Dopo
un anno e qualche settimana, torno con un
capitolo di sola LORE.
Probabilmente questa storia sarà sottoposta ad una pesante
revisione, inclusa
il cambio di denominazione temporale, da Sorelle ad Altro, meno
complicato.
Per ora, ehi, ecco la Lore non richiesta!
P A R T E P R I M A
L ' I N V I O L A B I L E
T I T O L O I
I G I O C A T O R I
C A P I T O L O X
C O S
I’ V M A
N A
D A
P A R E R E
Q V A S I
B E S T I A
“Ho
sempre apprezzato come voi donne fioriani portiate i capelli
sciolti” aveva
considerato Theresia, giocando con il ciuffo finale di una delle due
trecce
pesanti che portava dritte lungo il petto. Adda aveva arrotolato un
dito
attorno ad una ciocca di cappelli riccioluti, “Molto
audace” aveva aggiunto la
Monna Ferriana.
Nella
sua lingua, la sua parlata era così fluida e bella che la
faceva apparire
tremendamente regale; anche più di Canadea.
“Durante
le sorelle Vivaci sono una tortura, in vero” aveva dichiarato
Adda, “Inoltre, i
capelli sono parte del linguaggio. Alle sole donne maritate
è concesso raccoglierli,
alle fanciulle viene concesso solamente dei torciglioni per scostarli
dal viso”
aveva cominciato a spiegare, non sapeva esattamente la ragione di
quelle
chiacchiere vuote, ma Theresia sembrava quasi interessata.
“Il
capello sciolto è simbolo della purezza, non ho idea del
perché. Alle anziane o
alle vedove è concesso tagliarli corti; anche se ultimamente
è diventato
abitudinario per tutte le donne che indossano un lutto
famigliare” aveva
cominciato a spiegare.
“Il
famoso taglio della vedova, giusto?” l’aveva
interrogato Theresia, “Come sono
acconciati quelli dell’Imperatrice” aveva
considerato.
Adda
si era toccata inconsapevolmente i capelli, erano riccioluti, pesanti e
scendevano lungo la schiena. Gli aveva tagliati subito dopo essersi
unita a
Iren e Saiji nel loro vagabondare.
“Quando avevo cinquanta sorelle sono andata in visita
all’Aranceto; per il
compleanno del defunto Arciduca, come era: il Principe Tarbaras o
qualcosa di
simile” aveva cominciato Theresa.
“Tarbarat il Bello”
l’aveva corretto Adda.
Un
soprannome che ben si addiceva ad un figlio del Destino, optava Adda.
“Sì lui, bell’uomo, anche se mi era
parso più interessato a fustigarsi le
gonadi che partecipare alla sua stessa festa, comunque, principe a
parte, penso
mio padre e mio zio volesse farmi maritare con uno dei loro
cugini” aveva
considerato.
“Non
mancano principi di sangue all’Impero” aveva
considerato Adda, pensando alla
popolo famiglia imperiale, tutti affamati e volenterosi di indossare
l’Amara
Corona. Quell’ultimo commento aveva permesso alle due donne
di scendere in un
silenzio leggermente scomodo, mentre continuavano sul loro incedere
nell’erba
secca della Pallida.
“Comunque ho
notato che c’erano fanciulli e
fanciulle con i capelli radi” aveva ripreso Theresa. Adda era
davvero piena di
confusione per tutte quelle considerazioni sui capelli, non ci aveva
mai badato
così tanto, ma doveva riconoscere che avesse senso per la
Monna Peripsiana.
La prima volta che Adda aveva raccolto i capelli era stato proprio
nella città
ferriana, quando Deria le aveva allungato un nastro e le aveva detto
che non
era rispettabile per una donna fatta-e-finita portare i capelli scinti.
“Oh,
sì. È un’usanza un po’
… come si dice? Desueta sì, vengono rasati i
capelli di
ragazzi e ragazze fino alla quarantesima sorella, con lo scopo di
confondere il
principio” aveva detto calma Adda.
Anche
lei li aveva portati così, lunghi quanto la prima nocca
delle dita, ma il
Principio non era stato neanche preso in considerazione. Sua sorella le
aveva
tagliato i capelli per evitare che si prendesse i pidocchi e non dover
sprecare
tempo a districare i ricci, ‘Dobbiamo farlo ora che
ne possiamo approfittare’
le aveva detto imperioso.
Theresia
aveva emesso uno sbuffo, “Immagino che le donne siano
più inclini a farsi
sedurre dal Principio” aveva considerato, il suo tono voleva
essere burlone, ma
nel fondo si poteva sentire il raschio del nervosissimo.
Adda
aveva scosso il capo, “No, mia monna. Gli uomini, come ci
viene insegnato, sono
forti e feroci, combattono e fanno la guerra, come le bestie
… e questo può
guidarli allo smarrimento. Le donne nell’Impero sono is-
volevo noi – anche io
sì – siamo istruite ad essere la luce che illumina
il giusto sentiero” aveva
risposto pacata Adda.
Theresia
aveva emesso un suono che doveva collocarsi a metà di una
risata e di uno
sbuffo, “Oh, è tu sei la luce che illumina il
giusto sentiero di Garlio il
Principio-Incarnato?” aveva chiesto retorica.
“Lui non ha bisogno di luci, lui sa camminare al
buio” aveva risposto di gesto
Adda.
Theresia aveva sospirato, con gli occhi si era rivolta alle acque
chiare del
piccolo fiumiciattolo che stavano costeggiando, “Non ho idea
di cosa il Giusto
Sentiero preveda per una donna ferriana, sono cresciuta un
po’ fuori dal mio
ruolo. Però immagino sia stare zitta, saltare quando lo
comanda il
Don-Tuo-Marito e sgravare bambini. Supposizione però,
l’educazione la ho
ricevuto da mio padre, diceva che mio fratello Emisio era troppo
stupido per
essere il suo erede e da un It Ghaatiano[1]
troppo attraente per essere preso sul serio e piuttosto guidato dai
suoi vizi”
aveva considerato con una punta di divertimento.
Adda
aveva scosso il capo, facendo tremolare i ricci. Theresia era
un’adoraoro fino
al midollo nelle sue ossa, si percepiva proprio, nel suo parlare, nel
suo
parlare così scivolosamente di quegli argomenti, non
comprendeva quanto il
destino prescritto ed il servo arbitrio fossero qualcosa profondamente
intessuto nell’Impero. I fiori avevano plasmato loro fino
alle radici.
Anche Adda con la sua mancanza sul seno, che aveva smesso di essere
pecora e di
curarsi di quell’ordinamento, a volte, si sentiva ancora
legata e schiacciata.
Dovevano essere passate almeno ottocento sorella dall’ultima
persona che a
Peripsia fosse stata condannata per essere liberista.
Adda sapeva che la strega non era stata l’ultima, ma era
stata la condanna che
Adda ricordava di più, a cui il pensiero correva di
più quando pensava quegli
argomenti.
Gente
finiva sulla ruota, gente finiva a ballare la danza degli strozzati, ma
la
strega era stata condannata all’essiccamento.
Niente
cibo, niente acqua, niente.
Adda
si era grattata il petto sentendo le cicatrici della mancanza bruciare.
Garlio
era stato bravo nel tagliarla e mutilarla, non le aveva fatto male e
non aveva
permesso alla febbre di averla, ma ogni tanto, Adda sentiva aghi
infuocati
nella sua pelle.
“Come
stanno Saiji e Iren?” aveva chiesto alla fine.
Theresia
era un’affarrista, era una lupa d’oro, se
così poteva dirsi, voleva qualcosa da
Adda ed immaginava che fosse convincere il titubante Garlio, ma lei non
avrebbe
giocato a quel gioco.
Adda non era una commerciante, non era una sofista, era a malapena
umana.
Theresia aveva ridacchiato, continuando a giocare con i ciuffi spessi
delle sue
trecce scure. “Oh … Sir Alderichi è
sempre storto, come se qualcuno gli avesse
morsicato il cuore” aveva risposto, “Io sono stata
cacciata da casa mia,
lasciata alla mercò della bontà
dell’animo nero di mio cugino, abbandonata dal
mio stupido fratello, ma tra me e lui, Sir Alderichi pareva essere
stato
fustigato dal Buon-Dio” aveva spiegato.
