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Baghdad
Febbraio 1124
Alla luce del sole, la splendida città circolare
risplendeva come una gemma radiosa.
Unanimemente
riconosciuta come la città più bella d’oriente, era da tempo
dominata dalla dinastia dei Selgiuchidi, ed entro le sue altissime mura
circolari trovavano spazio le più alte forme di cultura che l’umanità avesse
mai visto: storici, filosofi, matematici, geografi insegnavano nelle sue scuole,
contribuendo ad una diffusione del sapere praticamente sconfinata, per non
parlare poi della grande varietà di popoli e culture che la abitavano e che
davano vita ad un culto del sapere che travalicava le barriere della lingua e
della religione, facendosi universale.
Si studiava di
tutto, dal greco alla matematica, dalla geometria all’alchimia, dalla storia
all’emergente geologia, ma si discuteva anche di letteratura, di poesia, di
astronomia e di medicina.
Fuori dalle
scuole, la gente comune viveva un periodo di relativa prosperità, con carri
carichi di ricchezze che quotidianamente arrivavano via terra, attraversando
una delle sei porte d’ingresso, o via fiume, dal Tigri, che nello stesso tempo
offriva in abbondanza pesce di qualità e acqua pura.
Da quasi dieci
anni la città era governata da Jahal Alì Falahda, califfo e uomo di fiducia del
sultano Ahmed Sanjar, con cui aveva anche una lontana
parentela, il che gli aveva permesso sicuramente di scalare rapidamente i
vertici del potere dopo che il precedente sovrano, Mehmed
I, lo aveva ostacolato e osteggiato in tutti i modi a causa di una differente
veduta politica.
«Finalmente siamo
arrivati.» disse Kahled osservando la monumentale porta orientale «È davvero
una bella città.»
«Hai
ragione. Baghdad è da secoli uno dei centri culturali ed economici più
importanti della regione, e il suo fascino è indiscutibile.»
«Risulta quasi difficile pensare che un luogo tanto bello possa
nascondere un’insidia così terribile.»
«Nulla
è mai come appare. Ricordalo sempre. La facciata di una cosa non sempre è
uguale a ciò che si cela al di sotto».
Sentendo parlare
suo fratello in quel modo, Kahled non riuscì a trattenere una risatina.
«Che c’è?» domandò
Altair «Ho detto qualcosa di buffo?»
«Parli
già come il maestro, e a pensarci bene non hai mai fatto altro. Senza dubbio
sei tu la persona più adatta a prendere il suo posto.»
«Non
pensare a queste cose. Per il momento, dobbiamo preoccuparci unicamente di
raggiungere il nostro obiettivo, come abbiamo sempre fatto. La sfida che ci ha
lanciato il maestro non deve in alcun modo distrarci, e sono certo che nei suoi
propositi anche questo facesse parte della prova.
Del resto, un capo
non è niente se non può contare sull’appoggio e sulla collaborazione di chi gli
è più vicino.»
«Sono
perfettamente d’accordo. Sta tranquillo, non ho mai pensato neppure per un
secondo che questo o qualsiasi altra cosa potesse in qualche modo pregiudicare
la stima e il rispetto che ho sempre nutrito nei tuoi confronti.»
«Kahled…».
Il fratello minore
guardò il maggiore con gentilezza e ammirazione.
«Io ti devo molto, Altair. Fin da quando eravamo piccoli
mi hai sempre protetto, e hai continuato a farlo anche dopo che ci siamo uniti
alla confraternita.»
«Ho
promesso ai nostri genitori di proteggerti e vegliare sempre su di te. E poi,
sei mio fratello, ed è nostro dovere proteggerci vicendevolmente le spalle.»
«E io di questo ti sono grato. Abbiamo combattuto insieme e
sofferto insieme, e ogni giorno ringrazio il cielo per avermi fatto dono del
tuo stesso sangue.
Sono onorato e
orgoglioso di stare al tuo fianco, e semmai dovessi un giorno divenire la
nostra guida voglio che tu sappia che continuerò ad appoggiarti e a combattere
per te e con te come ho sempre fatto.»
«Queste
tue parole mi riempiono di gioia. Anche io sono fiero
di averti come fratello.»
