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Autore: whitemushroom    21/07/2024    3 recensioni
Un investigatore della Santa Sede indaga sulla scomparsa di un potente magus, muovendosi in una Roma distorta, più interessata a proteggere i propri segreti che a rivelarli. In un' isola poco lontana Njal, un giovane turista, perde una persona di a lui cara e scopre che qualcosa, nel suo corpo, inizia a non comportarsi come dovrebbe.
Il primo ha dedicato la sua intera vita alla caccia di uomini e creature sovrannaturali, il secondo si ritrova suo malgrado in un universo di cui nemmeno conosceva l'esistenza; eppure entrambi rincorrono fantasmi presenti e passati sulla scia di qualcuno che, come un pittore, lascia la sua Firma su degli eventi di cui è impossibile rimanere soltanto passivi spettatori.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ogni passo nel memento sapeva di polvere e sabbia. Scivolava sul palato e sotto i vestiti, tra i capelli nella mente, una clessidra spaccata che scivolava via nel vento impazzito della Firma.
Quando era Tsekani Kaudry e non ancora Padre Tsekani, la sabbia era la prima nemica del mattino, quando riempiva l'aria fuori dalla porta e cercava di farsi strada nei suoi polmoni mentre andava a giocare. Sua madre diventava furibonda quando dimenticava la kefiah a casa per la fretta, e in quello scivolare di polvere e pensieri la mano gli corse la mano al lato del collo alla ricerca della familiare stoffa, l'unico oggetto che dopo centinaia di lavaggi ancora profumava del pane di casa. Purtroppo le dita trovarono solo la stoffa ruvida della camicia e il tessuto invece liscio e ben poco confortevole della cravatta imbevuta di sudore, ma il contatto con i propri polpastrelli lo aiutò a riacciuffare il contatto con la realtà.
Il corridoio che conduceva alla seconda metà della casa non era molto grande, e sulla parete sinistra un armadio a muro bianco divorava buona parte dello spazio. Terminava su una cucina piccola, tutta arredata di legno bianco, dall'aspetto un po’ antiquato ma accogliente reso solo angusto dall'odore di aria chiusa; sulla sinistra un salotto piuttosto grande per quella casa, con dei divani color marrone che dovevano avere più dei suoi anni ed un tavolo rotondo con una protezione in vetro dal gusto davvero retro. La potenza del memento non era al massimo lì dentro, ma lanciò uno sguardo ad un cassettone su cui campeggiava una foto di un Antonio Zurlí decisamente molto più giovane, in completo elegante, insieme ad una donna in abito da sposa con sullo sfondo un mare i cui colori non erano stati intaccati nemmeno dal passare del tempo. Mormorò una rapida preghiera per quell'uomo sfortunato prima che un leggero tirare della corda legata alla sua vita gli ricordasse di non indugiare.
Tornò indietro, superando di nuovo la cucina, mentre intorno a lui la Firma scivolava tra le pareti come un vortice, supplicandolo di farla entrare nella sua testa e riscaldare quei pensieri che negli anni aveva imparato ad addomesticare, a nascondere alla perfezione per lasciarli emergere solo nei rari minuti tra una missione e l'altra. I sospiri del memento scivolarono di nuovo, più potenti, e nella luce e nella sabbia si mescolarono leggeri zaffi di nicotina, sottili come un campanello pronto a svegliare qualcosa dentro di lui.
Cercò energia nel suo crocifisso e prese ad avanzare.
Alla sua destra notò uno sgabuzzino ed un piccolo bagno, che ignorò. Sulla sinistra una prima stanza, una camera matrimoniale chiaramente appartenente a Zurlí ed alla sua signora, con una copertina leggera a quadri ed un crocifisso campeggiante sopra la testiera a cui l’esecutore rivolse un leggero saluto. Vi mise piede per un istante, osservando degli abiti del vecchio professore ancora pronti per essere indossati, bene in vista su una sedia; un mobile con una specchiera era appoggiato vicino alla porta, su cui dei ninnoli d'argento avevano iniziato ad accumulare polvere. Lo aprì con delicatezza, rivenendo dei trucchi di ogni genere ed un profumo pungente di colonia che per un istante sorpassò persino le sensazioni del memento.
Gli parve di ricordare che quando era giunto in Italia aveva acquistato un profumo da spedire a sua madre, ma glielo avevano sconsigliato.
Legami.
“Ehi, ti sei incantato di nuovo?”