Adda aveva sorriso a quel pensiero, sollevata. Si era anche sentita
meschina,
ma non poteva controllarlo. L’insofferenza scostante di Saiji
significava che
forse nulla era cambiato, nonostante il suo allontanamento e quello le
riempiva
il cuore di gioia, perché le mancava il suo Saiji e sapere
non fosse già
scomparso le dava una certa pace. Dall’altro lato si sentiva
amareggiata,
perché se nulla era cambiato e Saiji era ancora
insofferente, all’ora egli era
ancora impantanato nella sua malanconia distruttiva.
“Riguardo al tuo uomo benedetto, non saprei dirti, non ha
parlato molto.
L’ultima volta mi era sembrato più …
vivace” aveva fatto una pausa Theresia.
Adda aveva ridacchiato: “Un modo piuttosto carino per dire
borioso e
palo-in-culo” aveva considerato. “La parola che
cerchi è eufemismo” l’aveva
corretta Theresia, prima di riprendere: “Il tuo amico mi
è sembrato più
sciupato di una candela consumata” aveva ammesso.
Adda
aveva annuito. Iren non era mai stato un sole vibrante, così
come non era stato
una piacevole compagnia con cui intrattenersi. Nonostante la sua
apparenza
divina, non era stato mai indubbio che fosse prima di ogni alta cosa un
Manimobride, con tutte le loro caratteristiche: arrogante, presuntuoso
e
supponente.
I
nobili che nascevano anche benedetti erano sempre le persone
più orribili, a
detta di Adda, che aveva pulito i loro pavimenti, lavato la loro
biancheria e
sentito le loro chiacchiere, ma Iren era stato una speciale creatura
mostruosa.
Adda lo aveva odiato. Era un pensiero così sciocco, dopo
tutte quelle sorelle,
quando avesse provato fastidio per il suo amico. Aveva odiato il suo
modo di
parlare, di porsi, di guardare.
‘La
tua serva è ardita, sfacciata’
‘Fortunatamente
a me piace così.’
Dopo
tutta la confusione in cui erano finiti, Adda ci aveva messo molto meno
tempo a
perdonarlo di quanto lei stessa avesse immaginato. Aveva provato un
dolore
fantasma alla schiena, pensando alle scudisciate, ma nel vederlo
così
distrutto, disperato e sconvolto, Adda si era intenerita.
In quel momento lei ed Iren avevano condiviso lo stesso cuore
sanguinante, dal
tradimento. ‘Hai un cuore di miele’
le aveva detto Saiji, che aveva
quello sguardo morto negli occhi, di chi non desiderava altro che
lasciarsi
quel mondo alle spalle.
‘Qualcuno
deve pur possederlo, in questo mondo brutto’ aveva
risposto.
Iren
si era ripreso, un po’ alla volta, lei e Saiji avevano
smussato i suoi angoli e
lo avevano reso un po’ più umano, un po’
più decente, ma era sempre rimasto
quel manimorbide supponente che si lamentava di ogni cosa, del dormire
sotto le
stelle, del cibo scarno e di ogni conforto di cui sentiva la mancanza.
‘Non
sono una bestiaccia come voi’ si lamentava, come se anche
Saiji e Iren non
fossero cresciuti sotto un tetto e dietro mura calde. Però
le spezzava il cuore
saperlo privo di quella scattante irruenza che lo caratterizzava. Le
dispiaceva
molto, perché le aveva promesso che sarebbe stato meglio.
Dunque,
oltre il Nobile Manimorbide era morto anche il suo Iren lamentoso e
divertente?
Adda aveva sentito le sue labbra tremolare e la sua rabbia montare come
uova
sbattute, per non essere con loro.
Sette
cerchi
– come avrebbe detto Saiji – quanto
sentiva la
loro mancanza!
Theresia
aveva ignorato il suo passeggiare mentale, ed aveva ricominciato a
mandare: “Ho
mandato quei due a reclutare una compagnia di ventura per me, come gli
chiamate
voi: Lupi d’arme?” aveva chiesto.
“Sì, un braco per me, possibilmente
famelico”
aveva spiegato calma.
“L’Inviolabile
non si violerà da sola, d’altronde”
aveva considerato Adda, “Sì, io e il mio
buon cugino stiamo cercando di mettere su qualcosa. La compagnia la ha
scelta
Alderichi, il punteruolo di Santa o Madre Erzeveka” aveva
raccontato Theresia.
La
monna feriana poteva rivolgersi ad Adda con gentilezza inaudita, ma
sicuramente
non la considerava come tale o non avrebbe vomitato tutte quelle
informazioni
in sua presenza. Quando serviva Canadea, lei era l’unica
nella stanza a notare
la sua presenza, per tutti gli altri, Adda era invisibile per tutti
loro,
almeno fino a Iren.
Ad
Adda faceva ridere perché se pensava ad un nobile
Manimorbide che immaginava
non l’avrebbe mai dovuta notare quello era Iren, eppure
…
“Credo
abbiano combattuto con Saiji contro i cavalieri Erranti, ma non
ricordo, non
sono brava in questo cose” aveva ammesso onestà
Adda.
“Sì,
me lo ha detto il nostro buon Sir Alderichi, “Hanno
combattuto anche in altri
posti, per tutto l’Impero, anche in Ghaadia e qualche volta
anche nei territori
della Lega. Ho fatto i miei compiti, il Punteruolo esiste da prima del
suo
capitano” aveva spiegato divertita Theresia, “Ed
ovviamente loro erano alla
piana di Malvasia, ma senza Sir Alderichi lì”
aveva aggiunto Theresia.
Oh infame dio, Theresia aveva mandato Iren da un braco di lupi
d’arme che aveva
combattuto contro la sua terra.
“Non
mi piacciono i mercenari, sarò onesta. Non ho problemi a
pagare un uomo per i
suoi servigi, ma affittarlo si. Inoltre, non so, do una paga ai miei
uomini, ma
loro mi hanno giurato fedeltà. Un mercenario cosa mi giura?
Lo stesso, ma per
tempo, fino al contratto migliore. E se il migliore è il mio
avversario?” aveva
domandato retorica Theresia.
Adda
non pensava fosse una domanda per lei, fino a che non si era accorta
che la
monna ferriana la stava ancora fissando.
“Scarabocchio”
aveva cominciato Adda, recuperando il soprannome dell’uomo,
del capo del
Punteruolo, “Ha fama d’essere feroce, intelligente
e di parola” aveva detto
solamente.
Una volta aveva sentito quella definizione per l’uomo.
“Per
un prezzolato sì, ma la fiducia è una brutta
bestia da comprare, specie se per
un mercenario” aveva ribattuto Theresia, “Mi sto
fidando di questo Scarabocchio
perché mi fido di Sir Alderichi, perché
è uomo corretto” nel dirlo Theresia
aveva sorriso. Adda aveva sorriso senza controllo.
“E
per la fiducia che provi in Saiji, vuoi anche Garlio” aveva
valutato, poi, Adda.
“Sì,
ma anche perché è un uomo con un’ideale
ed il bisogno di sfamare un popolo.
Come ho detto: la lealtà è una brutta bestia da
comprare, Ser Scarabocchio avrà
i suoi uomini, saranno fedeli a lui, probabilmente, ma come le
prostitute ti
amano fino al prossimo cliente. I tuoi eretici seguono il tuo uomo
perché hanno
fiducia in lui, più di quanto lo hanno in sua
maestà l’imperatrice” aveva
dichiarato Theresia.
Adda aveva sputato sull’erba vicino l’ansa.
Theresia
aveva inarcato un sopracciglio, “Non son sorpresa, di fatto,
l’Imperatrice è la
Somma Incarnazione del Volere di Dio” aveva aggiunto. Adda
aveva scrollato il
capo, “So che mi stai nascondendo qualcosa. Ho servito come
cameriera e come
Dama Guardarobiera, a Cama,
riconosco quando c’è uno schema più
grande di me” aveva dichiarato, solo che
era stata sempre troppo ignorante e toccata per leggerlo bene.
Theresia
aveva riso, “Sì, forse, niente di troppo elaborato
che avrò piacere nello
spiegarti, se convincerai il tuo uomo a sostenermi” aveva
risposto senza
vergogna. “Sarò una strega per le Pecore ma non ho
poteri di incantamento, ne
Garlio è uomo che può essere ammaliato”
aveva detto secca.
Theresia aveva un viso grazioso, piccolo, con un mento leggermente a
punta,
ambrato e ciglia lunghe, messe in risalto da un rigo nero. Non era una
figlia-del-Destino, era Sbagliata, come Adda, ma il suo sbaglio
era
moderato, quasi affascinante, come lo strabismo intrigante di un certo
dipinto
esposto nella sala dei banchetti del Reggia Imperiale in campagna.
