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Autore: Puffardella    28/05/2024    0 recensioni
La vita di Davide è tutto fuorché ordinaria. Affetto fin da bambino da porfiria, che lo costringe a una vita di privazioni, ha il privilegio di svolgere una professione unica: quella del restauratore di libri.
In seguito al peggioramento del suo stato di salute, si ritira in un piccolo quanto singolare paesino del nord Italia, in cerca di un po' di serenità.
Qui fa la conoscenza di un uomo importante per la comunità, affascinante quanto misterioso, il quale gli commissiona il restauro di un antico manoscritto, una sorta di diario dei suoi avi.
Il contenuto di quel libro si rivelerà sconvolgente per Davide, e avrà il potere di cambiare per sempre le sue sorti e quelle delle persone che ama.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Le storielle dell'orrore per bambini.

Davide era seduto in salotto, le luci spente e la testa tra le mani. Il brontolio di un temporale in avvicinamento faceva da sottofondo al suo stato d’animo burrascoso. Poteva sembrare la colonna sonora di un film strappalacrime dal tragico finale, quale in fondo era la sua vita.
Di tanto in tanto un lampo illuminava la stanza, compreso il cellulare sopra il basso tavolino di fronte al divano. Davide frenò a fatica l’ennesimo impulso di prenderlo e leggere il messaggio di Sara.
C’era stato un momento in cui, dopo averne appreso il contenuto quel pomeriggio in mansarda, aveva provato ad ignorarlo e a continuare a preoccuparsi di altre cose (Chi aveva rimesso a posto i giocattoli? Perché il marchese Cornelio e sua madre avevano disegnato lo stesso medesimo castello? E, Cristo Santo, come aveva fatto suo fratello a mandare a puttane la sua vita?) ma aveva scoperto presto di non riuscirci.
Nonostante fosse stato più volte sul punto di chiamare suo padre, come si era ripromesso di fare, aveva cambiato idea ogni volta e, anziché il padre, era tornato puntualmente sul messaggio di Sara.
Soprattutto, sulla foto dell’ecografia che la sua ormai ex compagna, per un crudele quanto gratuito dispetto, gli aveva inviato.
Perché lo aveva fatto? Perché? Perché, perché, perché?
Va bene, era finita, dannazione, quello poteva accettarlo! Sapeva da tempo che sarebbe accaduto, non dipendeva da Sara, perlomeno non da lei soltanto. Semplicemente, non esistevano altre alternative. Quello che non riusciva ad accettare era il modo in cui lei aveva scelto di uscire dalla sua vita.
L’ennesimo tuono fece vibrare i vetri delle finestre, riportandolo alla realtà. Venne aggredito da un nuovo e stavolta più insistente desiderio di farsi un goccetto. Peccato che Lidia, quella invadente ficcanaso che continuava ad entrargli in casa senza il suo permesso, si fosse premurata di riempirgli il frigo e la dispensa di ogni ben di Dio dimenticandosi la cosa più importante: i liquori.
Davide si allungò sul tavolino per controllare l’ora sul cellulare, e imprecò a denti stretti. Era tardi anche per andare in qualche negozio a farsi una scorta.
 “Ma i bar sono ancora aperti”, si disse. Tre secondi più tardi, la vocina della coscienza che di norma cercava di intervenire per impedirgli di fare cose stupide replicò: “Lascia perdere quella merda, Davide. Cristo, hai deciso di entrare in rivalità col tuo vecchio? Vai a farti una sana corsa, piuttosto.”
Dopo un lungo battibeccare con se stesso, stabilì infine che la cosa migliore da fare era mettersi sotto la doccia. Stava per iniziare a piovere, forse anche a grandinare, una corsa con il temporale alle porte era improponibile, ma forse una doccia lo avrebbe fatto rinsavire, avrebbe lavato via il suo bisogno di stordirsi.
Così si fece una doccia e dopo la doccia si vestì (casualmente) di tutto punto, usando gli stessi indumenti del giorno prima. E visto che ormai ti sei messo in ghingheri, gli suggerì l’altra vocina, quella che invece nelle cose stupide ci sguazzava alla grande, perché non esci un po’ di casa? I bar sono aperti, ma non lo rimarranno ancora per molto. Il tempo di bere un bicchierino o due, e poi te ne vai a letto.