«Però,
voglio che tu sappia una cosa. Fin da quando sono diventato un Hasisiyyun, ho promesso a me stesso che avrei fatto
l’impossibile per arrivare ai vertici della confraternita, in modo da poterla
guidare alla conquista di un mondo in cui nessuno, neanche il più misero degli
uomini, sia costretto a subire la sorte toccata a noi in gioventù, e ora che ho
la possibilità di realizzare questo mio sogno farò tutto ciò che è in mio
potere per coglierla.»
«E non dubitare
che io farò altrettanto.» rispose Altair con un sorriso amichevole «Dopotutto anche io, come te, credo fortemente nella giustizia, e in
ciò che i gli Hasisiyyun possono fare per essa.»
«In questo caso.»
disse Kahled porgendogli la mano «Amici come sempre.»
«Come sempre.»
rispose prontamente Altair stringendogliela «Fino alla fine».
L’ingresso era
ovviamente sorvegliato da una decina di guardie che supervisionavano sia i
contenuti dei carri, imponendo ovviamente un obolo d’ingresso, sia i viandanti,
soprattutto quelli che avevano l’aria di forestieri; negli ultimi tempi la
situazione per l’Impero non era molto rosea, e correva voce che il sultano
avesse in programma di condurre una guerra contro i Mongoli, che da un po’ di
tempo pressavano con sempre maggiore insistenza sui confini orientali, pertanto
la sorveglianza nelle grandi città come Baghdad era molto stretta, onde evitare
l’intrusione di spie o, peggio ancora, di sabotatori, ma oltrepassare un ingresso
sorvegliato era cosa da niente per due Assassini come loro.
«Il solito trucchetto?» domandò Kahled
«Ovviamente».
Entrambi, scesi
dai loro cavalli, si mischiarono alla folla che attendeva di entrare,
mettendosi alla ricerca dei soggetti adatti; Altair arrivò per primo, trovando
sulla propria strada un orrendo burbero dalla barba ispida che sicuramente non
stava andando a Baghdad per frequentare una madrasa.
Subito gli sferrò
un destro poderoso, e nello stesso momento suo fratello faceva la stessa cosa con un tipo molto simile pochi metri più in là,
buttandoli entrambi a terra per poi dileguarsi rapidamente; quelli, rialzatisi,
si avventarono sui primi malcapitati che avevano a tiro, e nel giro di un
secondo davanti al portone si scatenò una rissa colossale. Ben presto le
guardie, intervenute per sedare gli animi, vennero a loro volta sopraffatte
dalla calca, e così, approfittando della confusione, i due fratelli riuscirono ad entrare in città senza spargere una sola goccia di
sangue.
«Da qui in poi,
meglio procedere separatamente.» disse Altair «Come le altre volte.»
«Sì,
hai ragione. Insieme daremmo troppo nell’occhio.»
«Ci
incontriamo alla dimora degli assassini. Ti ricordi dove
si trova, vero?»
«Naturalmente.»
«E
se ti è possibile, cerca di evitare i tuoi soliti colpi di testa. A dopo».
Separatisi,
presero direzioni opposte, e come faceva spesso Altair scelse di fare ricorso all’agilità saltando fra i tetti, e tenendo
conto del caratteristico disordine strutturale che caratterizzava le città di
tradizione araba, lontane dalla concezione geometrica e gerarchizzata degli
agglomerati europei, non si trattava neanche di un’operazione troppo difficile,
almeno non per qualcuno con il suo talento e la sua versatilità.
Kahled invece, che
per quanto agile e veloce non poteva certo competere con il fratello sotto questo aspetto, scelse come al solito di muoversi per le
strade, stando bene attento a tenere il volto ben nascosto dal suo cappuccio e
a non guardare nessuno negl’occhi.
Gli piaceva camminare
in mezzo alla gente, assaporare le piccole cose che per la gente comune erano
normali e forse anche tanto monotone e quotidiane da essere ammuffite, ma che
per un assassino come lui, condannato ad una vita
lontano da tutto e da tutti, erano come un prezioso tesoro. Gli odori, i suoni,
le parole, i rumori: era tutto così effimero, ma anche così bello.