Imperfezioni
accettabili, stuzzicanti, che rendevano Monna Theresia
inequivocabilmente
umana, perciò più vicina della marmorea bellezza
dei Figli-del-Destino, ma più
impenetrabile, come un mistero che doveva essere risolto. Dov’è
lo sbaglio?
Il
tipo di bellezza di cui era stato imbevuto anche Saiji.
Nulla
a che fare con la Sbagliataggine di Adda, brutale e prorompente,
esposta, senza
vergogna.
Tutto di lei era visibile, non c’era un mistero da risolvere,
così umana da parere
quasi bestia. “Tutti gli uomini
possono essere ammaliati dalla donna che amano, specie quando lei
professa in
ciò che crede” aveva ricevuto risposta da parte di
Theresia con un tono quasi
pigro.
Adda
aveva sollevato gli occhi al cielo, insicura
dell’affermazione della Monna, si
era stretta nelle sue spalle nel tentativo di nascondersi nel suo
stesso corpo.
Theresia
non le aveva scollato gli occhi di dosso, aspettando probabilmente una
sua
qualche brillante massima, “Il ragazzino” aveva
detto invece Adda, “Quello dei
cinghiali, intendo, sta davvero bene?” aveva chiesto.
Se
l’uomo che era morto aveva scombinato l’elegante e
perfetto mondo di Theresia,
doveva essere una persona importante e di solito chi ne era
responsabile, che
fosse verità o menzogna, non ne usciva mai illeso.
“Sì, certo, amica mia, perché
avrei dovuto mentire?” aveva risposto la monna ferriana. Adda
aveva sollevato
un sopracciglio, “Ora è con mio cugino Tarsio,
è il suo palafreniere” aveva
raccontato.
“Non
è tornato a casa?” aveva chiesto.
“Oh,
denti-marci, avrebbe dovuto? Ha ucciso una delle due
teste della bestia”
aveva risposto con voce spenta Theresia, “Ma hai detto che
è stato
un’incidente!” aveva ammesso Adda. “Certo
che le è stato. È anche quello che ha
giurato in tribunale ed è stato confermato da tutti i bravi
signori lì
presenti, ma Darion aveva l’intenzione di farlo sparire ed
addossare
l’accidentale morte di Lorenzin a suo fratello
minore” aveva spiegato.
“Radici
marce, la sua famiglia è un vero infero,
Monna Theresia” si
era lasciata sfuggire Adda, quasi senza controllo. “Un tempo
non era così,
giuro ho ricordi dolci e carini di Emisio e Darion” aveva
ammesso con cupezza. “Comunque,
il ragazzino, Lippo o Filippo? Non ricordo bene, è con il
contingente di mio
cugino, uno dei suoi fratelli è qui, si è unito
alla mia coorte” aveva spiegato
calma. Adda non riusciva a fidarsi del tutto di quella risposta,
continuava a pensare
a un piccolo bambino che aveva rovesciato il mondo e il cui mondo si
era
rovesciato, senza che lui potesse fare nulla, senza la
possibilità di tornare a
casa. Nella mente di Adda il piccolo Lippo somigliava a Saiji con la
sua pelle
marrone e i capelli rosso sangue.
“Perché
siamo qui, Monna?” aveva chiesto poi Adda, realizzando che
non era brava in
quella danza, era più facile quando aveva servito come
cameriera, non era
richiesto che parlasse, era richiesto che ascoltasse, interpretasse
sì, ma ogni
cosa aveva un punto di vista lontano da lei.
“Perché
mi piace questa vista, il Sarmonte è un fiume placido e non
è difficile da
guadare” aveva risposto Theresia, “Mio padre
è morto così, guadando un fiume,
leggermente sbronzo e con un’armatura bella
pesante” aveva detto con voce
spenta e cupa, “Avevo cinquantasette sorelle, una ragazzina
nel petto,
sanguinante tra le cosce, ma una donna fatta-e-finita per i
ferriani” aveva
ammesso.
Theresia
aveva fatto condurre il resto del loro configgente
all’accampamento. I ferriani
non erano sembrati per nulla turbati dalla loro presenza,
più incuriositi dal
loro aspetto che altro.
Però ad Adda non era sfuggito affatto come alcuni soldati
che non aveva volpi –
o qualche altro animale – sulle cotte di tanto in tanto
rivolgeva sguardo verso
di loro.
Dovevano
essere uomini che avevano accompagnato la nobile Saera – ma
era strano che
avessero i fiori del loro signore. Adda aveva osservato la piccola
Mathea, con
gli occhi luccicanti come raggi di sole sull’acqua, quando
aveva visto la
frutta secca, la farinata nella tigella di rame, formaggi e carne al
sale. Non
era lo stesso lauto banchetto che Adda aveva potuto godere la sera
prima quando
Theresia li aveva convinti a spezzare il pane con loro, ma era
probabilmente
uno dei pasti più grassi che avessero visto in quelle lune.
E
Mathea con le sue gambe secche come ramoscelli ne aveva bisogno.
“Cosa
voleva la nostra Monna Volpe?” aveva domandato Delisio,
appena l’aveva vista
con un’espressione intensa sul viso brutto.
“Abbiamo parlato di capelli … ma
credo che volesse semplicemente spingermi a convincere Garlio di unirci
a lei”
aveva ammesso.
Delisio non aveva perso il suo sorriso snervante, “Proprio
non riesco a capire
perché quella melanzana del tuo amico ci abbia messo in
questa situazione” si
era introdotto di forza Nerf nel discorso, con espressione dipinta di
boria sul
viso stanco.
Adda
si era morsa un labbro, prima di deviare lo sguardo verso Garlio,
“Per lui”
aveva detto.
Garlio per i nobili dell’Impero poteva essere un radicale e
per i popolani un
eretico pericoloso, il Principio-Incarnato ma Adda sapeva che per Saiji
era una
mente brillante.
Si
era congedata non senza fatica da Delisio per raggiungere il suo
amante, bello
come il sole nascente – un uomo benedetto che aveva rinnegato
il Giusto
Sentiero.
Adda
non sapeva perché, la cosa era stupida; Garlio non le aveva
mai detto nulla e
mai le aveva chiesto.
L’uomo le aveva preso la mano appena lei era stata alla sua
portata, aveva mani
forti, grandi e non morbide, mani da uomo libero.
“Monna
Theresia mi ha detto di avere fini nascosti, sì”
aveva ammesso calma, che non
aveva senso nascondere.
“Non ne avevo alcun dubbio” aveva risposto
l’uomo, con le bocca piegata in una
smorfia insoddisfatta, “Non so come comportarmi, Adda. I miei
compagni hanno le
pance piene dopo decimane e lo devo ad una donna avida di
un’altra terra” aveva
detto stanco, “Inoltre, so quanta fiducia tu sembri provare
per Ser Saiji
Alderichi ma sai bene che da me non è ricambiata”
aveva detto spento e stanco. Non
era una novità quella, Saiji aveva potuto trovare molti
pregi nella mente di
Garlio, ma sembrava che l’altro avesse difficoltà
a trovarne nell’amico di
Adda.
Per
un po’ Delisio l’aveva presa in giro, rimarcando
fosse per gelosia, anche un
uomo senza occhi avrebbe potuto notare il genuino legame che legava
Adda e
Saiji, quando erano loro vicini – figurarsi un uomo come
Garlio, che aveva
occhi anche dove non si dovevano.
Per
Adda erano baggianate, il legame che univa lei e Saiji era sicuramente
di
fiducia e di affetto, ma non vi era amore ed era nato sorto dal bisogno
e dal
biasimo. Due ragazzini spauriti.
Adda
continuava a rivedere come un sogno la prima volta che si erano visti,
ricordava l’indolenzimento alle spalle dato dal peso del
secchio e il ferro che
le tagliava le dita, perché non aveva i guanti, ricordava il
mantello
impomatato nero come una coltre nelle ombre, in cui era cucita la Testa
di
Drago, troppo grande e troppo spesso per un ragazzino. Canadea non
l’aveva mai
fatto nobile dama, ma le aveva dato una rendita buona e vestiti di
tabì e
cotone buono, ‘Ora potresti anche sposare il piccolo
bastardino di
Moria’ l’aveva presa in giro. Ed era
stato un pensiero così estraniante per
lei, perché era sicuramente intrigata e interessata a Saiji,
ma non aveva mai
sognato di camminare al suo fianco lungo la navata di un tempio.