La voce del magus arrivò distinta dall'ingresso, accompagnata dalla corda che prese a tirare con forza più volte. Padre Tsekani sbatté con violenza le palpebre e si maledisse per la propria debolezza.
Chiunque avesse realizzato quel memento sapeva il fatto suo. Non si considerava un novellino - sottovalutarsi era letale quasi quanto sopravvalutarsi- ma se il suo addestramento non lo aveva avvisato di un memento attivo proprio ad un palmo di distanza voleva dire che chiunque avesse celato l'ingresso della casa di Zurlí era un esperto.
Deglutì a fondo prima di mettere piede nell'ultima stanza, quella da cui originava il perno del memento. Gli parve che i piedi affondassero prima nella sabbia bollente del deserto, poi nella presa delle sabbie mobili; d'istinto gli venne da afferrare la corda e tirarla, ma la voce del magus gli giunse ovattata quando aprì la porta e gli giunse alle narici ed agli occhi uno degli spettacoli più cupi che avesse mai visto.
Nell’attimo stesso in cui la sua concentrazione venne meno, la mente spalancò le porte alla furia cieca del memento.

Il poligono era sempre aperto. Non c'erano istruttori a quell'ora della notte, ma nessuno era lì a vietare l'ingresso ai giovani cadetti esecutori. Una delle prime cose che aveva imparato da quando aveva messo piede a Roma, era che nessuno lo avrebbe preso per mano. Se volevi sparare, sparavi.
La silhouette di allenamento mostrava soltanto due fori. Era passata mezz'ora da quando aveva preso la pistola in mano e aveva svuotato chissà quanti caricatori, ma la sagoma cartonata continuava a sghignazzare a pochi metri da lui, ferita solo al braccio sinistro e ad una gamba. Sorella Graele, la responsabile del poligono, non faceva altro che ricordargli quanto facesse schifo riproponendogli ogni santo giorno la solita pappa secondo cui non aveva un vero avversario contro cui concentrarsi, eppure ad ogni allenamento il doppio mento dell’Americano era lì, davanti a lui.
Nella sua testa lo riduceva sempre ad un colabrodo, ma i caricatori sprecati raccontavano il contrario.
Mancava solo una settimana all’Iniziazione, e la Santa Sede non ammetteva meno dei migliori.
Sbuffò, alla ricerca del colpo giusto, ma quello andò perso insieme al suono dello sparo.
Se avesse beccato quel coglione che aveva inventato la frase basta fare tanta esperienza gli avrebbe spaccato la testa come un guscio di noce; il calcio della pistola sembrava divertirsi a non restare fermo nei suoi palmi, e le pallottole chiaramente lo prendevano in antipatia. Durante una sessione intensiva aveva stretto così tanto i denti da spaccarsene uno per la frustrazione, facendosi di contro prendere per i fondelli dal resto degli esecutori del poligono.
Odiava sentirsi gli occhi addosso.
Si levò le cuffie isolanti, perdendosi nel ronzio dei faretti che illuminavano l'area delle silhouettes. Non aveva nemmeno osato attivarne il movimento.
Rimise la pistola da allenamento nella custodia e sospirò, costringendosi ad impilare il numero di caricatori vuoti ed a fissare la sagoma quasi intatta. Una sensazione di puro odio lo prese allo stomaco, e con un colpo di mano li buttò tutti a terra.
“Mi avevano detto che facevi schifo con la pistola, ma pensavo fosse un'esagerazione. Sorella Graele ha la tendenza ad essere un po’ melodrammatica nei suoi rapporti, sai?”
Tsekani sobbalzò a quella voce, maledicendosi di essere stato preso alla sprovvista. La voce proveniva da una rientranza nel muro a pochissimi metri da lui, dove una figura stava tranquillamente appoggiata in equilibrio tra la luce delle lampadine al neon e l'ombra di un armadietto. “Hai messo un po’ di muscoli, piccolo pugile. Bravo”.
La sagoma Freki uscì allo scoperto, seguita dal rumore di un accendino. Erano passati tre anni da quando la donna lo aveva reclutato a El-Gebal, e da allora non si era più fatta vedere; certo, ne aveva sentito parlare in abbondanza, ma che lui sapesse non aveva più messo piede a Roma. Era identica a come la ricordava, con i capelli chiarissimi forse un po’ più lunghi e l'espressione di chi fosse pronta a mordere da un momento all'altro. La spada era ancora con lei, legata dietro le spalle ed avvolta in un panno. “Hai finito di fissarmi?”