“Codardo” rimproverò se stesso mentre si richiudeva la porta alle spalle.


Attraversò il paese deserto sotto una pioggia scrosciante, mentre il temporale imperversava. Superò la ferrovia in disuso e si immise nella provinciale, dove incontrò (finalmente!) le prime macchine in movimento da quando si era trasferito in quel “buco del culo del mondo”, come lo aveva appropriatamente (e prodigiosamente, visto che non c’era mai stata) definito Melissa.
La lingua di strada che separava i due paesi confinanti si riduceva a qualche decina di km, eppure Gavassa (il paese nel quale si era appena introdotto) sembrava essere anni luce lontana da Mestrieri. Di sicuro era un altro mondo, per quanto bizzarra potesse sembrare la cosa. Gavassa era piena di luci, di gente, di negozi, di rumori e anche di colori. Aveva potuto appurarlo quando, il pomeriggio precedente, ci si era recato per acquistare la bottiglia di whisky da portare alla cena in casa del parroco.
Per un po’ vagò per le strade della cittadina, in cerca di un bar ancora aperto. Riuscì nell’impresa al quarto tentativo. Parcheggiò l’auto a qualche decina di metri, sollevò sopra la testa la giacca per ripararsi dalla pioggia e raggiunse il locale di corsa.
Si precipitò all’interno e la sua irruenza spaventò gli avventori del bar, che si zittirono e si voltarono a fissarlo perplessi.
Davide sollevò la mano in un timido gesto di saluto e di scuse, attese che l’attenzione sulla sua persona scemasse e si diresse al bancone, dietro il quale una giovane donna lo guardava con un’espressione non proprio cordiale.
«Stiamo per chiudere», gli diede il freddo benvenuto.
Davide si guardò intorno. Ne aveva di persone da sbattere fuori prima di riuscire a chiudere, rifletté. Non ebbe bisogno di esprimere il suo pensiero in parole perché la ragazza continuò, rassegnata: «Cosa prendi?»
«Non saprei... Whisky?»
«Cos’è, una domanda? Devo decidere io per te?»
«Whisky» annuì Davide, rendendosi conto di aver fatto la figura dell’imbecille. «Doppio», si affrettò ad aggiungere.
Il doppio whisky finì nello stomaco di Davide praticamente nello stesso istante in cui gli venne servito, sotto lo sguardo contrariato della giovane che, con le braccia conserte, sembrava sapesse già che gliene avrebbe chiesto dell'altro. Davide non ci mise molto a darle ragione.
Quando fu accontentato disse, indicando la bottiglia piena per metà: «Forse sarebbe meglio che quella la lasciassi sul bancone.»
«Sì, certo. Aspetta che faccio il conto di quanti bicchierini ci sono dentro... » fece del sarcasmo la ragazza. Poi, notando forse l’espressione di imbarazzo di Davide, proseguì in tono più conciliante ma comunque pungente: «Senti, se vuoi la bottiglia devi comprartela piena e chiusa. A dire il vero sarebbe meglio per tutti e due se te ne comprassi una da scolarti comodamente a casa: tu eviti di ammazzarti lungo la strada del ritorno ed io di raccogliere il tuo vomito nel caso in cui finisci per collassarmi nel bar...»
Davide prese in considerazione il suggerimento della ragazza, ma poi decise di non seguirlo. Date le circostanze, meglio non tenere alcolici a portata di mano. Un conto era uscire in piena notte per farsi un giro di giostra, un altro era avere tutte le fottute giostre in casa a tutte le ore del giorno.
«No, va bene, versamene un altro doppio e sono a posto così» replicò. Stavolta se lo sarebbe fatto durare più a lungo, si ripromise mentre veniva servito di nuovo.
«Deve esserti successo qualcosa di veramente brutto per darci dentro così, ragazzo.»
Davide si voltò verso l’uomo seduto accanto a lui che gli aveva appena rivolto quelle parole. Era sulla settantina, con corti e radi capelli bianchi e una barba folta, e stava bevendo della birra alla spina. Aveva un aspetto singolare: trasandato ma, per certi versi, rassicurante.
Davide bevve un sorso del suo whisky e rispose, rivolgendosi più a se stesso: «Già. Che vuoi farci? È la storia della mia vita.»