Ogni tanto Kahled
sentiva la mancanza di quella vita, della vita a cui
era stato brutalmente strappato a soli otto anni, quando passava le sue giornate
a correre per le vie di Damasco rubacchiando alle bancarelle e tirando le barbe
folte degli imam addormentati o in meditazione fuori dalle moschee per poi
dileguarsi rapidamente nei vicoli della città vecchia.
Immergersi ancora
un po’ in quell’atmosfera gli ricordava che, infondo, era ancora umano, e gli
dava anche un senso di speranza: la semplicità, in fin dei conti, era un bene,
ma purtroppo solo chi come lui l’aveva persa poteva rendersene conto.
Non era pentito di
essere entrato a far parte della confraternita; come Assassino aveva i mezzi
per guidare il mondo verso un futuro migliore, governato dalla pace e dalla
ragione, ma non erano poche le volte in cui, guardandosi attorno, si era
domandato se ne valesse davvero la pena: gli uomini potevano essere vili,
egoisti, lussuriosi, arroganti, malvagi e crudeli, e cercare di portare un
ideale come la pace in un essere vivente capace di manifestare simili emozioni
rischiava di essere qualcosa al di là del possibile.
Tuttavia, ogni
volta che ci pensava, Kahled ripeteva a sé stesso che
in quanto assassino non poteva pretendere di avere il suo sogno servito su un
piatto d’argento, ma che anzi era suo dovere creare le condizioni per far sì
che diventasse realtà.
All’improvviso un
coro di voci e schiamazzi proveniente dal cortiletto
di un’abitazione attirò l’attenzione dei passanti, inclusa la sua, e pochi
minuti dopo un gruppo di uomini e donne uscì all’esterno trascinando fuori di
peso una giovane ragazza di forse sedici anni, se non più giovane, che urlava e
piangeva, supplicando qualcuno di salvarla; i due uomini che la tenevano per le
braccia, e che a giudicare dall’età dovevano essere il padre e il fratello, o
il padre e il marito, la gettarono con violenza inaudita in mezzo alla strada,
e mentre le donne la tempestavano di insulti gli uomini la riempivano di
schiaffi e calci.
La gente faceva
cerchio, e le guardie non muovevano un dito per intervenire; anzi, mentre
alcune tenevano indietro la folla altre rimanevano
semplicemente a guardare, ma era una cosa più che comprensibile, data la
situazione: si trattava sicuramente di un processo di famiglia, e in quei casi
l’autorità non era autorizzata ad intervenire.
Kahled, a fatica,
riuscì a raggiungere la testa del gruppo, e inizialmente cercò di ricordarsi
della promessa fatta a suo fratello di non attirare l’attenzione, ma poi quella
ragazza lo guardò, supplicandolo silenziosamente e gelandogli il sangue: quello
sguardo, il suo sguardo, era lo sguardo di chi cercava
disperatamente una via di fuga, non solo da quella situazione, ma dalla stessa
vita. Era lo sguardo di una colomba che, per quanto desiderasse e bramasse la
libertà, era nata in gabbia, e in gabbia sarebbe
rimasta.
Quando vide gli
uomini raccogliere da terra delle grosse pietre il giovane assassino non ci
vide più, e senza riflettere si distaccò dalla massa.
«Ehi!
Lasciatela stare!» gridò con tono di ordine.
Uno degli uomini,
sicuramente il padre, si girò verso di lui, seguito a breve da tutti i suoi
famigliari.
«Voi non intromettetevi. Questa è una faccenda di famiglia.»
«Perché?
Che cosa ha fatto?»
«È
un’adultera. L’abbiamo sorpresa in atteggiamento intimo con un altro uomo.»
«E questo è un
crimine?»
«Un
crimine imperdonabile. Ha disonorato suo marito e la sua famiglia.»
«Suo
marito? Quale marito? Quello che gli avete scelto voi? Vi arrogate il diritto
di decidere della vita delle vostre figlie, e
pretendete pure che loro si sottomettano passivamente? Il solo fatto che questa
famiglia abbia deciso di dare personalmente la morte ad
un proprio congiunto è un disonore mille volte più grande di quello che
pretendete di attribuire a lei.»
«Come
vi permettete di parlare così? Chi siete per obiettare sulle nostre leggi!?»
«Sono un uomo che
rifiuta leggi tanto stupide e barbariche da legittimare l’omicidio di una
giovane donna la cui unico crimine è stato voler decidere della sua vita.»