‘Non la
lascerei mai, mia signora’ aveva risposto cheta e
calma, perché suonava
migliore di ‘Non sposerei mai un dichiarato
Principista svergognato’
quante cose le lune mutavano se ci pensava.
Aveva
abbandonato Canadea e amava un uomo che rifiutava Iddio.
E
non poteva credere che un uomo acuto come Garlio pensasse che tra lei e
Saiji
potesse esistere altro che una abnegante amicizia.
“Un
giorno potresti spiegarmi perché lo odi così
tanto” aveva sbuffato. Garlio
l’aveva guardata con l’intensità ardente
nel sole negli occhi scuri, “Perché ha
mentito” aveva risposto lapidario, come se avesse avuto
quella risposta da
sempre pronta sulla lingua, solo acquattata come un leone di montagna
dietro un
masso, al momento di poter attaccare. “Molta gente
mente” aveva risposto, “La
sincerità è una virtute
chiesta dal Giusto Sentiero a cui gli uomini
tentano di sottrarsi da sempre” aveva recitato.
Era una frase lucida e pulita che stava male sulle labbra e la bocca di
fango
di Adda, ma ricordava un tempo di averla sentita.
“Una
mezza conversazione con una nobiletta e Adda ha ripreso le sue maniere
infiocchettate” l’aveva spudoratamente criticata
Nerf, lei si era voltata per
fargli un gestaccio, prima di riportare lo sguardo nero su Garlio.
“A
mentito su Arlo Ceidri di Città Rosa”
aveva stabilito. L’uomo messo
sulla ruota condannato all’Essicamento per la colpa
vergognosa di aver ucciso l’amore
dell’Impero e il suo fiore più bello.
“Al Grande Tribunale, al Giardino, ha
incolpato un uomo di un atto probabilmente da lui stesso
commesso” aveva detto
stanco e arrabbiato.
Adda
aveva sentito il freddo salire nella sua schiena, forare la pelle e
penetrare
nelle ossa. Perché ricordava la Stagione Pallida in cui era
successo. Ricordava
la neve che copriva la piazza principale e i comminati e i lamenti per
la
strada.
‘È
morto è morto il nostro imperatore. Piange Iddio e ci
punisce con la morte
bianca perché lo abbiamo permesso’
cantavano tutti.
Adda
aveva sentito il freddo così brutale sul viso quasi da avere
la sensazione che
le lacrime si ghiacciassero.
“Non avevi detto di non conoscerlo?” aveva
domandato Adda, inghiottendo i
ricordi di quel giorno. “Ho mentito” aveva risposto
Garlio, “Come Saiji,
d’altronde, che ha incolpato Arlo e la sua banda del massacro
della Terza Luna
del Fruttidoro” aveva risposto.
Adda
aveva inghiottito un bolo di saliva, “So che tu lo ami come
un fratello” aveva
ripreso a parlare Garlio e quando aveva pronunciato quelle parole la
sua voce
si era fatta acuta e fastidiosa, “Ma lui ha mentito.
Probabilmente ha ucciso il
Dolce Imperatore con le sue stesse mani è poi ha dato la
colpa ad Arlo. Un uomo
buono” aveva fatto una pausa Garlio, le sue labbra erano
tremolanti e se
possibile gli occhi si erano fatto leggermente lucido. Adda aveva
ricordato il
clangore delle lame e le urla, ‘Non voglio morire!’
“Saiji
… lui ...” aveva provato a parlare ma le emozioni
avevano preso il sopravvento
sulla sua gola e sulla sua lingua, nessuna parola era uscita fuori e la
bile
aveva strozzato la gola – aveva di nuovo voglia di vomitare.
“Arlo
non era me. Non appendeva la gente e viveva ai margini della
società, Arlo
andava di città e in città a dire che tutti gli
uomini erano uguali e che dio
aveva creato i fiori per i suoi colori” aveva parlato con
voce aspra.
Adda
lo ricordava, le dame che dicevano che Arlo fosse un mezzo matto che
camminava
tra i lebbrosi, dava via le sue monete e parlava di futuri radiosi
pieni di
vita, fiori e amore. “Molta gente dava credito alle sue
parole e lo trovava una
figura a cui appellarsi, rispetto l’algida puttana che vive
al giardino” aveva
sputato fuori Garlio, con un rancore nella voce che Adda non aveva mai
sentito
e che l’aveva spaventata profondamente. “Quindi lo
conoscevi bene” era riuscita
solamente a dire, “Sì. Venne dove abitavamo io e
Delisio a parlarmi delle vie
oltre il Cammino già scritto” aveva ricordato con
una dolcezza senza precedenti
che aveva acquietato il nervosismo e la rabbia, “Per me era
un uomo fin troppo
morbido e idealista, l’ho abbandonato per questo, ma non mi
era meno caro nel
cuore” aveva ammesso.
Adda si era sporta per abbracciarlo.
“E poi il Dolce
Imperatore con tutto il suo
seguito … niente di meno che l’ordine della Spiga
muore – non viene ritrovato
il cadavere – e l’unica guardia sopravvissuta, il
figlio bastardo, dello
Scintillante Generale pronuncia nel Sacro Tribunale che un uomo scomodo
ai
nobili ma che mai ha neanche tirato una pietra contro un cane, lo abbia
ucciso”
aveva ricordato velenoso.
“Saiji non è il figlio bastardo del
Generale” aveva risposto Adda, Saiji non
avrebbe tollerato di essere definito in quella maniera, aveva un padre
di cui
ricordava poco ma alla cui memoria era devoto – e che Ser
Moira aveva
squartato.
“Tutto
quello che hai da dire?” aveva chiesto retorico Garlio,
frustrato, “Che sia
frutto delle sue palle o di qualche perversione di Moira Ramberra,
questo non
cambia che Saiji sia una sua creatura nutrita dal palmo della sua
mano” aveva
detto secco.
Adda
aveva deviato lo sguardo, su quello non aveva torto. “Saiji
ha detto quello che
gli è stato detto di dire, perché se no sarebbe
stato lui ad essere condannato
all’essicazione per la sola colpa di essere sopravvissuto al
suo signore” aveva
ammesso Adda con voce calma, ricordando la figura di Saiji nelle celle
del
palazzo.
‘Che
vuoi fare?’ aveva chiesto lei. ‘Mentiamo
Adda. E poi dimentichiamo e
speriamo che tutti dimentichino’ aveva ammesso. Ma
come si poteva
dimenticare? Non si poteva, semplicemente.
Non
era previsto che Saiji sopravvisse né al Massacro
né al giudizio del Tribunale.
Adda aveva già lasciato il Giardino da diverse decimane
quando il verdetto
aveva raggiunto lei e Iren dove si erano rifugiati.
Morte
per i cospiratori: Arlo Ceidri e i suoi uomini e la spogliazione del
suo ruolo
per Saiji per la mancata capacità di proteggere
l’uomo a cui aveva giurato di
asservirsi completamente.
“Avrei testimoniato anche io, se fossi stata
costretta” aveva replicato Adda
con voce più dura, ricordando quando un uomo della Corda
Spinata l’aveva
condotta fuori dalla prigione e l’aveva abbandonata fuori
dalle porte della
città, con l’unico messaggio che era stata
graziata e che era libera.
Adda
non sapeva neanche che cosa volesse dire essere libera, era nata serva,
aveva
vissuto con la schiena gobba per tutta la vita e non era sicura di
sapere come
si potesse camminare con il dorso dritto. “E
Saiji?” aveva miagolato, mentre
veniva abbandonata nella neve con solo i vestiti che aveva addosso e
una
bisaccia semi-vuota.
Aveva
creduto che la sua vita fosse finita quel giorno, fuori le mura del
Giardino,
separata per sempre da Saiji e con Iren abbandonato chi sa dove.
E
dopo aver pianto le sue lacrime, quante più ne aveva, e poi
si era alzata.
Una
parte di lei, pensava di aver smesso di essere una bestia e di essere
diventata
umana quel giorno, quando si era sollevata dalle sue ginocchia, con la
parte
bassa del mantello completamente zuppo di fango e neve. A volte pensava
di
essere diventata solo una creatura metà, fino a che non
aveva conosciuto
Garlio.
“Non
posso crederti” aveva stabilito Garlio, “Tu sei
buona e sei onesta” le aveva
detto con un tono più placido. ‘Hai un
cuore di miele’, sembrava essere
la sua condanna in eterno.
“Eppure,
avrei venduto il cuore, la mia bocca e la mia fica per
sopravvivere” aveva
risposto sdegnosa lei, allontanandosi. Punta da quell’onta di
moralità che le
era stata riversata addosso.
