14.
Iobate uscì dall’ombra e, con la spada in pugno, si diresse verso la tomba da cui proveniva il rumore prodotto dal tombarolo mentre veniva squartato ed eviscerato. Ogni tanto, tra gorgoglii e altri suoni stomachevoli, riconosceva un leggero lamento umano. Quel mostro aveva l’insana capacità di prolungare fino all’ultimo spasimo le sofferenze inenarrabili e l’agonia delle sue vittime.
Per un attimo, quando si era appressato alla tomba, Iobate aveva rischiato di farsi scoprire. Di solito sapeva essere silenzioso come un fantasma, ma i dolori che la tortura gli aveva lasciato nella schiena lo impedivano nei movimenti. Sperò con tutto il cuore che questo non pregiudicasse il risultato del suo compito. Non poteva commettere un altro errore. Non gli sarebbe stato perdonato.
Fermatosi a pochi metri dalla tetra apertura, vi puntò contro la lama.
«Charun!» chiamò. «Charun!»
Dalla tomba provenne un ultimo suono strozzato. Fu seguito dal silenzio. Il profanatore era morto.
«Charun!» urlò ancora Iobate. «Esci, mostro!»
«Ancora tu.»
La voce tetra, sinistra, profonda, era risuonata alle spalle del guerriero.
Iobate si volse di scatto. Impallidì e, per istinto, indietreggiò quando vide il demone dall’aspetto mostruoso. Torreggiava su di lui come un presagio di morte.
Come già aveva notato, Charun non sembrava avere una forma univoca. Il suo aspetto sembrava mutare a seconda di come le ombre lo avvolgevano. Anche questo contribuiva a aumentare il senso di sgomento e di orrore che si provava nel trovarselo davanti.
Dalle fauci spalancate della creatura colò sangue umano. Lo stesso sangue di cui grondavano i suoi artigli. Emise un verso inconfondibile. Il mostro rideva. Si faceva beffe di lui.
«Tu ardisci sfidarmi, sciocco umano, eppure arretri atterrito di fronte alla mia incommensurabile potenza! Forse cominci a pentirti di avermi disturbato.»
Iobate puntò la spada verso il punto in cui, presumibilmente, si trovava il cuore della creatura. Non era facile stabilirlo con certezza. Non avrebbe saputo dire nemmeno se quella cosa lo avesse davvero, un cuore, o se fosse fatta soltanto di paura in forma fisica.
«Io non temo nulla, perché la lama di Soranus è nelle mie mani!» disse, cercando di controllare il tremito che aveva nella voce.
Il mostro rise ancora.
«Che cosa speri di fare, servendoti del ferro arrugginito e smussato di un dio vecchio e obliato? Quel Soranus che tu onori è morto da millenni! Quasi nessuno più rammenta il suo nome, e non esiste più alcuno in tutto l’universo che lo veneri! Io sono reale, invece!» tuonò Charun.
La sua voce rimbombava contro le pareti di roccia. Dalle tombe aperte sembravano provenire luci misteriose, accompagnate da mormorii indistinti che sussurravano in una lingua morta e inintelligibile. Un’antica orazione al guardiano dell’oltretomba.
«Io sono la morte! Sono senza tempo e senza età! Uomini e donne di ogni epoca e di ogni latitudine mi hanno sempre temuto e rispettato! Mi spiano con occhi diversi, mi chiamano con nomi differenti, ma sempre da me si guardano e al medesimo modo sempre a me tendono! È il mio destino, quello di essere amato e odiato, ma sempre ricordato, perché io sono fatale e necessario! Quale vecchio dio può dirsi più forte di me? Quale divinità, per quanto un giorno potente, può sperare di essermi pari e di vincere contro di me la lotta eterna? Io sono Charun, il guardiano del mondo infero! Io sono il protettore dei defunti, la loro guida nel buio e il loro difensore contro le mani degli empi! Io detengo le chiavi del destino di tutti, anche di quel tuo inutile Soranus, quel vetusto e decrepito dio caduto e dimenticato!»
Un sogghigno si allargò sul viso di Iobate, per buona parte celato dall’elmo.
«Parole molto simili alle tue, tanti secoli fa, furono pronunciate da Velch, prima che il possessore della spada gli sferrasse il colpo fatale!» rammentò. «La tua blasfemia, come la sua, ti condurrà alla rovina!»
«E la tua propensione alle chiacchiere condurrà alla rovina te!» ruggì Charun. «Ora mi hai stancato, sciocco omuncolo!»
Gli occhi del mostro si fecero di brace. I mormorii aumentarono, come se le anime dei morti stessero accorrendo in sostegno del loro signore e protettore.
Iobate scattò, spingendo la spada di fronte a sé.
La falce del mostro brillò.
Un sibilo, un guizzo nell’aria, un bagliore nel buio…
Iobate crollò al suolo, urlando, pazzo di dolore. Dalla mano mozzata gli sgorgava sangue copioso. La spada cadde con il suo arto tagliato e inerte. Dall’altra mano gli sfuggì lo scudo con la faccia della Medusa.
Il mostro sollevò la lama, pronto a colpire ancora.
«Finiscimi, allora!» urlò Iobate, comprimendosi il braccio ferito contro il petto. «Uccidimi!» Non era una sfida, la sua. Sembrava che implorasse.
Un ghigno satanico si dipinse sul viso grottesco di Charun.
«Perché dovrei?»
Abbassò la falce e gli voltò le spalle.
«Addio, guerriero di Soranus. Porta i miei omaggi al tuo dio, quando lo incontrerai. E raccontagli che Charun ha trionfato anche su di lui.»
«Nooo! Nooo! Torna indietro! Uccidimi!» gridò Iobate, singhiozzando.
Ma il mostro, ormai, era scomparso, inghiottito tra le ombre della via cava.
Altre due ombre uscirono dall’oscurità e vennero con passo lento verso di lui.
Piangendo e lamentandosi, Iobate le fissò con dolore. Sul suo viso quasi esangue, si dipinsero sgomento e puro terrore. Sembrava più spaventato adesso di quanto non fosse quando si era trovato al cospetto del mostro.
«Maestro Cleoco…» sussurrò il giovane, tendendo a fatica la mano sana verso di lui.
Ignorandolo, Cleoco gli si inginocchiò a fianco. Esaminò la ferita, osservò il suo volto pallido e coperto di sudore gelido. Gli toccò la fronte per accertarsi che non avesse la febbre.
«Se provvediamo subito a suturare la ferita, si salverà», sentenziò. «Poi lo nutriremo a sufficienza perché riacquisti vigore.»
Una stilla di speranza scese nel cuore di Iobate. Invano. La voce crudele di sorella Opi lo colpì peggio di una staffilata.
«Molto bene. Evitiamo che perda troppo sangue. Avrà bisogno di tutte le sue energie, per sopportare fino alla fine la condanna che ha attirato sul suo capo di spergiuro. Sapeva a che cosa sarebbe andato incontro, se avesse fallito ancora. Ora deve pagare. Ed è giusto che si renda conto della sua pena.»
«No…» piagnucolò Iobate. Tremava da capo a piedi, e ormai non era soltanto il dolore a scuoterlo. La paura di ciò che lo attendeva lo aveva attanagliato. E la sua forza d’animo era svanita tutta in quella tetra forra. «Maestra Opi, per carità, ti supplico…»
Cleoco gli fece scivolare delle erbe sotto il naso. L’odore aspro punse il naso di Iobate. Il giovane guerriero respirò a fondo, mentre tutto si faceva nero. Il dolore svanì come per incanto e il ragazzo scivolò in un sonno profondo.