La tanto attesa primavera è ormai giunta anche quest’anno. I raggi del sole, che timido si risveglia, mi attraversano senza però scaldarmi.
Sento il vocio della gente, i più mattinieri sono già al lavoro, corrono qua e là indaffarati; la città è frenetica, i suoi abitanti sono laboriosi come sempre, il silenzio non è certo una caratteristica della nostra Firenze. Un po’ come ai nostri tempi, solo che al posto di cavalli e carretti ci sono auto e motorini, così li chiamano.
Gli unici che paiono prendersela comoda sono i turisti, oggi più numerosi del solito, attirati da un evento speciale; che strani, potrebbero venire qui in qualsiasi altro giorno, eppure hanno scelto di prendersi una breve pausa dagli affanni quotidiani per visitare la città, o meglio, una parte della città. Loro non sono qui tanto per Firenze, ma per te.
Mi aggiro per le vie affollate, passando inosservato. Nessuno mi vede, nessuno mi sente, nessuno mi sfiora, passandomi invece attraverso e rabbrividendo improvvisamente dopo essere venuti a contatto con me.
Penso sempre che sia un peccato non averti qui. Se fossimo insieme, potremmo passeggiare fianco a fianco per la città, chiacchierando fra noi, senza nessuno a disturbarci, proprio come un tempo.
Ma che ci vuoi fare? Il fato ha voluto che ci separassimo: e così io sono rimasto qui a Firenze, nel nostro “bello ovile” (o “maledetto fiore”, se preferisci), e tu laggiù a Ravenna.
L’unico modo con cui posso parlare con te è attraverso il pensiero, e oggi non posso far altro che pensare a te. I’ vegno il giorno a te infinite volte, ancora oggi. Chissà se mi puoi sentire.
Prima di diventare il primo de li tuoi amici, ero un onorevole membro della grande famiglia dei Cavalcanti. Messer Guido di Cavalcante, cavaliere, esperto nell’arte della spada e della caccia; grande rimatore fiorentino, tra i più ricercati nei circoli letterari toscani e bolognesi.
Non l’ho mai ammesso ad alta voce, ma tutta quella gente che avevo attorno mi stancava: i miei parenti, gli altri cavalieri e magnati come me, erano per lo più persone arroganti, senza un minimo di cultura, andavano in giro con la loro scintillante armatura, in sella ai loro cavalli; la folla si apriva come il mar Rosso al loro passaggio, i popolani si scappellavano in segno di rispetto, salvo poi guardarsi tra loro con un’espressione di fastidio e disgusto.
Anche io venivo guardato in quel modo, e fu quando me ne resi conto, che realizzai la vanagloria dei magnati. Cominciai a guardarli con occhi diversi: compresi finalmente l’inconsistenza della cosidetta nobiltà di stirpe, di cui quegli uomini incolti e senza un minimo di vera nobiltà tanto amavano vantarsi. E ne presi le distanze, anche se non potevo certo cancellare il mio nome. Ero pur sempre Guido Cavalcanti: magnate, cavaliere.
Così decisi di elevarmi al di sopra di quella gentaglia con ciò mi riusciva meglio: scrivere rime. Guido Guinizzelli, di Bologna, fu come un maestro per me, una delle mie massime fonti di ispirazione, a lui devo molto. Avevo sempre amato scrivere, nonostante gli scherni dei miei parenti. Solo mio padre mi incoraggiava, ma questo mi fu sufficiente.
Scelsi come musa ispiratrice Vanna. Conosciuta ad una festa per ricchi insipidi e poco stimolanti, lei fu l’unica a tener vivo il mio interesse per tutta la serata, con le sue conversazioni affabili e il suo sorriso magnetico.
Le prime rime furono un successo, e fin da subito divenni una figura di spicco nel panorama intellettuale fiorentino, e non solo.
Adesso al termine cavaliere si associava il termine poeta, che diventava sempre più forte rispetto all’altro man mano che le mie poesie acquisivano sempre maggiore risonanza. Guido Cavalcanti, maestro delle rime d’amore.
Ma ecco che ancora una volta mi sentivo ingabbiato in un ruolo. Guido il poeta, la gente aveva avuto fin da subito grosse aspettative su di me, erano sempre alla ricerca di rime perfette da parte mia, di frasi sagaci e confezionate alla perfezione.
Pian piano quel ruolo cominciò a strami stretto, le persone intorno a me cominciarono a starmi strette. Sempre a ragionare delle stesse cose, sempre a porsi domande sugli stessi argomenti, sempre gli stessi volti. Avevo bisogno di qualcosa di nuovo, qualcosa che mi facesse uscire da quella palude di noia in cui sentivo di affondare.
Ci fu un periodo di quella mia gioventù in cui preferivo di gran lunga girovagare per la città, senza meta, senza scopo, piuttosto che restare a casa a scrivere o a fare qualsiasi altra cosa. Non gradivo la compagnia in quei momenti, e perciò me ne andavo da solo per la città, a piedi o a cavallo, senza nulla di particolare per la mente.
La mia poesia era in una fase di stallo. Sentivo l’ispirazione venir meno, neppure pensare al viso di Vanna mi stimolava più come prima. E perciò rimanevo lì, senza porre mano alla penna, nel disperato tentativo di trovare nuove idee.
Fu durante una di questa uscite, mentre fissavo oziosamente l’Arno scorrere sotto di me, in piedi sul Ponte di Santa Trinita, una mano a trattenere le briglie del mio cavallo, l’altra che fungeva come appoggio alla balaustra, che ti incontrai per la prima volta.
Lo sguardo vagava dal fiume, placido e pigro come me in quel momento, alle vie circostanti, alla gente che passava. Qualcuno, vedendomi, mi salutava alzando un braccio, io rispondevo con qualche cenno del capo o della mano.
