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Autore: lucille94    26/04/2024    0 recensioni
Quando il suo nome diventa improvvisamente famoso in tutta Italia, Clarice Orsini è una ragazzina di quindici anni appena, poco più di una bambina. Ha folti capelli rossi, occhi verdi a tratti malinconici; è d'animo mite, ingenua per l'età giovanissima, chiamata dal destino - o piuttosto dalle ambizioni dei famigliari - a un ruolo per cui non è pronta, a un marito che non potrà mai comprendere fino in fondo: Lorenzo de' Medici, più tardi soprannominato il Magnifico.
Ciononostante, Clarice non è debole, perché per sostenere la pressione di un marito come il suo ci vuole coraggio, tenacia e dedizione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Al risveglio, Lorenzo sentiva pulsare le tempie; non sapeva addebitare con certezza al vino o alle donne quel leggero fastidio mentre, da coricato, si tirava seduto. Lanciò un’occhiata alla propria destra, vedendo Dionigi che sonnecchiava ancora con un lieve russare a bocca aperta; quindi passò a Sigismondo, che gli stava a sinistra, immerso in un sogno che gli corrucciava il viso in un’espressione di scontento. Gianfrancesco dormiva ancora abbracciato alla Matilda, quasi temesse che in un frangente di distrazione gliela potessero sottrarre con l’inganno. Sorrise, Lorenzo, al pensiero che fosse geloso di una prostituta la quale, per definizione, l’avrebbe presto dimenticato a favore del cliente del nuovo giorno. Era ben consapevole, però, che la sua gelosia non fosse tanto rivolta all’oggetto di un amore carnale quanto all’idea di essersi conquistato uno spazio dove invece lui, almeno per quella sola notte, non si fosse intromesso.

Braccio si alzò in piedi, interrompendo il flusso dei suoi pensieri, e lo guardò dritto in viso. Il suo sguardo era uno dei pochi capaci di metterlo in soggezione, di suscitargli un brivido su per la schiena quasi che fosse ancora un pivellino appena uscito dall’infanzia, ignaro delle dolcezze e delle asprezze che il mondo può riservare; ignaro della filosofia di Platone e del suo scandaloso modello d’amore che eleva a somme altezze, un amore che non contempla donne angeliche, ma piuttosto dà estremo valore all’amicizia tra uomini e fanciulli.

«Ora tornerai a palazzo?» gli chiese sottovoce. «Mi piacerebbe parlare un po’ di quella novella che vuoi scrivere. Luigi mi ha detto qualche cosa…»

«Devo tornare, non ho scelta. Mio padre ha storto il naso iersera, se non tornassi nemmeno stamane si infurierebbe. Poi la giostra imminente…» si scusò, come se avesse bisogno di una giustificazione per sottrarsi a una passeggiata solitaria con un vecchio amico. Non era più un fanciullo, anzi, era un uomo, era sposato e aveva girato il piccolo grande mondo delle corti d’Italia. Eppure, lo sguardo di Braccio lo disarmava dell’eloquenza, della spigliatezza che lo contraddistingueva all’interno della compagnia. Arraffò le calzebrache che pendevano da un’asse fissata a mo’ di mensola sopra il letto, le indossò in fretta e si calò addosso la camicia strappandola da sotto la testa di Sigismondo che, lungi dal volersi svegliare presto, si voltò dall’altra parte continuando a dormire. Mise su la pesante giornea di velluto nero, allacciò stretta la cintura ai fianchi, infilò un piede e poi l’altro negli stivali e per ultimo si avvolse attorno alle spalle il mantello foderato di calda pelliccia, tenendo in mano solo il cappello.

«Esco con te», disse allora Braccio, seguendolo fuori dalla camera di osteria che avevano tenuto occupata per tutta la notte. Lorenzo non attese di essere raggiunto, passò accanto al banco, ordinò semplicemente di addebitare al proprio conto la spesa di tutta la brigata e uscì all’aperto coprendosi il naso con il collo ampio del mantello. Udiva, dietro di sé, i passi dell’amico tenergli dietro con un certo impaccio nella neve, ma non rallentò per dargli agio. Aveva la testa piena di preoccupazioni, ora che l’emicrania era sfumata via con il risveglio; in particolare pensava a che cosa avrebbe raccontato ai genitori per ingraziarseli dopo l’ennesima goliardia.