Non aveva Adda partecipato ai saccheggi?
Non
era giaciuto sulla schiena con un uomo che non le era ne marito ne
promesso
nella casa del Dio-di-ogni-cosa-buona? Non aveva scarnificato la sua
stessa
carne e rinnegato il suo credo?
E questo era stato solo nelle ultime sorelle, prima i suoi peccati
continuavano
ad impilarsi in una torre alta quanto il cielo.
“Dove
vai?” aveva chiesto.
“A
cercare Mathea!” aveva risposto sdegnosa.
Garlio
non l’aveva seguita, ma Delisio sì, non era un
uomo poco appariscente e non era
bravo nell’arte della mimesi. “Di cosa vuoi
parlare?” l’aveva interrogato
immediatamente lei, dopo aver scavalcato un gruppo di soldati che
giocavano a
dadi.
Alcuni
indossavano sul petto cucite Volpi e gatti pezzati, alcuni nessun
effige – e
loro occhi duri gli avevano seguito come avvoltoi sui prati rossi.
Delisio
aveva ridacchiato, con un sorriso in faccia di un gatto sornione,
“Credo di
piacere a quella brutta monna, Severia” le aveva detto
sfacciato, “Se entrambi
chiudiamo gli occhi sono certo potremmo passare piacevoli ore stesi sul
talamo”
le aveva detto.
“A una donna ferriana non è concesso rimanere da
sola con un uomo che non sia
suo padre, suo marito o suo fratello” aveva risposto Adda,
“I nonni e i
cugini?” aveva inquisito divertito, “Solo i figli
delle sorelle delle madri”
aveva detto pratica, per seguire lo scherzo. “Comunque,
niente vieta attività
ludiche, serve solo qualcuno disposto a guardare, cosa che ammetto mi
stuzzica
di più. Credi che il nostro Nerfivio sarebbe contento di
guardare?” aveva
inquisito svergognato. “Radici marce, penso preferirebbe
cavarsi un occhio che
intravedere il capezzolo di una donna” aveva risposto Adda,
sentendo il pessimo
umore sciogliersi dal cuore.
“Bene,
dirò a Monna Siveria di tenere il corpetto, un po’
mi stuzzica anche quello”
aveva dato corda Delisio. Adda aveva sorriso verso di lui,
“Allora: sciagurato,
cosa vuoi?” aveva chiesto con un tono forse troppo gentile.
“Lo
stesso che vuole Monna Theresia, che convinci Garlio ad
ascoltarla” aveva
risposto. Adda aveva sollevato un sopracciglio scuro, “E
perché mai?” aveva
chiesto, davvero stupita.
“Sono
un quarto ferriano, di una città nell’entro terra,
che è nella Lega più per non
venire mangiata che per reale interesse” aveva risposto
secco, “Ma i ferriani
davvero non si preoccupano di chi crede in cosa, fintanto che si lavora
e si
spende. Per i Ferriani le persone esistono solo in base a quello che si
può
spremere da loro, spesso fino alla morte” aveva aggiunto,
“Dei e cuori buoni
sono del tutto inesistenti” aveva ammesso.
“E
quello che Theresia vuole sono i nostri corpi come carne da
macello” aveva
sentenziato Adda.
“Anche” aveva risposto Delisio.
La
mente di Garlio però, che era stata così ben
pubblicata da Saiji. “Ma come una
brava Ferriana chiede e da” aveva ammesso, “I
nobili del Pregiatissimo Impero
avrebbero solo chiesto, senza concedere nulla. Forse a cose fatte
sarebbe stato
elargito una margherita per chiedere scusa di figli e mariti
morti” aveva
soppesato.
“Vero”
aveva riconosciuto Adda, perché non c’era menzogna
in quelle parole.
“Ma
ti prego non pensare che solo perché Monna Theresia offre
uno scambio all’ora
il prezzo vale la candela” aveva dichiarato lei,
“La signora può offrirvi un
posto nell’Inviolabile, ma non vi è prova che la
gente della Bestia Bicefala
non vorrà il vostro sangue sulle strade e i vostri polsi
legati ai pali” aveva
dichiarato.
“Vostro,
Adda? Non Nostro?” l’aveva provocata Delisio.
Lei
aveva fatto un passo indietro, riconoscendo il pronome, realizzando le
parole
che aveva pronunciato, “Hai capito” aveva cercato
di svicolarsi. “Inoltre, lo hai
sentito, no? Ieri. Lui ama l’Impero, non lo lascerebbe
mai” aveva ricordato.
Delisio
aveva riso in una maniera crudele e cattiva che aveva ricordato ad Adda
un
tempo diverso, poi però quella risata era scemata in
un’amarezza tragica, “Sai,
Garlio non ti ha detto tutto su Arlo” aveva detto,
“Non è stato una semplice
ispirazione. Lui è stato un santo per noi” aveva
detto Delisio, “Arlo ci ha
lasciato il cuore pieno d’amore, ma ci ha anche insegnato che
l’immobilità può
uccidere come una spada. Garlio ha già lasciato qualcosa che
non credeva
potesse essere abbandonabile una volta …” aveva
ricordato nostalgico.
Anche
Adda aveva sentito i discorsi che Arlo Ceidri aveva fatto, nelle
taverne, di
notte, quando usciva di nascosto dal suo ruolo di cameriera o dama
della
camera.
Non
era così scandaloso, nessuno voleva essere associato agli
eretici ma Arlo
Ceidri professava di fiori uguali e che le parole del
Dio-Di-ogi-cosa-buona
erano state manipolate fino a cadere nelle mani stesse del Principio.
Perfino l’Arciparrocco
era tentato di cedere al carisma di quell’uomo che da eretico
rischiava di
diventare una piccola parte dell’Ordine Religioso.
“Arlo
non era proprio un principiente, non che esistano. Arlo era un radicale
e
questo era visto peggio” aveva spiegato Delisio,
“Dopo l’Epurazione delle Città
Libere volute dal nostro defunto imperatore – possa il suo
fiore appassire –
gli eretici hanno vissuto un momento tragico, ma nelle ultime venti
sorelle la
situazione si era acquietata” aveva spiegato, “Ma
Arlo infastidiva sia
l’arciparroco sia l’Imperatrice, ma non poteva
essere ucciso o trucidato,
avrebbero fatto di lui un martire dei liberi pensatori” aveva
spiegato. Adda lo
sapeva, “Ma accusato dell’orribile morte del Dolce
Imperatore, all’ora …” aveva
cominciato lei, “Arlo non era più il messia del
popolo ma era un vile
assassino, responsabile della morte della luce del Pregiatissimo
Impero” aveva
stabilito Delisio.
“La gente può avere diverse opinioni
sull’Imperatrice” aveva considerato Adda,
“Ma il Dolce Imperatore era amato
all’unanimità” aveva ricordato,
“Cosa che per
me restava un mistero.”
Adda ricordava ancora la volta in cui aveva sfilato assieme sotto
l’arco di
spade e lui l’aveva lasciata al termine indietro di un passo.
Un affronto, che
nessuno della corte aveva trovato ingiurioso.
“Il vantaggio di avere un volto dipinto direttamente
dall’altissimo, sospetto”
aveva risposto secco Delisio, “Anche lei” aveva
risposto Adda, perché anche
l’imperatrice era una bambina benedetta, la più
benedetta, con una bellezza
così prepotente da lasciare il corpo in fremito, ammutolire
le lingue e fermare
i cuori. “Ma lui non discendeva da una stirpe di governanti
mediocri e non
aleggiava il sospetto del parricidio” aveva sogghignato,
“Non che io creda che
una donna scaltra come la nostra signora possa aver commesso un azione
così
avventata con un piatto di funghi” aveva sospettato.
Adda aveva riso sterile – lei qualche idea poteva averla.
“Comunque, le azioni che sono state
imputate ad Arlo
hanno avuto più di una conseguenza” aveva ripreso
Delisio, “A Malvasia è il
sangue che innaffia l’erba e le piante” aveva detto
schietta. Il Signore di
Pini Irti aveva imbracciato le armi per quella colpa. “E
dalle città vengono
cacciate e uccise persone. Garlio sarà il
Principio-Incarnato ma Arlo è
diventato il simbolo del suo male. Lui è morto di stenti
essiccato sulla ruota
e da lì, ogni uomo anche solo sospettato di eresia o
principismo o liberismo è
stata cacciata come un animale” aveva risposto,
“Non solo noi che lo eravamo
veramente, ma anche chi era guardato di un singolo sospetto. E tutte le
proprietà, gli ori e gli averi sono finiti per ingrassare le
casse di Palazzo
Cama e la Corda di Spine” aveva detto calmo Delisio.