Ad un certo punto, gli occhi si puntarono su un ragazzino poco distante, fermo sul lungarno alla sinistra del ponte. Immobile, sembrava essere in attesa di qualcosa o qualcuno davanti alla porta di quello che doveva essere l’ufficio di un qualche notaio, che io non conoscevo minimamente; doveva avere sui quattordici o quindici anni, vestito con cura come un ragazzo dabbene, ma con un pallore e una magrezza quasi malsani che contrastavano con i bei vestiti che aveva addosso.
Di bassa statura, con ondulati capelli castani ben ordinati. Teneva un bambino mezzo addormentato tra le braccia, che doveva avere solo pochi mesi, forse il fratellino. Eri tu. E mi stavi fissando insistentemente, con le labbra leggermente socchiuse.
Distolsi lo sguardo irritato, tornando a guardare l’Arno. Non avevo alcuna voglia di essere studiato come se fossi un qualche animale particolare pure da un ragazzetto come quello. Ne avevo abbastanza di sguardi giudiziosi da parte degli altri. Cavalieri o poeti che fossero.
Ero così assorto nei miei pensieri che nemmeno mi resi conto dei passi che mi si avvicinavano e, quando tu mi rivolsi per la prima volta la parola, venni preso alla sprovvista.
“Scusate.”
Era una voce delicata, non troppo profonda, dall’inclinazione un poco dolce. Era una voce ancora da ragazzino, è vero, ma col tempo non sarebbe cambiata più di tanto. Lo dico perché, sai, pensando a te, la gente si fa l’idea di un uomo dalla voce autoritaria e solenne, potente e tonante, ma in realtà era piacevolmente melodiosa.
Mi voltai di scatto verso di te, che ancora mi fissavi con tanto d’occhi. Al che, sollevai un sopracciglio come per chiedere: Che c’è?
“Voi siete messer Guido di Cavalcante?” Chiedesti lentamente, come per misurare bene le parole.
“Sì.”
Alla mia secca risposta, i tuoi occhi, che accorsi essere di un marrone molto chiaro, si illuminarono, le labbra si allargarono in un sorriso.
“Dunque siete davvero voi! Ho letto le vostre rime, sapete? Ho apprezzato molto Chi è questa che vèn in particolare, la so a memoria! Ho sempre amato l’idea di cuore gentile, la gentilezza che va oltre quella di sangue. Devo dire che mi sorprende molto sentire queste idee espresse da un cavaliere come voi. Senza offesa, dico sul serio, ma la gran parte dei cavalieri purtroppo…”
Insomma, devo proprio dire la verità, non avevo ascoltato minimamente tutta quella tirata che facesti. Non perché non mi interessassero le lodi di un giovane ammiratore, ma perché mi avevi colto del tutto impreparato, stupendomi tanto da lasciarmi senza parole, e non sarebbe stata la prima volta.
Un ragazzino non di famiglia nobile (altrimenti ti avrei di certo già conosciuto) che si avvicinava tutto tranquillo ad un cavaliere e si metteva a conversare con lui di poesia? Non mi era mai capitato di vedere una cosa simile.
Che insolente, pensò la parte più orgogliosa di me.
Mi piace, pensò un’altra parte della mia anima, che cominciava ad interessarsi a quello strano ragazzo.
“Perciò, insomma, spero di poter scrivere come voi un giorno.” La tirata terminò, il tuo sorriso era ancora ben fermo sulle labbra. Il piccolo che tenevi in braccio ormai era completamente sveglio e ti fissava con uno sguardo che pareva irritato.
“Vorresti scrivere delle rime?” Buttai lì. D’altronde non potevo starmene lì senza dir nulla.
Annuisti convintamente.
“Sì. Non ho mai scritto niente di serio in realtà, almeno per adesso. Però ho fatto leggere qualche poesia che tengo per me al mio maestro, e mi ha fatto i complimenti.” Dicesti orgoglioso.
“E chi è il tuo maestro?”
“Ser Brunetto Latini. Da poco, a dire il vero, ma da lui ho già appreso molto.”
Ah, Brunetto! Quello non insegna certo al primo che passa… Se l’ha accettato come allievo, allora-
“Dante!”
Una voce poco distante interruppe la conversazione. Guardai oltre la tua spalla e vidi un uomo in piedi nel punto in cui poco prima stavi tu. Le braccia incrociate al petto, ti guardava impaziente, affiancato da quello che doveva essere un servo.
Mi diede un’occhiata con quel paio di occhi la cui espressione mi turbò non poco: occhi direi quasi ardenti, come pronti a incenerire ciò che aveva davanti, le sopracciglia corrucciate.
Quando capì che ero un cavaliere, fece una specie di mezzo inchino, curvando la schiena e il capo, in quello che doveva essere un segno di rispetto, ma con quell’espressione addosso non risultava affatto credibile.
Era piuttosto su d’età, si vedeva dai capelli e dalla barba completamente grigi, e dalle rughe che gli segnavano il viso. Avrei detto fosse tuo nonno se non avessi risposto: “Arrivo subito, babbo!”
“Dai, muoviti.” Disse seccamente, e subito s’incamminò insieme al servo, senza aspettare di essere raggiunto dal figlio.
Ti voltasti di nuovo verso di me, continuando a sorridere: “È stato un piacere, messer Guido. Vi prego, continuate a scrivere!”
Ti guardai mentre ti allontanavi, al fianco di tuo padre: tu, tutto eccitato, mi lanciavi ancora qualche occhiata, parlandogli animatamente; lui ti fissava muto, con completo disinteresse.
Alla fine disse qualcosa e tornò a guardare davanti a sé. Tu abbandonasti il sorriso, e ti zittisti, tornando a cullare con aria malinconica tuo fratello.
