che tanto amava e che anche lei aveva imparato ad amare. Era chino sulle rose, con la mano destra strappava l’erba canterina che stava minacciando le loro radici. Quando vide Lydia che si avvicinava, il suo volto si illuminò. Si alzò e sollevò la mano sporca di terra per salutarla. Lydia sorrise a sua volta e percorse l’ultimo tratto che la separava da lui.
E quando lo raggiunse, lo baciò.
E finalmente comprese che la guerra era davvero finita, che il mondo poteva ricominciare a vivere, che le parole che aveva detto a Blake erano la verità. Sarebbero stati bene. Tutti loro, in un modo o nell’altro, avrebbero trovato una nuova vita ad attenderli, un nuovo inizio.
Finalmente, si sentì a casa.
 
 
 


 
Note: Non posso crederci. La storia di Lydia e Lance è quasi completamente nelle vostre mani. Manca solo un capitolo, l'epilogo finale, quello che segnerà la parola fine ad una storia iniziata ormai nove anni fa...
Grazie, grazie di cuore a tutti voi che avete letto "Piume di Cenere", grazie a voi che avete condiviso con me questo lungo viaggio <3
I veri e propri ringraziamenti arriveranno con l'epilogo, ma ci tenevo ad iniziare a ringraziarvi per tutto <3

Un abbraccio,
Emma Speranza (in diretta da Firenze!)
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Emma Speranza