“Non sto fissando”.
“Certo che lo stai facendo”.
Sbuffò, poi da una tasca estrasse un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Si voltò verso la parete, proprio dove campeggiava un enorme cartello che vietava di fumare, e con un moto di stizza gli diede le spalle.
Rimase per qualche secondo così, espirando nicotina, facendogli tornare in mente tutti i racconti che aveva sentito negli anni sulla Falce della Luna tra un refettorio e l'altro o nelle chiamate dei suoi superiori. Il numero dei successi riportati era pari a quello dei protocolli infranti, nonché alla gente che avrebbe rinunciato a metà delle proprie fortune pur di non avere nulla a che fare con lei.
Il fatto che fosse in missione a tempo pieno non era una casualità.
“Allora, che vogliamo fare con la tua Iniziazione?”
Fu il turno di Tsekani sospirare. “A meno che non mi innesti un mirino nell'occhio temo che dovrò prepararmi ad una carriera da missionario”.
“Secondo me anche con quello saresti un disastro” disse, non nascondendo un sorrisetto. Se si fosse trattato di un suo compagno, probabilmente Tsekani sarebbe partito al massimo della velocità con un bel pugno, ma aveva abbastanza autocontrollo dall’iniziare una rissa con un suo superiore a pochi giorni dall’Iniziazione. Incrociò le braccia, limitandosi a aggrottare le sopracciglia.
“Che c'è, ti scoccia la verità? Non andrai più lontano della prima missione con quell’atteggiamento”.
“Lo so di fare pena. Non c'è bisogno di sottolinearlo”.
“Ti stai allenando nella speranza di diventare migliore. E questo lo ammiro, sia ben chiaro. Mi piacciono quelli con la testa dura. Ma se vuoi diventare un esecutore, non puoi permetterti di essere meno del migliore ”. Si mosse e si avvicinò ad un armadietto. Il ragazzo preferì non dirle che era uno scomparto che Sorella Graele aveva vietato a chiunque di aprire, pena l'espulsione immediata; la donna ci armeggiò per un po’, senza nemmeno appoggiare o spegnere la sigaretta, e quando liberò l'arma dai teli di protezione, nemmeno la penombra nascose il suo sorriso soddisfatto. “Con quelle grosse spalle che ti ritrovi, sarebbe un delitto non farti provare un bel fucile. Ti ci fai montare su un mirino buono, impari ad appostarti, e cerchiamo di tamponare la tua mira di merda”.
L'oggetto volò nella sua direzione e lo raccolte prima che cadesse a terra. Non ne aveva mai maneggiato uno, perché erano riservati ai livelli alti ed ai futuri esecutori venivano assegnate soltanto le pistole d’ordinanza; era meno pesante di quanto avesse immaginato, e la canna entrò nel palmo della sua mano in modo molto più confortevole del manico delle armi da allenamento. “Ci vorrà un miracolo perché impari ad usarlo in una settimana”.
“Appunto” rispose la donna, schiacciando la cicca sotto il piede per poi buttarla con noncuranza ai piedi della silhouette cartonata. “E, visto che confido poco nell'intervento dell’Onnipotente, mi sono sentita in dovere di risolvere il problema nel modo più rapido possibile. Sei stato nominato esecutore tre ore fa”.
Tsekani non fu sicuro di aver sentito bene. “Cosa?”
“Due firmette qui e lì e il gioco è fatto. Ti hanno già preparato il visto per il Brasile, avevano davvero fretta di vedermi fuori dall'ufficio…”
Il ragazzo appoggiò il fucile. La testa prese a girargli. “Non sono un maledetto pacco” ringhiò “Fai sempre così?”
“Così come, ragazzino?”
“È già la seconda volta. Arrivi, prendi decisioni per me a cui non posso rinunciare e mi ritrovo su un aereo dall'altra parte del mondo!”
Se la ritrovò addosso nel tempo di battere le palpebre. Arrivò sotto di lui, con la sommità della testa che a malapena gli arrivava al mento, invadendo il suo spazio personale e fissandolo dal basso verso l'alto. Nonostante il fisico fosse tutto a suo vantaggio, per la prima volta nella sua vita Tsekani si sentì minacciato. Qualcosa di primordiale nel suo cervello lo implorò di non muovere nemmeno un muscolo.
“Adesso guardami bene negli occhi e chiariamo bene le regole, che in questi anni secondo me non te le hanno rispolverate. Regola numero uno, io ti dico quello che devi fare e tu lo fai. E zitto. Tutto chiaro fin qui?”.