Vedere quell’espressione, per qualche motivo, rattristò anche me.
Dante. Pensai tornando a casa. Che nome particolare.
“Conoscete un ragazzino che si chiama Dante?” Chiesi quella sera stessa a cena. Mio padre, seduto a capotavola, alzò lo sguardo dal piatto, mettendosi a pensare.
“Dante?” Disse mia madre, interessandosi anch’essa alla conversazione. L’unica che rimase impassibile fu mia sorella Tessa, che continuava imperterrita a scavare nella sua ciotola piena di zuppa di ceci. D’altronde, anche volendo, lei non avrebbe potuto rispondere: ad eccezione dei parenti e di un paio di amiche, non conosceva nessuno in città; essendo promessa sposa, non le era quasi mai concesso di uscire di casa.
“Sì, un ragazzino sui quattordici anni.” Spiegai. “Aveva con sé un bambino molto piccolo, penso il fratello.”
“Dante…” Rifletté mio padre. “Non saprei, l’unico che mi viene in mente con quel nome è il figlio di Alighiero. In effetti, ha da poco avuto un altro figlio maschio. Perché me lo chiedi?”
Il figlio di Alighiero. L’usuraio.
Mio padre non l’aveva specificato, sia perché non era solito parlar male sia perché era cosa risaputa, a Firenze, che quel nome si affiancasse alla parola usuraio.
Pensai al tono brusco con cui l’uomo si era rivolto al ragazzo. Rividi l’espressione scocciata del padre e il sorriso svanire dal volto del figlio.
“No, nulla. Penso di averlo incontrato oggi. Ha detto che ammira molto le mie poesie.” Risposi, tornando al mio pasto.
Mio padre inarcò le sopracciglia, stupito, e rise leggermente. “Un Alighieri che si interessa di poesia? Questa mi è nuova!”
“Sono tutti affaristi in quella famiglia?”
“Sì. In passato hanno avuto dei cavalieri tra loro. Bello Alighieri, mi capitò di incontrarlo a volte. Ce ne fu un altro ancora, ma si tratta di tanto tempo fa, ormai non se lo ricordano bene nemmeno loro.”
“Capisco.” La conversazione finì lì, e mia madre si mise a lamentarsi di qualcosa che avevano combinato i Donati, ma in me, nel frattempo, la curiosità cresce sempre di più.
Ti rividi alcune settimane dopo, quando decisi di fare un giro nel sesto di Porta San Piero, e ti vidi conversare scherzosamente con quello che riconobbi essere Forese Donati, poco più giovane di me, e un altro ragazzo, che doveva avere due o tre anni in più di te. Non mi inoltravo quasi mai a Porta proprio per la presenza dei Donati: già da alcuni anni ero entrato in contrasto con Corso e suo fratello Sinibaldo; scaramucce tra magnati, a ripensarci oggi, ma ai tempi era roba seria. Non che li temessi, mi era già capitato di venire alle armi con loro, ma preferivo non andare incontro a guai.
Così, non appena vidi uno dei fratelli Donati, imboccai bruscamente un’altra strada nel tentativo di allontanarmi. Purtroppo, come tu sai, nonostante non abbia mai messo a disposizione le sue qualità per una causa effettivamente utile, il caro Forese aveva un occhio di falco che non si lasciava sfuggire neppure il benché minimo dettaglio; dunque mi vide immediatamente e si mise a sbracciare nella mia direzione, attirando il tuo sguardo e quello del ragazzo accanto a te.
Anche se di certo non ci avrei fatto una bella figura, ero tentato di far finta di nulla e andarmene, tuttavia qualcosa mi attirò: il sorriso che ti era sbocciato sulle labbra vedendomi, fu il motivo per cui decisi di avvicinarmi a voi.
“Salute a voi, messer Forese.” Dissi, quando vi raggiunsi.
“Andiamo, quante volte ti avrò già detto di chiamarmi semplicemente Bicci!” Esclamò con finta indignazione. Alzai gli occhi al cielo, in quel momento: a Forese piaceva tanto prendersi confidenze, ma io e lui, fino a quel momento, eravamo sempre stati semplici conoscenti; d’altronde, eravamo entrambi cavalieri appartenenti a famiglie di spicco, tutti si conoscevano nell’ambiente. E in più, egli nutriva interessi letterari, a differenza dei fratelli.
“Oh tranquillo, Corso non è qui.” Disse quando notò il mio sguardo vagare per la zona circostante. “Si è preso qualche giorno nel contado per una battuta di caccia con gli amici. Per quanto riguarda Sinibaldo… Beh, sai che è piuttosto mansueto quando nostro fratello non è nei paraggi!”
“È un piacere rivedervi, messer Guido!” Disse all’improvviso una voce. Mi voltai, trovandomi di fronte il tuo viso sorridente, negli occhi la stessa eccitazione che era presente durante il nostro primo incontro.
“Ma dai? Vi conoscete già?” Intervenne Forese, stupito.
“Ci siamo incontrati una volta.” Affermasti, per poi indicarmi il ragazzo vicino a te, posandogli una mano sulla spalla. “Conoscete Manetto Portinari? Anche loro abitano nella zona.”
“Conosco i Portinari. Banchieri, e anche piuttosto ricchi.”
Il ragazzo annuì, senza però dire una parola.
“Siete tutti vicini, quindi? Non conosco bene le famiglie del vicinato, non vengo mai qui.”
“Oh sì, ed è pure un quartiere piuttosto vivace! Per questo dovresti venire più spesso.” Rise Forese. “Sai, tra noi Donati, i Cerchi, gli Adimari… Questi ultimi per la gioia di Dante.”