Per un po’ il tipo non disse altro, e Davide quasi si illuse che lo avrebbe lasciato libero di piangersi addosso in santa pace. Invece, dopo avergli regalato quei brevi istanti di silenzio, l’uomo tornò all’attacco.
«Chi dei due ha il vizietto? La mamma o il papà?»
Davide assunse un’espressione scioccata. Esistevano davvero al mondo persone così invadenti? Evidentemente sì.
«Come, scusi?»
«Leggevo da qualche parte che certe cattive abitudini le prendiamo dai nostri genitori. Possiamo avere tutte le cattive compagnie del mondo ma non sono loro a rovinarci. No, sono i genitori a formare il nostro carattere, loro a spingerci in una direzione invece che in un’altra. Perciò, se senti il bisogno di attaccarti alla bottiglia per fuggire dai problemi è perché qualcuno in casa ti ha insegnato a farlo. Dico bene?»
«Chiudi la bocca, Giuseppe!» intervenne la ragazza dietro al bancone fingendosi indignata ma sorridendo con gli occhi.
«E a lei chi glielo ha insegnato?» gli rigirò la domanda Davide indicando il boccale di birra da mezzo litro ormai quasi vuoto.
«A me?» chiese l’uomo ridendo di gusto. «C’è l’imbarazzo della scelta: mia madre, mio padre, i miei fratelli, gli zii, perfino i nonni. La mia è una rispettabile famiglia di ubriaconi, per la miseria!»
Davide scosse la testa infastidito e mugugnò qualcosa tra i denti. Ingurgitò il resto del whisky in un sorso e prese il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, pronto a pagare per tornarsene a casa.  
L’uomo, però, rise ancora più forte.
«E dai, ragazzo, te la sei presa? Stavo solo scherzando, che diamine! Dai, resta, il prossimo giro te lo offro io» disse, avvicinandosi a lui e facendo un gesto con la mano alla barista per farle capire di riempire di nuovo il suo bicchiere. La ragazza rimase a guardare Davide in silenzio, in attesa di un segnale da parte sua.
Davide stava per rifiutare quando lei disse, stavolta senza traccia di ironia nella voce: «Whisky o no ti conviene restare. Sta venendo giù il finimondo, fossi in te aspetterei almeno che smetta di grandinare.»
Davide guardò attraverso la vetrata del locale e si sorprese di vedere, e sentire, l’intensità con la quale il temporale si stava abbattendo su quell’angolo di mondo. Dal cielo piovevano chicchi di grandine grossi quanto palline da ping pong, tra lampi e tuoni spaventosi. Anche il vento si era alzato, e soffiava con tale forza da sovrastare quasi il fragore della grandine e dei tuoni.
«Oh, cazzo, amico. Spero tu sia venuto a piedi» disse il vecchio di nome Giuseppe.
Davide sospirò pensando alla sua Subaru parcheggiata davanti al locale, ora in balia della furia del tempo.
“Ma sì, che vada tutto in malora!” pensò afferrando il bicchiere e annuendo in direzione della ragazza per autorizzarla a riempirglielo per la terza volta.
«Ecco, bravo, così si fa!» esclamò Giuseppe il vecchio. Finì di bere la sua birra e se ne fece versare anche lui della nuova, sempre nel boccale da mezzo litro.
«Allora, di dove sei?»
Davide bevve un sorso del suo whisky.
«Milano», rispose senza troppa partecipazione.
«Bella Milano. Così mi hanno detto, non ci sono mai stato. E che ci fa un metropolitano a Gavassa?»
«Ottima domanda.»
«No, davvero, sono curioso. Io in questo paese ci sono nato e cresciuto e di sicuro ci morirò. Per me è casa e casa si ama a prescindere, ma, a parte le zanzare e le sagre, non c’è molto altro da fare o da vedere.»
Davide sogghignò con perfidia. L’whisky iniziava a fare effetto, avvertiva un piacevole calore in tutto il corpo e pazienza se la mente iniziava a riempirsi di pensieri confusi e la lingua a farsi sciolta.
«Anche Gavassa è una metropoli in confronto a Mestrieri» borbottò nel bicchiere.
Giuseppe il vecchio impallidì di colpo, lui e la ragazza dietro il bancone si lanciarono uno strano sguardo, ma Davide era troppo occupato a stordirsi di alcol per notarlo.