Adda
si era morsa un labbro, “Per ora siamo un piccolo fastidio
per l’Imperatrice,
qualcosa su cui non vuole concentrarsi. Ha già avuto il suo
mostro: Arlo, poi
si è passata ad altro, ma ora che Ghetren Rasta è
cibo per vermi, l’Imperatrice
ha bisogno di nuovo di un nemico a cui indirizzare il Pregiatissimo
Impero che
non sia lei stessa.”
La
voce di Delisio era calma e fredda, “E tu non vuoi essere
lì per quanto sarà”
aveva considerato Adda, “Che siano i cavalcatori erranti che
razziano e girano
senza metà, che siano i Fiumani e la loro società
chiusa, che siano gli uomini
dei sussurri, o i bianchi ghateri o forse le città di Ferro
al confine. Non
importa” aveva soffiato, “Ma che non siano: Noi.
Che possiamo nasconderci
dietro le mura della città mai caduta” aveva detto.
“Ma
se Theresia prenderà Perlypsia all’ora
sarà caduta una volta” aveva ponderato
Adda, “Sarà caduta una volta su ventotto tentativi
all’ora” aveva riso Delisio,
“Una volta basta, spesso, perché sia la
fine” aveva detto lei più spenta.
La
loro conversazione era stata interrotta dal suono
dell’Olifante, che aveva
annunciato uno sconvolgimento nella Città di Seta. Come un
barrito aveva scosso
le fondamenta della città per ben tre volte.
“Secondo che significa?” aveva inquisito
Adda, che aveva un turbamento evidente nella voce, temendo bene di
sapere cosa
fosse, “Sappiamo perfettamente che lo sai” aveva
risposto Delisio con un
sorriso tutto storto, “Significa che qualcuno si avvicina a
questo accampamento”
aveva specificato.
“Ma non sappiamo se amici o nemici” aveva detto
Adda, guardandosi intorno.
Il
suono dell’Olifante aveva gettato l’accampamento in
un febbrile movimento, ma
Adda non sembrava percepire ne panico, ne aggressiva furia, ma
… agitazione.
“Raggiungiamo
Garlio” aveva stabilito lei, prendendo una mano di Delisio,
per condurlo di
nuovo, verso la tenda, dove erano stati sistemati provvisoriamente.
Mathea era comparsa poco dopo, con le gambe veloci e i capelli sciolti
ed
arruffati.
“Soldati!” aveva dichiarato, “Con fiori
sugli stendardi” aveva chiarito.
“Quanti?”
aveva chiesto immediatamente Delisio, “Non so? Trecento?
Quattrocento? Una
buona parte a cavallo” aveva spiegato subito secca la
ragazzina, “Non mi sono
messa a contare” aveva stabilito poi con un po’ di
vergogna. “Non ti
preoccupare tesoro, come erano le insegne?” aveva chiesto con
curiosità.
“Uhm … ne erano tre” aveva detto
pratica, “Una intera e due squarciate” aveva
aggiunto
la bambina, “Mi hai detto sempre di notarlo” aveva
terminato orgogliosa.
Delisio l’aveva guardata di traverso sollevando un
sopracciglio, “Le Insegne squarciate
appartengono a figli secondogeniti, eredi che voglio indipendenza e
rami
cadetti” aveva spiegato secca Adda, incrociando le braccia
sotto al seno, “Oh
lo so” aveva risposto con divertimento Delisio.
“Giusto l’oscuro passato di
Delisio e Garlio” aveva risposto con accidia lei, sebbene
solo il giorno prima
Theresia avesse definito Garlio il figlio di un attendente.
“Non
vi è nessun mistero, Adda” aveva risposto Delisio
senza derisione, “Ma se
Garlio vuole tenerti un segreto non romperò io i suoi
desideri” aveva risposto
secco. Adda aveva annui, “Hai ragione” aveva
riconosciuto. Una delle cose che
aveva funzionato tra lei e Garlio era conservare i propri segreti;
così si era
rivolta a Matha: “Che fiore vi era in quella
intera?” aveva chiesto.
La ragazzina si era morsa un labbro: “Due fiori”
aveva spiegato, “Uno era in
amenti tondi e penduli, picciolati, l’altro un involucro a
cupola a tre punte.
Entrambi arancio e marrone, su fondo azzurro” aveva spiegato.
“Come descrivi
bene i fiori” l’aveva stuzzicata Delisio, mentre
Adda faceva un resoconto di
tutti i fiori che aveva visto sulle insegne dell’Impero.
Erano
moltissime, solo le famiglie maggiori nobiliari erano trenta-due ognuna
delle
quali aveva il suo personale fiore o pianta. “Sono fiori di
faggio” aveva
provato la bambina, “Li ricordo perché li ho visti
una volta a maggio con mia
madre; lei mi ha detto che le piante ne facevano di diverso genere: un
maschio
e una femmina” aveva detto.
“Alti
Faggi!” aveva chiamato Delisia, “Il Duca Diente
Ertiene di Alti Faggi” aveva
ricordato Adda. Ricordava il duca come una figura fumosa, una persona
non
particolarmente brillante o accecante in se per se, ma che poteva
sfociare qualcosa
di eccezionale da lui: il sangue.
Diente
Ertiene di Alti Faggi aveva come nonna – ancora viva,
nonostante il numero
delle venerande Sorelle e ben vispa – Aloissa Carti,
principessa del
Pregiatissimo Impero e unica figlia femmina dell’Imperatore
Myrto I il
Guiscardo, a sua volta bisnonno dell’Imperatrice.
“Le altre insegne?” aveva
chiesto preoccupata. “Una aveva lo stesso simbolo nel secondo
nel secondo e
terzo quadrante, mentre nel primo aveva il giglio di fuoco e nel quarto
la
piaggia di faggio” aveva detto subito Mathea.
“Diente ha un fratellino minore
molto eccentrico” aveva stabilito secco Delisio,
“Sì. Il principe Vivirian”
aveva stabilito Adda, e lui lo conosceva molto meglio.
Se
Diente Ertiene non aveva mai mostrato molto interesse per le vicende
del
Bocciolo o della corte in generale, la stessa nota non poteva essere
fatta al
suo giovane fratello minore. Vivirian era un uomo: affamato.
Prima
che Mathea potesse descrivere la terza insegna, Teddesio si era
palesato, “Mia
monna” lo aveva chiamato, facendola avvampare. “La
mia signora Theresia, ci
tiene a far sapere che fin tanto che i Liberi pensatori rimarranno
sotto la sua
blasonatura non dovranno temere nulla da nessun gentil’uomo
del Impero” aveva
stabilito.
“Grazie
mille, Don Teddesio” aveva risposto Adda, “Oh, ora
siamo sicuramente rincuorati”
aveva ponderato Delisio senza gentilezza, “La mia signora
vorrebbe anche vederti”
aveva aggiunto, cercando di recuperare la compostezza che
l’atteggiamento
beffardo di Delisio lo aveva intimidito.
“Vengo anche io” aveva parlato Delisio, tanto un
buffetto tenero a Matha e invitandola
a raggiungere Garlio per raccontare tutto. Teddesio era sembrato
piuttosto imbarazzante
dell’intervento di Delisio, ma non era riuscito ad opporsi al
volere dell’uomo.
“Non
pensavo potessi chiamare altri fioriani” aveva squittito
Saerra che sedeva
nervosa sulla sua sedia, inossava un pio e castigato abito scuro e
sembrava accomodata
sui carboni ardenti, aveva i capelli sciolti, se non per qualche ciuffo
sul
davanti raccolto in una mezza coda, sottile, fermata da una spilla a
forma di
fiore.
“Pensavo
ci fosse il Patto dei Ceppi” aveva aggiunto, tormentandosi le
unghie con irrequietezza,
“quello di non belligeranza.”
“Basta
scucire uno stemma perché il Patto decada” aveva
risposto Theresia,
accavallando le gambe e intrecciando le dita sul ventre, con
espressione netta
e sicura. Nonostante l’atteggiamento da fiera, Adda riusciva
a distinguere un
tremolio nervoso nelle sue spalle. “Inoltre, il Patto dei
Ceppi non è un patto
di non belligeranza, tra le città ferriane. In un certo
senso la Lega nasce per
quello” aveva stabilito, “Quello a cui fai
riferimento tu, è l’Accordo di
Issadea, che è sicuramente un patto di
Belligeranza” aveva riportato Theresia.