“Non è che non mi piacciano gli Adimari in generale.” Dicesti imbronciato. “È solo quel Filippo… Davvero non lo sopporto.”
Dopo aver chiacchierato ancora un po’ (in generale la conversazione versò sulle tue lamentele sul suddetto Filippo), tu e Manetto ve ne andaste, per non ho ben capito quale impegno, ma non prima che tu mi salutasti con un entusiasmo a dir poco inquietante. E fu allora che chiesi a Forese: “Senti, quel ragazzo, Dante… È sempre così loquace?”
“No, affatto! Devo dire che lo vedo che è la prima volta che lo vedo così chiacchierone e sorridente. Di solito mi sembra sereno, sì, ma è molto tranquillo.”
“Lo conosci da tempo?”
“Beh, sì, quando eravamo piccoli che lo vedevo scorrazzare nel vicinato.” Sorrise affettuosamente nel dire quelle parole. “Mi faceva sorridere, da bambino, sai? Ha sempre avuto una fervida immaginazione: inventava storie incredibili: su cavalieri, dame, angeli, mostri infernali… Diceva che spesso vedeva queste cose nei suoi sogni e, quando si svegliava, sentiva il bisogno di raccontarle. Sarebbe un bravo poeta, credo. Mi ha detto che ogni tanto scrive, ma non vuole proprio farmi leggere nulla! Certo, con una famiglia che li tappa le ali come quella…”
Quell’ultima frase mi colpì, ma decise di non aggiungere niente. Volevo evitare di impicciarmi di affari che non mi riguardavano, ma, tornando verso casa, non potei far altro che pensare a ciò che avevo sentito Forese, e al fatto che ogni volta a cui ad un uccello vengono tappate le ali, sia un’occasione persa per vedere lo spettacolo che è il suo volo. Ti avevo incontrato solo un paio di volte, eppure ero già completamente invaso dal desiderio di ammirare lo spettacolo che tu avresti potuto creare.
Da quella volta in poi, ti incontrai sempre più spesso, per strada. Chissà, forse ti avevo già visto anche in passato, ma senza mai notarti.
Ti mettevi sempre sul Ponte Vecchio, i gomiti puntati alla balaustra, le mani a sostenere il mento, il labbro inferiore spesso arrossato poiché, forse inconsapevolmente, lo stringevi tra i denti, gli occhi fissi davanti a te, persi in chissà quale scenario che potevi veder solo tu. Il corpo lì immobile, la mente da tutt’altra parte.
Per diverso tempo ci limitammo a salutarci, quando tu non eri completamente assorto nei tuoi pensieri da non accorgerti di chi e cosa ti stava attorno; questo perché, a dire il vero, non sapevo bene come approcciarti. Ancora non ti conoscevo affatto, inoltre ero più vecchio di te di sei anni, cifra forse per alcuni irrilevante, ma che in realtà faceva la sua differenza.
Penso che il tuo sentimento fosse lo stesso, perché, quando mi vedevi passare, sembrava sempre che stessi per dire qualche cosa, ma all’ultimo rinunciavi e ti voltavi dall’altra parte.
Ma venne il giorno in cui, mentre ti passavo accanto, ancora indeciso se parlarti o meno, tu ti rivolgesti a me, pur tenendo gli occhi fissi sul placido Arno.
“Messer Guido, scusate il disturbo. Volevo chiedervi, esattamente come fate a far uscire dal vostro cuore le giuste rime?”
“Come, prego?” Dissi bloccandomi all’improvviso, sorpreso dalla domanda.
“Sì, voglio dire… Quando scrivo qualcosa, metto un grande impegno nelle strutture delle frasi, nel far tornare le rime, nel dare ad ogni singola parola il giusto posto nel verso. Cerco la perfetta armonia nei suoni che compongono ciascuna sillaba. Ma alla fine, anche se il risultato è strutturalmente perfetto, sento sempre che manca… qualcosa. E ho pensato fosse il cuore, forse. Non so se capite cosa intendo.”
“Lo capisco perfettamente.” Rispose spostandomi al tuo fianco. Mi appoggiai anch’io alla balaustra, riflettendo seriamente su quelle tue parole che mi parvero incredibilmente mature per un ragazzino.
“È difficile dire come riesca a trovare il giusto modo per comporre le mie rime. Il fatto, vedi, è che le parole mi affiorano alla mente e basta. Quando penso alla donna che amo, quando voglio scrivere di lei… Comincia a sorgere nel mio cuore un sentimento che mi spinge a scrivere e, mentre lo faccio, le parole si ordinano da sole sulla carta, una dopo l’altra. È come se mi venisse naturale.”
“Capisco.”
Dopo qualche momento di silenzio, chiesi: “Tu ti sei mai innamorato?”
A quella domanda, ti voltasti di scatto verso di me, le tue guance si tinsero di porpora, come un ragazzino alla prima cotta, ciò che in effetti eri. A quel punto, non potei trattenermi dal ridere.
“Smettete di ridere, per favore!”
“Va bene, va bene, la smetto! Uhm, allora, chi è la fortunata?”
“Si chiama Bice.” Rispondesti sottovoce, e abbassando lo sguardo, quasi come se ti vergognassi anche solo a pronunciare il suo nome.
“Bice chi? È un nome piuttosto comune.”
“Bice Portinari. È la sorella di Manetto, l'avete incontrato.”
“Ah, sì, lui. Bene, allora, la tua Musa ce l’hai. Allora cos’è che ti frena così tanto?”
“Vedete, è proprio questo il punto. L’ultima volta che ho visto Bice eravamo solo bambini, avevo nove anni, e- Perché fate quella faccia?”
“Che significa che non la vedi da quando eravate bambini?!” Sbottai, forse un po’ troppo ad alta voce, dato che alcuni passanti ci fissarono in modo strano; fortunatamente, ebbero la buona idea di proseguire senza farsi troppe domande.