«Tu,
bastardo! Hai bestemmiato!».
Il padre a quel
punto, dimenticatosi completamente della figlia, lanciò la pietra che aveva in
mano contro Kahled, ma questi, che pur non avendo
l’agilità del fratello disponeva dei riflessi di un cobra, evitò senza problemi
spostandosi di lato, e allora il vecchio gli si fece incontro sfoderando un
grosso coltello.
Kahled
dapprincipio non mosse un muscolo, neppure quando quell’uomo sollevò la mano
armata per colpire, ma nell’istante in cui il fendente prendeva a tagliare l’aria il giovane si abbassò, evitandolo, e contemporaneamente
si udì uno strano scatto; Kahled avanzò violentemente, portandosi spalla a spalla
con il vecchio, e quasi subito questi sgranò gli occhi, facendosi rigido come
la pietra mentre dalla sua bocca uscivano insieme un rantolo di agonia e uno
schizzò di sangue.
Guardie e passanti
rimasero immobili e atterriti mentre il corpo dell’uomo cadeva inerme
all’indietro con una grossa ferita proprio all’altezza del cuore e la tunica
bianca sporca di sangue, e a quel punto tutti poterono scorgere la lama lunga e
sottile che emergeva dal bracciale sinistro del ragazzo, l’arma di
rappresentanza del suo ordine divenuta tristemente famosa come portatrice di
morte in tutti i più remoti angoli della regione.
«È un Assassino!»
gridò qualcuno, e subito nella strada esplose il panico.
La gente comune
prese a fuggire in tutte le direzioni, i soldati lì presenti invece si
affrettarono a mettere mano alle spade, e Kahled fece subito altrettanto,
dimostrando di voler accettare la sfida.
Malgrado
gli Assassini non avessero mai operato in quel momento né a Baghdad né nelle
zone limitrofe la loro leggendaria abilità sia come sicari sia come spadaccini
era nota ovunque, quindi le guardie erano ben coscienti di ciò che poteva
attenderli, ma confidavano comunque nel loro numero per poter ottenere una
facile vittoria.
Kahled, messosi
subito spalle al muro, fece un rapido conteggio: in tutto dieci tra guardie e
soldati regolari, questi ultimi provvisti, oltre che della veste bianca, anche
di una leggera protezione di cuoio un po’ simile alla sua, ma tutto sommato
niente di ingestibile.
Il primo ad
attaccare fu un soldato, che si fece avanti a spada tratta,
ma Kahled schivò senza problemi e assestò un affondo preciso al torace
che lo uccise sul colpo; altri tre partirono tutti insieme, e questa volta,
piuttosto che limitarsi a contrattaccare, Kahled decise di rispondere a tono, e
allontanato il primo con un calcio dopo aver deviato il suo fendente piantò uno
dei suoi pugnali nella fronte del secondo quindi, sfoderato il coltello, colpì
il terzo con un taglio preciso della gola approfittando di un suo momento di esitazione
per poi infliggere con lo stesso coltello il colpo mortale al primo che,
rialzatosi, aveva attaccato di nuovo, scoprendosi però e lasciando esposta la
vena ascellare, che era stata prontamente recisa.
Dei quattro
superstiti due tentarono un nuovo attacco, ma vennero a loro volta uccisi senza
difficoltà, un terzo invece tentò di darsi alla fuga; Kahled, rinfoderata spada
e coltello, prese una breve rincorsa, e poggiato un piede sulla sommità di un
muretto laterale gli arrivò addosso come un angelo
della morte, buttandolo a terra e piantandogli la lama nascosta nella nuca.
Subito il ragazzo
si concentrò sull’ultimo nemico, aspettandosi di dover inseguire anche lui,
invece, girato lo sguardo, lo trovò intento a proteggersi usando la ragazzina
come scudo e tenendole la scimitarra puntata alla gola; Kahled non osò
intervenire subito, ben conscio che un uomo terrorizzato a tal punto poteva
diventare capace di tutto, ma mentre era ancora intento a trovare una possibile
situazione un nuovo coltello sbucò dal nulla centrando
il sequestratore in piena testa e uccidendolo istantaneamente.