Saerra
si era morsa un labbro, “Potrei essere leggermente
ignorante” aveva considerato.
“Quattrocento sorelle fa circa, le città della
Lega di Ferro hanno deciso di
forgiare un patto successivo a quello dei Ceppi, nella città
di Issadea, dopo
la battaglia delle Campanule” aveva raccontato.
“Era contro il Piccolo Impero” aveva sussurrato
Delisio verso Adda, lei aveva
annuito recuperando quella nozione, tra le infinite lezioni che Canadea
aveva
studiato e ripetuto – quando frustrata l’Akadays
non l’aveva ammessa perché donna,
anche se lei era sopra ogni uomo – ricordando con fatica.
“Il piccolo Impero era quello fondato dall’Infame
Margravio Evandro Ian,
giusto?” aveva ricordato per lei Saerra,
“Così mi pare. Il Marchese di Inarrestabile
Araucarie” aveva vagliato Theresia con una punta di
divertimento, “Sì, era
così. L’imperatore al tempo era Majiorino XI,
l’ultimo della casa di Citroneo”
aveva spiegato Saerra, “Mentre Evandro si è
dichiarato Imperatore del suo
personale piccolo regno ed ha annesso i territori a lui vicini, quello
di Bei
Ginki, di Acetabularie Profonde e di Fiammeggianti Castagni, proprio a
sud del
territorio del Giardino, proprio sotto l’occhio di
Majorino” aveva raccontato Saerra.
Adda
riconosceva i territori dell’impero che avevano uno sbocco
sul mare verso il
sud e che confinavano con i territori della Lega di Ferro.
“Bene, nel suo
Piccolo Impero, Evandro Ian ha
incluso anche alcune zolle e città della Lega”
aveva ricordato la donna ferriana.
“In seguito il Pregiatissimo Impero dei Fiori ha
riconquistato i territori
annessi al Piccolo Impero ed ha diserbato dalla storia la stirpe degli
Ian”
aveva spiegato Saerra. Theresia aveva annuito complice, facendo
oscillare i
capelli scuri, "Sì, ma l'Impero ha annesso a se anche i
territori che
Evandro Ian aveva conquistato per se” aveva ammesso.
“Territori
della Lega” aveva sottolineato Siveria.
“Per
noi quelle sorelle sono state famose come le Sorelle
dell’Occupazione” aveva
spiegato Theresia, “Prima che la Lega decidesse di unire le
forze tra loro per
riconquistare le città occupate e liberare i
cittadini” aveva spiegato. “L’ultima
battaglia, prima che Iesoin, erede di Majorino, ammettesse la
liberazione, fu
combattuta alle Campanule e furono ridisegnati i confini
precedenti” aveva
spiegato Siveria con un sorriso caustico sulle labbra.
“Ad
Issadea, una delle città liberate, si è deciso di
firmare un accordo in
opposizione al Patto dei Ceppi, uno che prevedeva che
l’intera Lega si unisse o
intervenisse nel caso di coinvolgimento di un regno esterno alle
città della
Lega” aveva spiegato, “Ghateri, Eosiani,
Karthissiani e … Fioriani” aveva
spiegato.
I
fioriani che erano i loro vicini più fastidiosi, sapeva
Adda, i territori della
Lega erano circondati da acqua su due lati e dall’Impero dove
non era bagnato
dal mare. “Il Dio-di-Ogni-Cosa-Buona ci ha dato questa landa
e il compito di
proteggerla” aveva risposto Saerra con voce secca e sicura,
intrecciando le
dita sul ventre nel tentativo di recuperare l’acquiescenza.
“Però l’Accordo di
Issadea non fa riferimento a uomini dell’Impero che non
sventolino le insegne
dell’Impero” aveva ricordato Theresia.
Gli
stessi uomini che avevano accompagnato Saerra da Serpilli non esibivano
alcun
fiore.
Adda
era nella penombra della tenda, con una brocca in mano piena di vino,
affiancata alla rigida Deria. Theresia le aveva fatta cambia
d’abito e invece
dei calzoni e la camicia, indossava una lunga tonaca, stretta sotto il
petto e
le maniche gonfie morbide, che erano appartenuti proprio
all’altra cameriera.
Anche Delisio occupava una posizione simile alla sua, ancora
più ombrosa, con
indosso un farsetto di cotone, con le maniche a fisarmonica fino ai
polsi, la
cintura, da cui pendeva una gonna fino alle ginocchia. Gli indumenti lo
facevano apparire quasi come un vero ferriano, non fosse stato per i
capelli
biondi color sabbia.
“Come
vuoi muoverti?” aveva chiesto Siveria, attirando
l’attenzione su di sé. La
donna aveva raccolto i capelli rossi fuochi in un elaborata
acconciatura che
tendeva verso l’alto come una torre, e coperto il lungo collo
da giraffa con un
collare d’oro massiccio su cui erano intarsiate perle e gemme
di ogni genere. Alla
riunione mancava la sorella-per-matrimonio di Theresia, la moglie di
Emisio L’esiliato
il fratello fuggito ad Eos che senza vergogna aveva abbandonato la sua
signora
e il sangue del suo sangue.
“Fingeremo che parlo poco bene la lingua” aveva
stabilito Theresia con una voce
schietta, “Non è completamente una
menzogna” lo aveva preso in giro senza pietà
la sua amica.
Saerra
aveva sospirato, “Non provo piacere nel mentire ai miei
compaesani” si era
eletta con superbia sugli altri, assottigliando gli occhi grigi verso
Adda, con
odio. “Sì, conosco le vostre usanze di cristallina
decenza in questa grande
porzione di mondo” le aveva detto con acidità
Theresia, “Ma uno dei talenti più
grandi di una donna ferriana è saper mentire. Le bugie, per
noi, hanno lo
stesso valore dell’oro” le aveva senza vergogna.
La
donna dell’impero era sbiancato nel viso olivastro,
portandosi le mani alla
bocca oltraggiata, “Voi danzate troppo vicini al
Principio” le aveva avvertite
e Adda aveva sentito lo sguardo arrabbiato verso di lei.
“Questa
novità della stregoneria sembra molto interessate”
aveva cinguettato Deria,
osservando Saerra con acuto divertimento, “Lo è
meno quando mettono una taglia
sulla tua testa” aveva scherzato forzatamente Adda.
“Forse per il tuo bell’uomo
un pensiero potrei farlo anche io” aveva commentato Deria,
dandole un piccolo
colpetto con il gomito complice. Adda era arrossita. Aveva pensato a
delle
risposte acute da dare alla sua vecchia conoscenza, ma dopo un sospiro
stanco
si era limitata a dire solamente: “Non credevo che una parte
di me potesse valere
così tante monete.”
“Ricordami di dirmi quanto, potrei avere bisogno di un paio
di pianelle nuove e
delle cuffiette” aveva scherzato Deria, ridacchiando.
Le
era mancata la lingua velenosa di Deria. Erano state poco in contatto,
mentre
Saiji e Iren cercavano di risolvere il problema della dote di Theresia,
ma era
stato intenso. “Non così tanto” aveva
scherzato Adda, allentando il nervosismo,
“Forse uno scialle” aveva sospirato.
“Sì, ma ti prego non giallo. Questa
perversa ossessione per il vostro fazzolo è troppo lontana
da me” aveva
scherzato.
“Ma non lo sai il Giallo è il colore della
Rinascenza?” l’aveva presa in giro, “Che
si fotta il fatto che stia male con la carne di quasi tutte le
donne” aveva
raccontato, “Ti assicuro che sbatte sulla faccia
dell’Imperatrice come sulla
mia” aveva dichiarato.
Aveva
parlato a bassa voce per non farsi udire, ma la risata
d’asina di Deria aveva
superato la soglia del buon gusto e presto le tre dame si erano rivolte
verso
di loro.
Saerra
era indispettita nel viso, ma non era condivisa dalle due adoraoro.
“Un gioco
divertente?” aveva chiesto Siveria, guardandole con una punta
di leziosità nella
voce. “Non è importante” aveva liquidato
la faccenda Theresia, prima di voltare
il capo verso la sua futura parente, “Tranquilla, Adda
sarà discreta” l’aveva
rassicurata.
“Lo
spero per te, mia amica” aveva parlato Saerra, “Tu
vieni da una terra che ha dimenticato
Dio ma qui egli è presente e mordace” aveva
dichiarato.