Arrossisti ancora di più, cosa che stava per procurarmi un nuovo scatto di ilarità, ma per pietà nei tuoi confronti decisi di trattenermi.
“L’ho cercata molte volte nel mio quartiere, ma non l’ho mai rivista. Ho chiesto a Manetto e mi ha detto che dopo quella festa, Bice è stata promessa sposa a Simone della famiglia dei Bardi, per questo non ha quasi più avuto il permesso di uscire di casa.”
“Certo che questo è un bel problema.”
“Vero? È per questo che non riesco a metterci il cuore nelle mie poesia. Se a malapena ricordo com’era fatta e non so nemmeno come sia ora, in che modo posso decantarla?”
“Questo è un bel problema.” Riflettei, anche se a colpirmi, più del fatto stesso, erano state le sue parole.
Potrà sembrare un ragionamento terra terra quello che feci in quel momento, ma mi chiesi che diavolo di adolescente si facesse simili problemi? Io non ricordo certo di aver pensato certe cose alla tua età. Solo col senno di poi mi resi conto che già allora la tua ambizione ti conduceva ad essere un bel passo avanti rispetto a tutti gli altri.
“Mostrami una tua poesia.” Proposi di getto.
“Voi… Volete davvero leggere una mia poesia?”
“Certo.” Risposi convinto. “Voglio vedere con i miei occhi che cosa sai fare. E potrei anche darti qualche dritta, che ne dici?”
Osservai i grandi occhi verdi spalancati per lo stupore, le labbra socchiuse, le dita delle mani tremavano impercettibilmente, e sembravi impallidito.
“Ma stai bene?”
“Sì… È che… È solo che io vi ammiro molto, messer Guido, e non avrei mai pensato che-”
“Oh, non cominciare a dire sciocchezze adesso.” Ti interruppi per evitare teatrini, e anche perché avevi l’aria di uno che sta per cadere a terra svenuto da un momento all’altro. “Ho parecchi impegni in questi giorni, quindi rimandiamo a… Giovedì prossimo, ecco. In questo punto. Portami la tua poesia migliore e fammela leggere.”
Annuisti lentamente, ancora incredulo, ed ecco che finalmente si riaprì quel sorriso, che sembrò illuminare la zona circostante per quanto pareva allegro.
La settimana seguente fosti puntuale e, seduto con le gambe a penzoloni e la testa bassa, le labbra serrate, stavi in attesa di un mio verdetto sul sonetto che mi avevi portato.
Io, in piedi con un braccio appoggiato alla balaustra e l’altra mano a reggere il foglio, lessi attentamente più volte il componimento.
“E così questo l’hai scritto tu?” Dissi una volta che ebbi finito.
Annuisti, teso.
“Avevi ragione, strutturalmente non c’è proprio nulla da dire, l’impalcatura è perfetta e le rime pure. Guittone, giusto? Gli schemi sono quelli. In realtà, l’ordine di alcune parole non mi convince più di tanto, e anche il contenuto non è granché, ma nel complesso non è male. Ma manca l’amore. Sai com’è, non puoi scrivere una poesia senza di esso. Ricorda: puoi tirare fuori tutte le belle parole di questo modo, ma stai certo che quando nelle rime manca il sentimento si percepisce. Ah, e inoltre, stai forse imitando me e Guinizzelli?”
Sorridesti un po’ imbarazzato da quell’osservazione. “Vedete, non è che abbia un’idea così precisa dell’amore o del tipo di poesia che voglio fare. E inoltre, non ho così tanti modelli a disposizione. Da ser Brunetto leggo più che altro classici e poesia provenzale e a casa abbiamo pochissimi libri, e mio padre non gradisce che io legga. Sapete, è un uomo pratico.”
Sembrava che volessi aggiungere altro a quella definizione, ma poi scuotesti leggermente la testa e continuasti: “Quindi la poesia dei rimatori contemporanei la posso leggere solo di nascosto. Prendo dei libri in prestito da ser Brunetto o da amici, e li leggo di notte, a lume di candela. È lì che ho trovato i vostri componimenti, messer Guido.”
“Capisco.” Quel racconto di come dovessi evitare di farti vedere a leggere mi aveva riportato all’immagine dell’uccello in gabbia e, ancora una volta, questo mi portò a pensare ad un modo per fare sbocciare il tuo talento. Perché, ora ne avevo la prova tra le mani, di quello si trattava. Talento, impegno, una grandissima passione, e… Forse anche qualcos’altro.
Più che un insegnante, avevi disperatamente bisogno di qualcuno che ti incoraggiasse ad andare avanti.
“Me ne farai leggere altre?”
“Sì, certo!” Esclamasti entusiasta, dopo un attimo di sorpresa.
E così i nostri incontri si protrassero nei mesi successivi, seppur sporadici e piuttosto brevi, ma furono piacevoli.
Ti parlai del mio modo di concepire l’amore, di come una poesia nasceva dal mio cuore per poi raggiungere la mente e in seguito la mano, che metteva per iscritto quei sentimenti. E, man mano che il nostro rapporto si intensificava, cominciai anche a raccontarti della mia vita, della mia famiglia, del mio disprezzo per gli altri magnati, nonostante io stesso lo fossi.
Tu invece mi raccontavi delle poesie che più amavi, dei tuoi studi con Brunetto, della tua passione per Virgilio, che veneravi come Sommo Poeta, dei tuoi scambi con un certo Dante, un coetaneo di Maiano, che però non avevi mai incontrato di persona.