In quella, Braccio lo affiancò. Le strade erano trafficate a quell’ora del mattino: le botteghe stavano per aprire, i venditori urlavano da un capo all’altro delle vie e i primi avventori di facevano largo come potevano. Non era difficile riconoscere il primogenito di Piero de’ Medici né stupiva trovarlo fuori casa con la faccia ancora stravolta dai vizi della notte passata. Quella mattina, però, Lorenzo non aveva solo l’espressione sfatta che tutti, bene o male, sapevano a chi addebitare; c’era di più, ed erano le preoccupazioni che, passo dopo passo, crescevano e crescevano.

«Non ti vedevo così teso da tanto tempo e, francamente, speravo di non doverti più vedere a questa guisa», borbottò Braccio senza la benché minima traccia di scherzo nella voce profonda. Lorenzo non staccò gli occhi dalla via che stavano percorrendo nel cammino che, risalendo verso nord, li stava riportando nel rione del Leon d’Oro nel quartiere del Santo suo omonimo. «Sono solo stracco», minimizzò, schiarendosi la gola.

«No, non è vero. L’ho capito da questa notte che qualcosa non ti garba.»

Stavolta non rispose, serrò la bocca e si intestardì a voler tornare a palazzo. Se avesse dovuto riferirgli tutte le cose che non gli garbavano in quel preciso momento, avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta: i cavalli per la giostra tardavano ad arrivare, da Roma non venivano notizie interessanti e, a coronare il tutto, suo padre stava inesorabilmente degradando verso una triste fine. Aveva fatto l’abitudine all’idea di non vederlo invecchiare, a differenza dell’avolo Cosimo che aveva raggiunto la veneranda età di settantasette anni in barba agli acciacchi della gotta. Piero non aveva mai goduto di buona salute, ma ora gli attacchi della malattia erano più crudi che mai.

«Forse è per via del matrimonio che non sai più goderti la compagnia di Linora?» insinuò malizioso Braccio nel tentativo di farlo sorridere. Lorenzo non diede segno di aver ascoltato una sola parola, tirò dritto ancora per qualche passo e poi, di punto in bianco, una palla di neve grossa come una pesca lo colpì tra capo e collo, colando piccoli grani di ghiaccio lungo la sua schiena. Si volse in un attimo, ma non fu abbastanza svelto da schivare un secondo proiettile bianco che lo colse ancor più alla sprovvista, facendolo indietreggiare con gli occhi annebbiati di cristalli disciolti.

«Luigi!» protestò perché, in quel breve frangente in cui aveva potuto guardarsi alle spalle, aveva immediatamente riconosciuto l’autore della burla. Pulci si avvicinava minaccioso con le munizioni nelle mani, senza soffrire, all’apparenza, il freddo che gli faceva tutte le dita rosse.

«Così impari a divertirti senza di me!» dichiarò, palesando in una sola frase il suo personale casus belli. Lorenzo si accucciò a terra per riparare all’attacco con una difesa all’altezza, ma l’avversario lo anticipò spingendolo giocosamente a terra. Quando fu seduto a gambe larghe con l’espressione intimidita di un bimbo, Luigi gli strappò via il cappello e gli premette una manciata di neve tra i capelli, quindi, non contento, gli afferrò il colletto della camicia, quel poco che spuntava dalla giornea, e affondò una seconda manciata nei suoi vestiti. Lorenzo, prima di gemere di fastidio, riuscì ad aggrapparsi alla coscia sinistra di lui e lo fece rovinare accanto a sé. Braccio, che fino a quel momento era rimasto un passo indietro a rimirare la scena, si gettò su di loro per impedire a entrambi di rialzarsi.