La ragazza, forse
per paura, forse per lo shock, svenne, e subito dopo Altair comparve dal tetto
dell’alto in una strada ormai deserta, e prima ancora di vederlo alzare lo
sguardo Kahled si immaginava già quello che sarebbe
successo.
«Che cosa avevo
detto a proposito dei colpi di testa?» esordì severamente
«Ecco…»
«Quante
volte ti ho detto che devi pensare prima di agire? Non puoi risolvere sempre
tutto con la spada.»
«Ma
fratello, l’avrebbero uccisa. Non potevo restare a guardare senza far niente.»
«Non basta saper
combattere per essere un bravo assassino, ci vuole anche cervello.»
«Ho
agito d’impulso, lo ammetto, ma che altro potevo fare? Un fanatico integralista
non è la persona con cui si possa parlare, e credimi, ci ho provato.»
«La
tua lingua taglia più della spada. Credi che non lo sappia?».
Kahled abbassò lo
sguardo, conscio dell’ennesima stupidaggine commessa; come diceva Altair, non
era nuovo a bravate di quel genere, e a lungo aveva tentato di imporsi un
freno, ma non riusciva a rimanere indifferente a qualsivoglia
tipo di ingiustizia che veniva compiuta dinnanzi ai suoi occhi, e poi toccava
sempre a suo fratello tirarlo fuori dai guai.
«Ora
andiamo via, prima che arrivi qualcuno. Per oggi direi che abbiamo fatto
abbastanza rumore.»
«Aspetta, e cosa
facciamo con lei?» domandò il minore guardando la ragazza «Non possiamo
lasciarla qui, la ucciderebbero sicuramente».
Altair sospirò,
poi tornò sui suoi passi e prese la ragazza tra le braccia per poi scomparire
insieme al fratello in una vietta laterale giusto in
tempo per evitare l’arrivo di altre guardie.
La locale dimora degli assassini sorgeva in una delle zone
più ricche ed esclusive della città ed era abilmente mascherata da ricca casa
signorile, con tanto di servitori e guardie del corpo, tutti segretamente
membri dell’ordine, che facevano abitualmente avanti e indietro dal mercato o
da altri luoghi pubblici per rendere la storia ancora più credibile.
Il suo occupante
era il nobile Samir Al Farah, illustre mercante di
lana, ma all’insaputa di tutti era anche il Rafiq di Baghdad, il solo forse tra
i suoi compagni a poter vantare un’attività di copertura tanto sfarzosa e
lussureggiante.
Gli assassini
accedevano alla villa tramite il cortile interno, e così fecero anche Altair e
suo fratello, pur appesantiti da un fardello così ingombrante, per quanto
grazioso; subito dopo che furono tornati coi piedi per
terra il padrone di casa li raggiunse uscendo da una porta laterale assieme a
due guardie.
A differenza degli
altri Rafiq, Samir non indossava la classica uniforme degli assassini e il
soprabito nero, abbigliamento che avrebbe stonato con il ruolo che la città
intera credeva che ricoprisse, ma al contrario faceva sfoggio di ricce vesti
ricamate, e molti pensavano, non senza ironia, che si vestisse in modo tanto
lussuoso per cercare di mascherare i limiti di un’età non più tanto florida.
Tuttavia, benché
calvo e non certo appariscente, era grande e grosso
come un toro, e non a caso nei tempi in cui era stato un assassino il suo nome
in codice era stato Sansone.
«Alla buon’ora!» esordì andandogli incontro «Io vi aspettavo
tre giorni fa.»
«Scusaci, Rafiq.»
rispose Altair «I predoni ultimamente si sono fatti molto numerosi, e siamo
dovuti venire per strade secondarie.»
«Lei chi è?»
domandò poi il mercante vedendo la ragazza che il maggiore aveva sulle spalle
«Volevano
lapidarla.» disse Kahled «L’abbiamo aiutata.»
«A dire il vero ha
fatto tutto di testa sua, come al solito.»
«Questa
non è una casa di cura. Questa è la dimora degli assassini. E se venissero a
cercarla?»
«Ma
non possiamo mandarla via. La ucciderebbero.»
«Va’ bene, ho capito il discorso. Sì da’ il caso che oggi un
gruppo dei miei servitori debbano tornare a Masyaf. Andrà con loro.»