La ragazza tornò a incrociare le braccia sul petto. «Conosci Mestrieri?» indagò, quasi con sospetto.
«Ci abito» precisò Davide, sforzandosi di pronunciare quelle parole senza biascicarle.
«Avevi detto di essere di Milano» replicò lei.
«Sono di Milano e presto intendo tornarci. Ma per il momento sono bloccato qui. A Mestrieri, intendo...»
«Puttanate!» esclamò a quel punto Giuseppe il vecchio. Aveva smesso di essere sarcastico, aveva smesso di sorridere, aveva smesso perfino di fare chiasso, e questo sorprese Davide, che ritrovò un pochino di lucidità mentale e chiese: «Perché puttanate?»
«Nessuno entra e nessuno esce da Mestrieri. Perché sei qui?»
«Perché sono qui? Che vuol dire?»
«Perché sei a Mestrieri, come ci sei arrivato? Di certo non per lavoro.»
«Ho ereditato una casa da un parente...» Davide scosse la testa, perplesso. «Ma qual è il problema?»
«Che parente? Di che casa si tratta?»
«Qual - è - il - problema?» scandì lentamente le parole Davide, che cominciava a perdere la pazienza.
«Tu dimmi qual è la casa ed io ti dico qual è il problema.»
Davide si guardò intorno, imbarazzato. Nel locale era sceso un insolito silenzio. Perfino il temporale si era chetato e ora sembrava che l’attenzione del mondo intero fosse tutta concentrata su di lui.
«Una delle case nella Piazza Vecchia.»
«Di fronte al pozzo?»
«Sì...»
Davide notò che, a quel punto, la maggior parte degli avventori aveva iniziato a lasciare il locale alla chetichella, forse approfittando del fatto che aveva smesso di piovere. Si disse che avrebbe dovuto farlo anche lui, ma era troppo curioso di conoscere la ragione per cui il vecchio sembrava tanto interessato a lui e alla sua casa per andarsene proprio in quel momento.
«Circolano strane voci su quel pozzo, ragazzo» disse Giuseppe dopo un lungo istante di silenzio, quasi bisbigliando.
La barista emise una sghignazzata. «Ecco che ci risiamo...»
«È così, Barbara! Lo sanno tutti in paese, solo che nessuno ha il coraggio di parlarne. Che diamine, lo sai anche tu!»
«Ma dai, sono solo storielle dell’orrore che vecchi rimbambiti come te si divertono a raccontare ai bambini per costringerli a comportarsi bene. Infatti io le ho conosciute da mia nonna...»
«Ah, sì? E allora dimmi un po’: sei mai stata a Mestrieri? Ci andresti mai?»
«E che ci dovrei andare a fare?»
«Ok, zitti tutti e due un momento, per favore» intervenne a quel punto Davide, massaggiandosi le tempie che avevano iniziato nuovamente a pulsargli. Poi, rivolgendosi al vecchio, chiese: «Di quali storie parla?»
La barista scosse la testa e si allontanò da loro, evidentemente poco interessata a quei racconti che, per sua ammissione, aveva già ascoltato un’infinità di altre volte.
Il vecchio si piegò su di lui e gli disse all’orecchio, a voce bassa: «Tu credi nei vampiri, ragazzo?»
«Vampiri?» ripeté Davide incredulo. Lanciò un’occhiata alla barista che, con un sorriso sarcastico, si picchiettò la tempia con un dito, come a voler dire che il vecchio era solo un po’ toccato. E probabilmente era così.
Davide si alzò in piedi, stavolta davvero deciso a tornarsene a casa. «Va bene, ho capito. Divertente, davvero divertente», disse. Si avviò alla cassa, attese l’arrivo della barista e le chiese il conto.
«1956», continuò imperterrito il vecchio seguendolo. «Da queste parti ci fu una piena come da secoli non si vedeva, e come si spera non si vedrà più. Io ero ancora un bambino ma me lo ricordo bene. Il Po esondò e allagò tutte i paesi limitrofi, l’acqua arrivò fino ai tetti delle case...»
Davide pagò i whisky, prelevò il resto e rimise il portafoglio nella tasca dei pantaloni, mentre il vecchio proseguiva col suo farneticare.