I passanti cercarono di non far caso alla zuffa, anche se i più bacchettoni mormorarono tra sé qualche imprecazione generale contro la gioventù senza buoni costumi. Poco importava che si trattasse del figlio dell’uomo più influente di Firenze; anzi, forse tale dettaglio, non proprio trascurabile, rendeva le lagnanze un poco più appetitose, condite di quella critica politica che per i fiorentini era pane quotidiano. Lorenzo, comunque, lasciava i pettegolezzi al loro posto, ossia molto in basso nella sua considerazione. Amava divertirsi perché con il divertimento riusciva a strappare brandelli di felicità da una tela perlopiù dipinta a tinte fosche; non avrebbe sgualcito quei rari momenti con il pentimento tardivo che i vecchi gufi si auguravano subentrasse presto alla spericolatezza giovanile.

Tuttavia, se non furono le occhiatacce e i borbottii a riscuoterlo, fu qualcos’altro: un uomo, un domestico che prestava il proprio lavoro in casa sua da prima che lui nascesse, e che si chiamava Matteo, giunse a prenderlo con la vistosa livrea solo parzialmente celata dal mantello nero.

«Messer mio,» lo chiamò, tendendogli subito una missiva. «Questa è appena giunta da Roma ed è indirizzata a voi. Ve l’ho portata subito come avete richiesto.»

Lorenzo, all’udire ciò, balzò in piedi liberandosi con estrema facilità dell’ingombro dei due amici. «Date, date, Matteo!» esclamò, afferrando bruscamente la lettera e affrettandosi a leggere l’intitolazione del destinatario, che recitava: Illustrissimo honorandissimo Lorenzo de Medici sposo in Fiorenza. Era lei, dunque, era Clarice che gli scriveva. Non perse un solo istante, strappando la ceralacca e spiegando il foglio davanti a sé.

Magnifico consorte, recommandate. Ho hauta una vostra lettera e inteso quanto scrivete. Che a voi sia cara la mia lettera me piace como a collei che sempre desidera fare cosa che ve sia grata, e più dite che avete poco scritto. Remagno contenta a tanto quanto vi piace, governandome sempre in bona speransa. Madonna mia matre ve benedice. Piacive recomandarmi a vostro e mio padre, a vostra e mia matre e a quelli altri che vi pare. Sempre me recomando a voi. A Roma die xviii gennaro 1469.

Vostra Clarice de Ursinis (1)

«La sposina gli scrive e guarda lui come legge trafelato. Allora un po’ ti deve interessare, la Romana», constatò Luigi, bastandogli una sola occhiata per decifrare l’espressione intenta del più giovane amico. Lorenzo non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di scoprirlo teneramente affezionato a una fanciulla che, a detta di tutti, non aveva mai visto, perciò replicò secco secco: «Mi interessa il suo nome, questo sì, e anche la sua bella dote. Ma che t’importa, poi, se scrivo alla mia fidanzata?»

«Avevi detto che non le avresti mai scritto!» intervenne Braccio con una faccia tutta maliziosa.

«Mio zio ha tanto insistito che ho dovuto farlo. State pur certi che, se fosse dipeso da me…»

Uno sguardo birichino volò tra Luigi e Braccio, uno sguardo che fece perdere a Lorenzo ogni intenzione di continuare la propria difesa. «Ruffiani che non siete altro, restate pure contenti delle vostre supposizioni.»

E si avviò così, senza aggiungere altro. A quel punto, soli e liberi di dire la propria, Luigi e Braccio si guardarono di nuovo, stavolta un po’ più cupi. «Quand’è così, io mi preoccupo», disse il primo, le mani poggiate salde sui fianchi. L’altro, con un sospiro, gli fece eco: «Io pure. Ma come potrebbe non essere così, tirato da mille parti, che nemmeno il figlio di un re!»

«Di un re morente…»

«Come se non bastasse.»

Tacquero, poi: «Cambierà qualcosa, secondo te?» domandò piano Braccio, temendo il suono stesso di quella domanda. Luigi si prese del tempo. «Un matrimonio non ha mai cambiato un uomo e non cambierà nemmeno lui. La morte del padre, ahimè, è tutt’altra faccenda. Spera che Piero abbia una tempra più forte di quel che sembra; e spera che Lorenzo possa reggere l’urto dei nemici, quando questi prenderanno il sopravvento.»

 

   
 
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