«Ti
ringrazio. Sapevo di poter contare su di te».
Sistemata anche
quella questione Samir, che aveva visto crescere coi
suoi occhi quei due fratelli, insegnandogli anche alcuni dei suoi segreti nel
periodo di apprendistato che avevano trascorso a Baghdad prima di diventare
assassini a tutti gli effetti, li abbracciò calorosamente, come se fossero
stati i suoi figli.
«È davvero una
gioia rivedervi, ragazzi.»
«Anche per noi è
bello rivederti, Samir.» disse Kahled
«Speravo tanto di
potervi rincontrare, ma purtroppo in qualità di Rafiq
non mi è concesso lasciare Baghdad. E ditemi, come sta il maestro? Si è un po’
ripreso?»
«Purtroppo no.»
rispose Altair «È in declino, e la situazione peggiora di giorno in giorno.»
«Mi
si spezza il cuore, ma infondo era quello che mi aspettavo di sentire. Ho
capito che era una cosa grave quando ho visto che i messaggi non erano scritti
di suo pugno».
Si sparse una
spiacevole atmosfera di ansia e dolore, ma Samir cercò
di riportare subito un soffio di serenità.
«Tuttavia,
questo deve renderci solo più determinati. Sarà l’ultima missione affidataci da
Hasan-i Sabbah, pertanto abbiamo il dovere di compierla al meglio.»
«Hai ragione Rafiq.» rispose Kahled «Non dobbiamo lasciarci
distrarre. Al contrario, dobbiamo dimostrare il meglio di noi stessi.»
«Così mi piaci,
ragazzo.»
«Sai già perché
siamo qui, vero?» chiese Altair
«Sì,
naturalmente. E mi sono già permesso di raccogliere delle informazioni per
aiutarvi nella missione. Abbiamo molto di cui parlare, ma prima sarà meglio
attendere l’arrivo del terzo assassino. Dovrebbe essere qui a minuti.»
«Il terzo
assassino?» ripeté Kahled
«Il
maestro non ve l’ha detto? Non sarete da soli a compiere questa missione. Vi
affiancherà un professionista, qualcuno che da anni gravita attorno a Jahal Alì
Falahda e alla sua corte.»
«E
di chi si tratta? È Yusuf?»
«Non
proprio. Lo scoprirai a tempo debito».
In quella un’ombra
minacciosa sovrastò tutti e tre, e Kahled, alzato lo sguardo, si spostò appena
in tempo per evitare la spada di un altro assassino, che lasciati
perdere Altair e Samir si concentrò unicamente su di lui; malgrado
indossasse l’uniforme degli assassini e nascondesse il volto dietro un bavero,
tanto gli occhi quanto la corporatura resero più che evidente che si trattava
di una donna.
Kahled guardò
Altair, che allargò amichevolmente le braccia senza mostrare alcuna intenzione
di intervenire, quindi sguainò a sua volta la spada, e tra i due fu subito
aperto scontro. La donna era agile e aggraziata, ed
utilizzava uno stile di lotta assolutamente non comune per le regioni del Medio
Oriente, fatto di spostamenti continui, movenze acrobatiche e affondi letali,
per non parlare della sua spada: non una scimitarra o un pesante spadone
europeo, ma una lama lunga e sottile come un foglio di carta; l’impugnatura, di
legno, era decorata finemente come un pregiato arabesco, e aveva alla base una
cordicella arancio tramonto a cui era legata una sfera nera.
Kahled dovette
indietreggiare di parecchi passi, poi però si ritrovò
con la schiena appoggiata al pozzo al centro del giardino, e agilmente vi saltò
sopra giusto all’ultimo secondo, salvandosi ancora una volta sul filo del
rasoio; messosi in piedi salto di nuovo per evitare un fendente orizzontale, e
contemporaneamente saltò alle spalle dell’aggressore che, giratasi, venne
disarmata da un preciso colpo a mano aperta all’altezza del polso.