Fu strano pensarci, ma furono proprio quelle conversazioni a darmi la giusta motivazione per riprendere a scrivere. Seppur fossi di diversi anni più giovane di me, trovavo in quegli scambi tra noi uno stimolo molto più forte rispetto a qualsiasi altra interazione, persino che con altri poeti; e sentivo, tra noi, una certa sintonia che sarebbe poi stata alimentata negli anni successivi.
Della tua famiglia, però, non parlavi mai.
“La prima volta che ci siamo incontrati eri con un bambino.” Dissi un giorno, in un momento di silenzio. Fu un pensiero che mi venne in mente all’improvviso, quasi casualmente.
“Ah, sì, mio fratello Francesco.”
“Non l’ho più visto. Perché quella volta era con te? È molto piccolo, non avete una balia?” Chiesi, forse con poco tatto. C’erano delle cose, come essere allevati nella prima infanzia da una balia, che in una famiglia come la mia davamo per scontate.
“Ce l’avevamo, io e mia sorella Tana. Ad ogni modo, è rimasta con noi poco. Vedete, la nostra famiglia…” Ti zittisti un attimo, voltando il viso dalla parte opposta, quasi non volessi guardami negli occhi mentre parlavi.
“Diciamo che negli ultimi tempi andiamo a risparmio. Il lavoro del babbo non va benissimo e il matrimonio di mia sorella Tana, che si è sposata di recente, è venuto a costare un bel po’. Ho anche due fratelli piccoli: Ravenna e Francesco, sono figli della mia matrigna. Monna Lapa è una donna energica, ma purtroppo soffre spesso di forti attacchi di emicrania e in quei momenti non riesce a occuparsi dei bambini, quindi lo faccio io.”
“Capisco. Devi avere molta pazienza.”
Tacemmo entrambi per un po’ e, in quel lasso di tempo, dovetti trattenermi dal posare una mano su quei riccioli castani per consolarti, mentre era evidente che cercavi di trattenere le lacrime.
“Penso di aver trovato quello che diventerà un grande poeta.” Dissi una sera a Vanna. Eravamo in camera mia, lei era seduta al tavolino all’angolo, sorseggiava un bicchiere di vino. Io ero seduto in piedi vicino alla libreria, accarezzavo le copertine in cuoio dei libri disposti ben in ordine sugli scaffali.
“Ah sì? Ha talento?” Chiese lei, interessata, da amante della poesia.
“Parecchio, ma non è soltanto questo. Sembra fin troppo maturo per la sua età. E poi… Non saprei, è come se andasse oltre.”
“Che intendi dire?”
“È difficile da spiegare la sensazione che ho provato. Ma, insomma, è come se vedesse qualcosa al di là rispetto a ciò che tutti gli altri vedono. Ha questo qualcosa, dentro di sé, per cui riesce a vedere al di sotto di ogni superficie, scorgere ogni dettaglio, estrarre il significato ultimo delle cose. Non gli sfugge nulla ed è sempre alla ricerca di… Beh, di altro. Non si accontenta mai di ciò che ha di fronte agli occhi.”
Nel frattempo avevo girovagato per la stanza, troppo preso da quella strana spiegazione formulata dal profondo del cuore, senza nemmeno ragionare più di tanto sulla logica delle parole che mi uscivano dalla bocca; ero così giunto di fronte alla finestra, da cui potevo vedere la città immersa nell’ombra. Presi coscienza in quel momento di star fissando in direzione di Porta San Piero.
“È così che un poeta dovrebbe essere.” Conclusi sorridendo.
“Proprio un grande poeta. Più grande di te?” Mormorò Vanna, accennando un piccolo sorriso. Le piaceva provocare, talvolta, non per cattiveria o perché ci credesse davvero, ma per il semplice gusto di ponderare la reazione dell’altro; e ci riusciva bene.
“Chi lo sa.” Mi limitai a rispondere. Anche se, in cuor mio, pensando a quella domanda, mi agitava un turbamento che non avevo mai conosciuto.
Un giorno mi avevi portato un sonetto che avrei dovuto correggere, da inviare a quel tuo amico di Maiano.
“Voglio che sia perfetto!” Dicesti con espressione seria.
“Se cerchi la perfezione, rimarrai sempre deluso, mio caro.” Replicai ridacchiando.
“Perché? Che c’è di male nel provare a dare il meglio del meglio?”
“Il meglio del meglio, eh? Beh, in questo caso non l’hai fatto: lasciamo perdere il contenuto, che è davvero banale, ma stavolta non sei stato attento nemmeno alla struttura dei versi. Non importa che le rime siano perfette, se poi fai il resto a casaccio…”
Le mie critiche, in effetti, potevano sembrare un po’ aspre, ma era per il tuo bene, e tu lo comprendevi perché non pronunciavi mai una parola di protesta, riflettendo invece sui vari errori e proponendo modifiche.
Stavamo discutendo da circa dieci minuti, quando, all’improvviso, impallidisti incredibilmente e vidi i tuoi occhi farsi velati.
“Ti senti bene?” Chiesi mettendoti una mano sulla spalla, ma non dicesti una parola, sembravi assente.
Accadde tutto in pochi secondi: tu che perdevi conoscenza, io che ti sorreggevo allarmato, chiamandoti inutilmente, una voce famigliare che chiamava il tuo nome. Era Manetto, che evidentemente era nei paraggi e aveva visto la scena, che accorse e mi aiutò ad sdraiarti a terra, facendoti aria.
“Che cosa è successo?”
Manetto teneva gli occhi socchiusi in due fessure, il viso tirato per la concentrazione. “È la prima volta che succede quando è con voi, messer Guido? Dante è malato, capita spesso che perda i sensi all’improvviso.”
“Non me ne aveva parlato.”
“Immaginavo. I suoi parenti gli impediscono di farlo.”