Chiuse ancora di più la distanza, finché le punte dei loro piedi non si toccarono e quello della donna si portò sul suo lato sinistro. Fu un movimento rapido, quasi insignificante, ma al giovane non sfuggì la sensazione di trovarsi quasi in trappola. Il respiro di lei, ancora impregnato di nicotina, gli risalì fino alle narici. “Punto secondo, ringrazia che ci sia qualcuno a decidere per te. Perché quando toccherà a te prendere una decisione, una di quelle serie, scoprirai cosa vuol dire la parola responsabilità. E, fidati, daresti qualunque cosa per lasciarla ad un'altra persona. Lo so che adesso non lo capisci bene, ma dallo per buono. Chiaro anche questo?”
Il giovane annuì, non trovando nessuna risposta con cui poter obiettare in maniera convincente. Si immaginò per un istante i suoi disparati compagni di squadra, e la faccia e le chiacchiere che sarebbero invariabilmente nate per la sua assenza all’Iniziazione. Sebbene si allenassero per lo stesso obiettivo, senza alcuna necessità di primeggiare tra loro, sapeva che nessuno avrebbe sul serio cercato di contattarlo, né avrebbe ricevuto più di uno sterile messaggio di saluti o congratulazioni. Né, dal canto suo, aveva qualcuno di così vicino a cui confidare che la Falce della Luna era calata su Roma e che aveva afferrato proprio lui, segretezza delle missioni o meno.
Non fece in tempo ad elaborare al meglio questo pensiero, che con violenza la donna gli pestò un piede, piantandogli il piccolo tacco dello stivaletto direttamente sulle dita. “Se hai capito bene la tua posizione, piccolo pugile, ripeti ad alta voce quello che farai ora”.
Tsekani si costrinse a mascherare il dolore meglio che poté. “Vado a fare la valigia…”
“Troppo comodo. Non ti facevo il tipo che sul lavoro svolge il minimo sindacale” disse a voce alta, ma quantomeno levò il piede e si allontanò di un passo, lasciandolo respirare. Se lo squadrò di nuovo da capo a piedi. “Tu vai nel tuo dormitorio, ti fai la valigia, prendi la macchina d’ordinanza e vieni nei miei alloggi. Mi porti giù le valigie, le armi ed i fascicoli, poi andiamo in aeroporto e imbarchi il tutto. Un necromante in Bosnia ha fatto saltare in aria il mio assistente ed il mio autista, ed ai piani alti mi hanno detto che siamo a corto di personale, quindi hai vinto il lavoro di entrambi con lo stipendio di uno solo” disse con un'espressione quasi divertita “E se ti aspetti che io guidi, scordatelo. Ho fatto fuori più automobili che Fate”.
La donna prese di nuovo il fucile, lo soppesò un po’ con aria critica e da un altro armadietto fece apparire una custodia per poi legargliela intorno alla schiena. Con un gesto della mano lo invitò a uscire dal poligono ed il giovane fece per seguire l'ordine, ma si fermò davanti alla porta a vetri che delimitava l'ingresso dell'area di tiro.
“Perché proprio io?”
Lo chiese a voce bassa, quasi faticando a far uscire tutte le parole dalle labbra. “Va bene, ho dei buoni risultati negli altri aspetti, ma questa mia mancanza è inammissibile per un vero esecutore. Sono convinto che molti altri…”
“Il report di questi molti altri non ha attirato la mia attenzione. La tua competenza fisica di resistenza è eccezionale, mi dicono che con le lingue straniere te la cavi, nemmeno un appunto sulla condotta in questi anni e la tua integrazione con la Firma è sopra la media. Sei in gamba, ma a dirti la verità ho deciso di venirti a cercare quando Sorella Graele ha detto davanti a tutti che sei il secondo caso più schifoso che abbia mai visto in oltre trent'anni di insegnamento”.
“Non voglio sapere il primo cosa ha combinato…”
Lei prese ciò che restava della sigaretta e lo schiacciò sul pavimento, scansando poi la cicca al centro della stanza in modo che fosse bene in vista. “Dammi in mano una pistola e avrai modo di scoprirlo…”

La corda si animò all'improvviso, e come sollevata da una mano invisibile si alzò all'altezza del suo viso e lo colpí con violenza su una guancia, riportandolo alla realtà. Gli ci vollero almeno tre colpi per fargli recuperare i sensi, e Padre Tsekani si ritrovò con la mente nella casa di Zurlí non senza una sensazione di squilibrio. Se il primo attacco del memento sulla soglia della casa aveva avuto la consistenza di un sogno, in quel punto, nel cuore dell’incantesimo, la potenza dei ricordi era stata così alta da essere vividi, reali, e nelle sue narici l'odore pungente della nicotina era ancora lì, come se la stanza appena aperta fosse appartenuta ad un fumatore incallito.