Beroneo
aveva interrotto il loro scambio, aprendo le imposte della tenda e
sfilando al
suo interno, affiancando a Teddesio.
Ad
Adda facevano la stessa tenerezza di due gattini bagnati, non erano
più
bimbetti, ma erano ancora così giovani che con fatica gli
avrebbe chiamati
uomini.
“Mia
Monna” aveva chiamato Beroneo, “Loro sono
qui” aveva stabilito con voce
incerta.
“Allora annuncia i nostri ospiti come è
d’uopo” aveva risposto Theresia. “Non
mi hai detto chi sono” aveva provato a parlare Saerra me
l’annuncio a tutta
voce di un vassallo – in Fioriano – aveva
inghiottito la voce della nobil
donna.
“Il
Principe del Sangue Vivirian Ertien, fratello ed erede del quarto Duca
di Alti
Faggi, nipote del Sommo e Glorioso imperatore Myrto Primo del Suo Nome.
Cavaliere del Pregiatissimo Impero dei Fiori e membro
dell’Ordine dei Dieci
Valorosi” aveva cantato con voce secca e piena di gloria, un
ragazzino fioriano
con più voce che addome. Era entrato per prima un soldato in
armatura a cui
avevano requisito spada o altro, poi il principe del Sangue. Vivirian
era
esattamente come l’ultima volta che Adda lo aveva visto.
Un
figuro smilzo, dai capelli biondo-cenere, sempre lisci e ordinati,
lunghi sulla
sommità del capo, corti sulla nuca, dalla forma di scodella.
Indossava una
cottardita di tabì di colore rosso-bruno, dal colletto alto,
con una fila di
bottoni bianchi in madreperla. Sul davanti della giacchetta, era stato
cucita con
filo d’oro spesso i decori di due faggi gemelli, che arrivava
appena oltre l’inguine.
Nessuna cintura, probabilmente lasciata fuori la tenda, assieme alla
spada.
Sotto la camicia indossava le calze doppio colore, rosso scuro e giallo
zafferano, con gli stivali in cuoio alti fino a metà del
polpaccio.
Non
aveva lo stesso scintillante aspetto del resto della sua famiglia, ma
non
passava di certo inosservato. Non era un figlio benedetto ma non era
lontano
dalla perfezione, il suo viso era fresco, aveva tratti eleganti e
nobili, con zigomi
alti, un mento appuntito e un naso ben delineato senza essere
esagerato. La carnagione
era ambrata, come la sabbia delle spiagge dell’ovest e gli
occhi erano inesorabilmente
quelli dei Carti. Un occhio affilato, la cui iride scintillava di un
verdone
scuro, come l’erba bollita. L’unico cambiamento che
Adda riscontrava, oltre che
il più imbarazzante, era dato dalla leggera peluria bionda
sul labbro
superiore, che andava contro l’usanza imperiale di visi lisci
e levigati.
“Che incantevole visione” aveva cantato Vivirian
senza vergogna, putando gli
occhi verdi su Theresia.
Se
fosse stato un uomo meno pieno di sé, Adda avrebbe avuto il
timore di essere
riconosciuta. Nonostante la sua nascita ad Alti Faggi e il suo ruolo di
erede
del fratello più riservato, Vivirian aveva speso molte
Sorelle nelle terre del
Giardino, al Bocciolo e molte notti a Palazzo Cama. “Quando
ho ricevuto la
vostra lettera mi ero immaginato qualcosa di notevole, ma non di sicuro
di
essere alla presenza della Vergine delle Acque” aveva
ridacchiato, “Lei è
sicura di non essere una Figlia Benedetta?” aveva chiesto.
Theresia
aveva fatto vibrare le labbra ma aveva deciso di non rispondere,
decidendo di
perseguire la sua ignoranza. Saerra le aveva riportato una versione
edulcorata
delle parole in ferriano, caso mai Vivirian avesse conosciuto la lingua
parlata
nella Lega.
“Oh,
sono io di fronte l’Uomo che Costruisce i Ponti?”
aveva risposto Theresia, in
ferriano, costringendo ancora una volta Saerra a tradurre. Era sembrata
in
difficoltà ad aver dovuto usare metafore della religione a
lei così cara per
tradurre le risposte civettuole dei due signori.
L’urlatore aveva tossicchiato, “Oh
sì” aveva detto Vivirian con un tono stanco,
“Sono venuto con tre mie vecchi buoni amici e mio
cugino” aveva ammesso, “E
come tutti i petulanti ragazzini vuole
l’attenzione” aveva commentato con un
tono infastidito.
Ben
poco contento di avere un cugino con lui.
Adda
si era fatta tesa come la corda di un’arpa. Diente e Vivirian
avevano diversi
cugini dal lato della madre e dal lato del padre, ma Adda sapeva quale
linea di
sangue dovesse temere di più – con vergogna si era
rammaricata di non aver
chiesto a Mathea di descriverle l’altra insegnata.
“Aspettiamo questo cugino” aveva ridacchiato
Siveria rompendo il silenzio. L’espressione
di Theresia non aveva subito alcun mutamento.
L’annunciatore
si era dato da fare: “Il nobile Iseone Ramberra, figlio ed
Erede di Iseo
Ramberra nono duca di Grandi Querce. Figlio della nobile Cadeia Carti
di Alti
Faggi, nipote del glorioso imperatore Myrto Primo del Suo
Nome” aveva detto.
Adda
aveva sentito l’aria scivolare via dal suo petto e il sangue
dal suo viso. Si era
voltata immediatamente verso Delisio, che come lei la fissava con lo
stesso
sguardo di sale.
Un ragazzino, non più giovane di sessanta sorelle si era
palesato davanti a
loro, vestito di tutto punto, con la pelladana viola, con i ricami
verdi e
argento, che ripercorrevano lungo l’orlo della gonna, delle
maniche e del collo
teschi di drago.
Il
viso troppo divertito, di una faccia bellissima, degna di un figlio
prediletto
di Dio, olivastra decorata da nei gentili vicino le labbra e nel centro
della
guancia, con occhioni svegli e blu come il fiore di genziana,
incastonati in
riccioli dolci e castani.
Adda
non aveva mai visto Iseone Ramberra con i suoi occhi prima di quel
momento, ma
non avrebbe mai potuto scambiarlo per alcuna altra persona: era un
Ramberra
fatto e finito per aspetto.
Qualcuno aveva detto che fossero creati dal Signore-di-ogni-cosa-buona
con la
stessa forma, ma Adda pensava che se una mano ultraterrena dovesse aver
prestato il suo giudizio quella era la mano del Principio.
Theresia sembrava intrigata da quell’aggiunta non pensata,
mentre Adda tremava
come una foglia.
La strega! La strega! Pensava.
“Oh”
aveva emesso un sussulto Saerra, “Il nipote dello
Scintillante Generale!”
“Obbligato”
si era presentato il futuro Duca con un inchino fin troppo evidente ed
un
sorriso sornione sulla faccia.
La
stessa espressione cattiva di Moria Ramberra.
Parziale
Albero Genealogico dei
Ramberra/Ertiene e come sono incastrati con i Carti.
1)
IMPERATORE
MYRTO I Carti Il Guiscardo.
DOLCE
IMPERATRICE
(1)
DUCHESSA
Candeia
di Grandi Querce, figlia di
Aloissia (non ha ereditato il titolo di principessa)
DUCA Iseo
Ramberra
di Grandi Querce, marito di
Canadeia (fratello di Moria Ramberra)
(a)
EREDE
Iseone
di Grandi Querce, figlio di Iseo
(2)
(ARCI)DUCA
Irtale Ertiene di
Alti Faggi
ARCIDUCHESSA
Sarynna delle
Pratoline, moglie di Irtale
(a)
Attuale
DUCA Diente Ertiene, (preferisce questo titolo
a quello di Principe)
(b)
PRINCIPE
Vivirian
Ertiene, secondogenito di Irtale ed erede di Diente.
Ha ereditato il titolo di
Principe grazie a quest’ultimo che lo ha nominato.[2]
Ovviamente la
famiglia Imperiale ha
molti più elementi, inoltre la famiglia Ramberra
è più complicata. Sappiamo di
una principessa di nome Annmarys, di un Gran Bastardo e anche di una
certa
Yorrehin, che è parente di Moria e che una principessa in
tutto tranne che il
nome (Yorrehin è la sorella maggiore di Iseone); riguardo
alla famiglia Ertiene
e, circa, così senza particolare complicazioni.
Sì, ovviamente hanno altri
parenti ma ehi.