Finalmente, i tuoi occhi si riaprirono; le palpebre si alzarono due o tre volte lentamente, e ti portasti una mano agli occhi per contrastare la luce. “Manetto…?” Mormorasti con voce flebile.
“Dante, tutto a posto? Mi vedi?”
“Sì, sì, ti vedo… Manetto, mi porti un po’ d’acqua?”
“Sì, certo, aspetta qui!”
Mentre aspettavamo il ritorno di Manetto, sentii tirarmi leggermente il lembo della veste. Ti guardai: eri seduto appoggiato alla balaustra del ponte, l’espressione stanca.
“Mi dispiace, messer Guido. Di solito mi succede quando provo emozioni forti, ma a volte all’improvviso.”
“Di che male si tratta?”
“Non saprei. So solo che a volte cado svenuto a terra, come un morto. E nel frattempo ho delle visioni.”
“Visioni?” Domandai perplesso. Ero sempre stato scettico su questioni mistiche.
“Sì. Vedo e sento cose… È strano, vero?”
“Chi lo sa. Non sei certo l’unico.” Dissi sedendomi accanto a te.
“Fin da quando ero piccolo mio padre mi ha sempre detto di non parlarne a nessuno. Nemmeno i dottori capivano cosa avessi, i parenti dicevano che era una maledizione, o qualche sciocchezza simile, ma io da bambino ci credevo, così andai di nascosto da alcuni frati e spiegai loro i sintomi.” Dopo un attimo di silenzio, cominciasti a parlare senza che ti chiedessi niente, forse sfogando ciò che non avevi detto in anni di silenzio.
“Dissero che sono così perché mio padre è un peccatore, che questa è la sua punizione. E non sono gli unici, tutte le poche persone che sanno questa cosa lo pensano.” Non specificasti quale fosse il peccato di tuo padre: avevi dato per scontato che io lo sapessi, perché tu eri perfettamente cosciente che ciò era noto, eppure convivevi con questa consapevolezza. E questo mi spezzò ancor di più il cuore.
“Che idiozia. E perché mai le colpe dei padri dovrebbero ricadere sui figli? Se Dio esistesse, non vorrebbe questo.”
“Hai detto se?”
“Tu non sei sbagliato.” Dissi decisi, ignorando la tua osservazione. “Dillo a quei chierici da quattro soldi. Anzi, no, dillo a tutti. Preti, frati, cavalieri e magnati arroganti, tuo padre, me. Fa vedere a tutti cosa sei in grado di fare, lascia che per una volta aprano la bocca non per insultarti, ma per lo stupore. Hai la stoffa per diventare un grande poeta, di questo sono certo.”
“Ma mi manca ancora qualcosa.”
“È vero, ti manca la tua Musa. Ma vedrai, prima o poi la troverai. E quando accadrà, nulla potrà più fermare il tuo ingegno. Ricorda, voglio essere il primo a vedere cosa sai fare nel pieno dell’ispirazione. Io sarò qui ad attendere.”
Quel giorno ti salutai, dicendo: “Per adesso interrompiamo i nostri incontri, sono certo che tu possa continuare da solo. Ti lancio una sfida: quando ti sentirai pronto, manda una tua poesia a tutti i rimatori di Firenze, me compreso. Scrivi qualcosa che sia degno di nota, che faccia dire a tutti: Questo sì che è un bravo poeta! E anch’io sarò felice di risponderti.”
“Lo farò.” Dicesti sorridendo, e ci stringemmo la mano per suggellare quel patto.
Tre anni dopo, un servo entrò nel mio studio con un messaggio tra le mani.
“Spero che non sia un altro invito a qualche festa da parte di Betto. Quante volte dovrò ancora dire di no a quell’uomo?” Risposti distrattamente, preso da una canzone piuttosto ardua che stavo componendo.
“No, messere. In realtà il messaggio è anonimo.”
“Anonimo, hai detto? Fa vedere.”
A ciascun'alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.
Leggendo un sorriso si era lentamente allargato sulle mie labbra. Riconobbi quella calligrafia, lunga, stretta ed elegante, il modo di scrivere, seppur di gran lunga migliorato nel corso degli anni. Non potei fare a meno di ridacchiare tra me e me: avevi rispettato in modo egregio la promessa e avevi anche deciso di inviarmi il sonetto in forma anonima perché eri sicuro che avrei compreso.
Beh, di certo ti meritavi una mia risposta.
Lasciai da parte la canzone, che ormai aveva perso del tutto la mia attenzione, e mi dedicai, nelle ore successive, completamente al sonetto che ti avrei inviato, al quale aggiunsi un invito a raggiungermi a casa mia non appena ne avessi avuto l’occasione.
Vedeste, al mio parere, onne valore
e tutto gioco e quanto bene om sente,
se foste in prova del segnor valente
che segnoreggia il mondo de l’onore,
poi vive in parte dove noia more
e ten ragion nel casser de la mente:
sì va soave per sonni a la gente,
che i cor ne porta sanza far dolore.
Di voi lo core ne portò, veggendo
che vostra donna la morte chedea;
nodrilla de lo cor, di ciò temendo.
Quando v’appare che ne gia dogliendo,
fu dolce sonno ch’allor si compiea,
ché ’l su’ contraro lo venia vincendo.
“Davvero un bel sonetto, Dante.” Ti accolsi quando arrivasti a casa mia, e nel dirlo mi resi conto che, nonostante ti conoscessi da ormai alcuni anni, era la prima volta che pronunciavo il tuo nome.
“Un sogno abbastanza inquietante, devo dire, ma ho evitato di scriverlo nella mia risposta. Ad ogni modo, mi hai sorpreso, sei davvero migliorato tantissimo.” Mentre spiegavo, ebbi la sensazione che tu non mi stessi ascoltando minimamente, troppo intento a guardarti in giro con le labbra socchiuse per lo stupore, forse a disagio per lo sfarzo della mia magione, così diversa da casa tua, che sapevo essere piuttosto piccola, dato che l’avevo già vista dall’esterno.