“Ehi, ti sei ripreso? Mi rispondi?”
Probabilmente il magus lo stava chiamando da un po’. La sua voce gli giunse ovattata ed in crescendo, accompagnata a strattoni della corda sempre più violenti.
“Sì, sto bene!”
“Dalla tua voce non direi” gridò l'altro. Con un attimo di lucidità, l’esecutore pensò che probabilmente il magus, con tutto quel chiasso, avrebbe attirato l'attenzione di tutti i civili che abitavano nello stabile, ma ormai il danno era fatto. “Sicuro di non voler uscire?”
L'uomo deglutì, gli occhi fissi sulla scena che aveva davanti “Assolutamente”.
L'uomo davanti a lui era Antonio Zurlí.
O, meglio, ciò che ne rimaneva.
Il corpo era stato dilaniato in maniera indescrivibile e, se non fosse stato per il cappello ed il cappotto, probabilmente l’esecutore non sarebbe riuscito a riconoscerlo. Entrambe le braccia erano state separate dal resto del corpo ed erano tenute alle pale di una ventola mediante uno strano sistema di elastici. Prendevano in una maniera inquietante, con entrambe le mani con gli indici irrigiditi, rivolti verso il basso come ad indicare qualcosa. Al centro della stanza era stato realizzato un disegno senza alcun senso, un groviglio di rune e simboli fatti in parte con dei pennarelli, in parte con evidenziatori, e terminati chiaramente con il sangue della vittima. Gli anni da esecutore furono l'unica cosa che riuscì a non farlo vomitare alla vista delle gambe, separate anch'esse e piegate fino a circoscrivere un'area minuscola perfettamente incastonata al centro dei simboli.
La testa canuta dell'uomo era posizionata dritta, appoggiata a quella che aveva tutta l'aria di essere un’urna funeraria. Le abitudini portarono l'uomo a segnarsi prima di appoggiare un ginocchio a terra e dare un'occhiata da vicino all'oggetto, il chiaro centro di tutto quell’orrore: le superfici lisce non erano state toccate dal sangue della vittima, come se fosse stato appoggiato lì in un secondo momento, e anche nella penombra della stanza chiusa l'argento che ne decorava le superfici mandata bagliori flebili, un piccolo cenno di vita in quello spettacolo tetro. L'urna era decorata con motivi delicati, un ghirigoro di boccioli di lamina rosata intrecciati a delle stelle minuscole che tintinnavano sul metallo legate a delle catenine. Nell'insieme aveva qualcosa di prezioso, ma questo strinse il cuore dell'uomo ed a guardarsi intorno, oltre lo scenario di morte, dove trovò la conferma del sospetto che gli aveva afferrato le viscere.
La stanza si componeva di un letto singolo, ricavato in del legno sintetico bianco su cui ormai le chiazze di sangue avevano gettato un sinistro risvolto, di un armadio della stessa tinta e di una scrivania. Messi in fila lungo uno scaffale vi erano dei libri di testo dell’innegabile taglio scolastico, ed una mole di quaderni vi era impilata accanto. Sul tavolo e sulle ante dell'armadio vi era una cascata di fotografie dove, anche senza soffermarsi troppo, l’esecutore notò sempre la stessa figura, una ragazza di non più di quindici anni molto alta, con dei capelli lunghi castano chiaro che a seconda dello scatto erano sciolti o legati, con degli occhi di un color nocciola diversi dalle iridi azzurre del professor Zurlí. In un quadretto, relegato un po’ distante dagli altri, una versione un po’ più giovane di Antonio Zurlí portava sulle spalle la bambina, ritratti insieme ad una donna con dei riccioli scuri ed un fisico appesantito, la stessa figura apparsa in abito nuziale nella stanza precedente.
Distolse lo sguardo dalla foto, rattristato, sentendosi per la prima volta da quando era entrato un perfetto intruso. Lucio Danieli non gli aveva nominato nulla del genere, e si diede ancora una volta dell’imbecille per non aver indagato più a fondo sui trascorsi del vecchio professore nonostante la reticenza di Padre Whiteflame ad indagare su di lui.