«Ritirandosi, l’acqua lasciò dietro di sé distruzione e ogni sorta di putridume riaffiorata dal fiume, soprattutto oggetti legati alla seconda guerra mondiale. Cavolo, a Sorbello, una ventina di km da qui, fu rinvenuto perfino un ordigno inesploso... Comunque, furono molti i paesi coinvolti, e ciascuno di essi potrebbe raccontare centinaia di storie da far accapponare la pelle, ma niente in paragone a quello che accadde a Mestrieri... Una cosa orrenda!»
«Ah, sì?» fece Davide per niente interessato dirigendosi verso l’uscita. Il vecchio lo afferrò per un braccio prima che riuscisse ad aprire la porta, per costringerlo a fermarsi e a farsi ascoltare.
«Sì, è così! L’acqua ci mise un po’ a scendere di livello, anche quella dentro i pozzi. Quello di Mestrieri è un pozzo molto antico, risale al settecento...»
Davide sbuffò spazientito. «Giuseppe... Si chiama Giuseppe, giusto? Sembra una storia davvero molto interessante, e le prometto che la prossima volta che ci vedremo gliela lascerò raccontare per intero. Ora, però, vede, ha smesso di piovere e vorrei tornare a casa prima che riprenda...»
«Sì, lei dovrebbe tornare a casa, ma a Milano!» disse Giuseppe con la voce stridula, stringendo la morsa - ora quasi dolorosa - sul suo braccio. Sembrava spaventato ma anche, e soprattutto, sinceramente preoccupato per lui e questo mise addosso a Davide uno strano disagio.
Giuseppe emise un sospiro profondo, lasciò finalmente andare il braccio di Davide e, ora che aveva di nuovo la sua attenzione, proseguì nel racconto.
«Il pozzo di Mestrieri è solo un monumento, in disuso da almeno cento anni. Per questo ha una grata di ferro sull’apertura, come forse avrai notato. Ebbene, fu quella grata a trattenere i corpi che la piena del fiume aveva riportato in superficie.»
«Corpi?» gli fece eco Davide.
Il vecchio annuì. «Decine di corpi, soprattutto di bambini. Bambini molto, molto piccoli...»
Nel tentativo di capire quanto fosse serio il vecchio, quanto di quello che stava dicendo fosse vero e quanto partorito da una fervida immaginazione - ma anche per stemperare l’atmosfera pesante che si era venuta a creare - Davide suggerì, in tono ironico: «Uccisi dai vampiri, immagino.»
«Tutti i corpi ritrovati erano secchi come prugne messe al sole per tutta l’estate. Secchi, prosciugati di tutto il loro sangue. A molti mancavano intere porzioni di carne, altri avevano impressi nella carne chiari segni di morsicature. Chiamali come ti pare: vampiri, demoni, mostri, io so che nessun essere umano sarebbe capace di simili atti...»
Davide tornò a cercare lo sguardo della proprietaria del bar, nella speranza forse che lo rassicurasse di nuovo in merito al fatto che, sì, il vecchio era totalmente fuori di testa. Lei, tuttavia, stavolta non fece nulla né disse nulla, ma dall’espressione seria che le si era stampata sulla faccia sembrava chiaro che in fondo, a quelle storielle dell’orrore che si raccontavano ai bambini per terrorizzarli e farli rigare dritto, ci credeva anche lei eccome.
Davide, però, non poteva credere fossero vere. 
«Sono solo storie, giusto?» chiese quindi, guardando a turno entrambi.
«No, questa non è solo una storia. Molti abitanti di Mestrieri lasciarono il loro paese nativo dopo quel fatto, la famiglia di mia moglie fu una delle prime a farlo. Da allora nessuno entra e nessuno esce da quel paese maledetto...»
Davide aprì bocca per contestare le parole del vecchio. Prima aveva detto che sul pozzo di Mestrieri circolavano strane voci e ora le spacciava per vere. Giuseppe, però, come se gli avesse letto nel pensiero, lo precedette: «Questa storia è vera perché ci sono le testimonianze. Quelle che non possono essere verificate risalgono a prima e, soprattutto, a dopo quel fatto, ma posso assicurarti, ragazzo, che anche quelle storie fanno accapponare la pelle, forse addirittura di più. Non so perché tu sia qui ma una cosa la so per certa: nessuno entra e nessuno esce da Mestrieri...» Si avvicinò ulteriormente a lui e, stavolta in tono quasi d’accusa, aggiunse: «A parte te.» 
   
 
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