Sorrisi nel guardarti. Mi era capitato di vederti in giro per Firenze, ma solo in quel momento mi resi conto di quanto fossi cresciuto anche fisicamente, non solo intellettualmente. Erano cambiate tante cose nel frattempo: i nostri padri erano morti, io mi ero sposato, e presto sarebbe toccato anche a te.
“Quindi, hai trovato la tua Musa?”
All’improvviso, ti riprendesti: “Sì, vedesti quanto è diventata bella! Ho rivisto Bice la settimana scorsa, a Santa Trinita. E sapete cos’è successo dopo? Mi ha salutato, chiamandomi per nome! Si ricorda di me!”
Sorrisi nel vederti così contento, e dentro di me sperai che tu dovessi assaggiare il lato amaro di quel sentimento il più tardi possibile. Lo sapevo che quella gioia non sarebbe durata a lungo, capita a tutti i servi d’Amore, prima o poi, di essere feriti alle spalle da quell’emozione che prima li aveva illusi di poter sollevarsi da terra. Era capitato anche a me con Vanna. E non solo con lei, ma su questo, per il momento, è meglio tacere.
Ma in quel momento decisi di non rovinare quel tuo stato d’animo. Tanto te ne saresti presto accorto da solo.
“Comunque, dovresti smetterla di darmi del voi.”
“Come?”
“Direi che possiamo considerarci amici, a questo punto, no? Mi farebbe molto piacere cominciare a frequentarti, non come maestro, ma come amico. Penso che possa esserci una certa sintonia fra noi due.”
Ti tesi la mano e tu la afferrasti senza esitazione. Ci guardammo negli occhi e quello fu il principio della nostra amicizia.
1. So che Dante nella Vita Nova ha indicato l’inizio della sua amicizia con Guido al 1283, ma… Oh, che ci devo fare, mi piace stravolgere le cose. Ho solo pensato che Guido e Dante sono morti a 21 anni di distanza; ebbene, nel mio progetto iniziale avrebbe dovuto esserci anche il POV di Dante, prima che la storia diventasse troppo lunga perché non so controllarmi, e ho pensato che fosse figo anticipare il loro primo incontro al 1279, in questo modo sarebbero stati esattamente 21 anni con Guido e 21 anni senza. E anche quando ho cambiato idea, ho deciso di tenere le cose così come le avevo pensate.
Ragionamento stupido? Può darsi, ma l’idea mi piaceva.
2. I frequenti svenimenti di Dante nella Commedia e altri riferimenti a malattie nelle sue opere, sono stati interpretati da molti studiosi come rimandi ad un’effettiva malattia di cui Dante soffriva. Le opzioni sono sostanzialmente due: epilessia o narcolessia. Io ho scelto di rappresentare la seconda.
3. La condizione sociale ed economica degli Alighieri è difficile da definire. I più generosi (tipo Ferroni) la chiamano famiglia di piccola nobiltà, ma molti preferiscono borghese.
Come ci dice Santagata, Alighiero, padre di Dante, era un cambiavalute, possedeva modesti terreni a San Miniato di Pagnolle, nella Valle del Mugnone e nella parrocchia di Sant’Ambrogio; e aveva la cattiva fama di essere un usuraio.
Né povero né ricchissimo, ma dotato di scarsa considerazione, anche perché, dal punto di vista politico, la famiglia Alighieri aveva un ruolo molto marginale.
Rimane comunque il fatto che il cognome ce l’avessero (quindi la famiglia aveva una storia) e due membri erano stati cavalieri: Cacciaguida (anche se ci sono dubbi) e il prozio Bello, ma sono comunque pochi per essere considerati una famiglia prestigiosa.
Al contrario, è certo che i Cavalcanti fossero una delle famiglie più potenti e ricche di Firenze, nonché di sicuro culla di numerosi cavalieri, dato che sia Cavalcante sia Guido lo furono.
4. I fratelli conosciuti di Dante sono tre: Tana (si discute se fosse figlia di Bella o di Lapa, anche se si propende per la prima), Francesco (nato intorno al 1279, dicerto figlio di Lapa), e un’altra sorella misteriosa, ma che sappiamo, tramite Boccaccio, essere la madre di Andrea Poggi, che pare assomigliasse molto allo zio. Secondo Pariolini, ella sarebbe una certa Ravenna che appare in un documento legato a Leone Poggi (il marito.) Non scendo nei dettagli, ma non amo molto questa teoria, perché le date non mi tornano. Sì, io non sono nessuno, ma la teoria è comunque messa in discussione da molti dantisti. Quindi boh, ho deciso di usare il nome Ravenna per questa sorella, ma tutto il resto è inventato.
Per quanto riguarda Guido, non sappiamo di fratelli, anche se per lungo tempo si è pensato che il poeta Iacopo Cavalcanti potesse essere suo fratello, in realtà diverse fonti smentiscono ciò. Il personaggio di Tessa, dunque, è del tutto inventato.
5. Dante da Maiano è un poeta forse coetaneo di Dante, che poetava alla maniera dei siculo toscani, come Guittone d’Arezzo. È conosciuto in particolare per la tenzone con Dante Alighieri, il quale, prima di cominciare a scrivere alla maniera stilnovistica, attraversò una fase guittoniana. La veridicità di questa tenzone è dubbia, ci sono tante teorie a proposito. Quindi mi dispiace di non aver trattato come si deve la presunta fase guittoniana di Dante, passando subito alla stilnovistica, ma ho pensato che fosse più semplice così.