Strinse i pugni per la frustrazione, costringendosi a buttare via quel magus ed a concentrarsi solo sui fatti: era il secondo cadavere di Antonio Zurlí che veniva ritrovato e, anche solo per buonsenso, ciò non sarebbe dovuto esistere. Il primo pensiero fu quello di un sosia o qualcuno che potesse essere confuso per lui, ma qualunque sensore della sua mente continuava ad accendersi, non pago di quell'idea. Tra i tanti insegnamenti di Freki vi era che non esistevano coincidenze: un civile ucciso nella casa di un magus della Chiesa era già un atto abbastanza grave, ma ritrovare lo stesso uomo ucciso due volte?
Il fatto che un memento fosse stato eretto proprio in quella abitazione gli fece correre un brivido lungo la schiena. L'uso di queste barriere era ad appannaggio esclusivo degli esecutori, ma non poteva escludere che Pontieri potesse essere ancora una volta dietro tutto questo.
“Sei vivo?”
Si appuntò mentalmente di prendere quel magus e impacchettarlo. Al Bureau sarebbe bastata l'accusa di disturbo della quiete pubblica per mettere dentro uno della sua specie. Anche a quella distanza la sua voce, mescolata con un accento probabilmente germanico aveva la capacità di fargli saltare i nervi.
“Sì” rispose, liquidandolo.
Le possibilità di quella situazione sembravano scivolargli di mano. Aveva assistito a rituali di sacrificio di sangue nel corso degli anni, e purtroppo ne aveva sventati meno di quanti avesse voluto. Troppo spesso i magi, in particolare i necromanti, sfruttavano le scintille della Firma insiste negli altri, sfruttandole come è più di parassiti, fino addirittura ad estorcerle del tutto alle vittime in maniera brutale e con scene analoghe a quella cui stava assistendo. Ad una prima analisi nell'appartamento di Pontieri parte di sé aveva persino sospettato ad un omicidio simile, ma aveva scartato l’ipotesi: un magus di quel livello avrebbe avuto ben poco interesse nella Firma di un civile come Zurlí, e non avrebbe compromesso la propria posizione in maniera così plateale. Qualunque cosa avesse mosso il magus pontificio doveva nascondere qualcosa di talmente tanto grosso - e, con ogni probabilità, moralmente discutibile - che doveva per forza coinvolgere a pieno le dinamiche delle Fate.
La presenza di un secondo cadavere, identico al primo, così ben celato, poteva soltanto confermare i suoi dubbi: era convinto che anche ad una analisi della morgue i due corpi sarebbero risultati identici, con lo stesso patrimonio genetico, così come il suo senso di mastino era certo che non si trattasse di un “comune” caso di gemelli. La scia di mistero dei Daoine Maithe era un filo rosso che si avvolgeva intorno ad Antonio Zurlí, e il migliore contrattista della Cupola stava cupamente lavorando a maglia.
Per precauzione scattò delle foto alla stanza, poi voltò le spalle e si strinse alla corda, pronto ad affrontare di nuovo il potere dei memento prima ed il magus impiccione poi.
Un bagliore improvviso partì dal suo crocifisso, illuminando a giorno tutta la cameretta e avvisandolo del pericolo. La mano abbandonò il coltello senza lama e afferrò una abat-jour come arma improvvisata, strappandone il filo. Intorno a lui la Firma si agitò come una bestia risvegliata dal sonno, avvinghiando lui e tutta l'energia che lo componeva: non era il tocco delicato del memento, ma un attacco di una potenza ed una furia che non avevano nulla a che spartire con le difese della Cupola.
Capì cosa stava succedendo troppo tardi: afferrò la corda e si buttò verso l'uscita, ma intorno a lui le pareti della camera e dello stesso appartamento si disgregarono in un odore che ricordava la benzina, per poi modellarsi in uno spazio nuovo, diverso, i cui dettagli presero forma con il ruggire della Firma che traeva origine dall’urna. Padre Tsekani provò ad avvicinarsi, ma l'oggetto svanì alla sua vista nel frattempo che il nuovo scenario prese vita.
La sua presenza doveva aver fatto scattare un Antilux, la trappola per eccellenza delle Fate e dei magi più sconsiderati. Strinse ancora più forte l’arma improvvisata, cercando un modo di calmare il cuore che batteva all'impazzata.
  
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