Prima di potersi
considerare in pericolo però la ragazza allontanò Kahled con un calcio, e
affondate le mani dietro la schiena ne prese fuori due
spade corte legate insieme tra di loro da una lunga corda di seta rossa; Kahled
rispose sfoderando anche il pugnale, e la battaglia riprese più accesa di
prima. Pur risultando molto abile anche con la spada,
divenne subito chiaro che quella coppia di spade erano l’arma favorita dalla
ragazza, che dimostrò ben presto di saperle usare con una maestria incredibile;
tenendo ben stretta la corda che le univa era in grado, fuori dal corpo a
corpo, di renderle ugualmente pericolose, facendo compiere loro lunghe, veloci
o pericolose parabole che arrivavano anche a tre metri da lei o a farle schizzare
fulminee in avanti come la testa avvelenata di un serpente, e quando pensavi di
essertene finalmente liberato te le trovavi nuovamente addosso, pronte a
minacciarti ancora.
Altair e Samir
continuarono a restare impassibili, malgrado il Rafiq
continuasse a supplicare i due contendenti di non distruggergli il giardino, e
alla fine Kahled, superate le difese nemiche, appoggiò la lama del coltello
alla gola della ragazza, ma il suo sorriso soddisfatto si spense alla vista
dello sguardo fiero e sicuro di sé dell’avversaria.
«Non cambi mai,
vero Kahled?» disse, e solo allora il ragazzo si accorse di avere una delle due spade nemiche appoggiata ad un fianco
«E va’ bene, lo ammetto.» mugugnò allontanandosi «Questa volta
hai vinto tu».
La ragazza
rinfoderò le spade e si tolse il copricapo, rivelando un magnifico volto candido
circondato da lunghi capelli neri e arricchito da due occhi piccoli e lunghi,
un piccolo naso aquilino e gentili labbra minute.
Come Assassina si
chiamava Mira, ma il suo vero nome era Yang Li, e veniva dalle fertili pianure
della Cina; figlia di un grande maestro, a soli sette anni era stata catturata
nel corso di una razzia compiuta nel suo villaggio, e venduta come schiava era
passata di padrone in padrone fino ad arrivare, ormai tredicenne, a Samarcanda,
dove, una volta scappata, aveva vissuto i due anni successivi come tanti
bambini di strada. Poco tempo dopo era stata trovata dallo stesso Samir, che
rimasto colpito dall’abilità e dalla tecnica con cui vinceva combattimenti clandestini
contro uomini molto più grandi di lei l’aveva portata
con sé a Baghdad, riuscendo a convincere Hasan-i Sabbah a sorvolare sulle sue
origini e a concedergli di addestrarla.
Lei e i due
fratelli si erano conosciuti durante l’addestramento, nel periodo che Altair e
Kahled avevano trascorso a Baghdad, e fra i tre era nata subito un’intesa molto
forte, in particolare con il fratello minore. Kahled era notoriamente troppo
orgoglioso per accettare una sconfitta in duello
inflittagli da qualcuno che non fosse suo fratello, ma con Mira le cose erano
diverse; lei era speciale, e tra i due vi era un sano sentimento di rivalità
che li spingeva a misurarsi in amichevoli conflitti al fine di migliorarsi
continuamente, ma c’era anche dell’altro, qualcosa che forse due persone di
quel tipo potevano esprimere per l’appunto solo confrontandosi, ma i primi a
non voler scendere nell’argomento erano proprio loro.
Liberatasi dell’ingombrante
copricapo la ragazza andò a recuperare la sua prima
spada, rimasta conficcata nel terreno.
«E
con questa siamo quattro a quattro. Ora ne manca solo una per decidere chi è il
migliore».
«Non sei affatto cambiata, Mira.»
«Neanche
tu, Altair. Sei sempre il solito musone ombroso, tuo fratello invece è sempre
il solito sempliciotto prevedibile».
Kahled rimase
rigido come un sasso, e a differenza delle altre volte non riuscì a trovare la
forza di rispondere a tono alle provocatorie stoccate della sua amica: e
pensare che l’ultima volta che si erano visti le aveva
detto, per scherzo naturalmente, che non sarebbe mai stata in grado di diventare
una ragazza attraente, invece ora era bella da togliere il fiato.
«Allora…» riuscì
solo a dire «Sei tu il terzo assassino assegnato a questa missione!?»
«Indovinato.
Questa volta lavoreremo insieme.
Dovresti sentirti
onorato di avermi come tua partner.»
«Ma sentila, la
presuntuosa!» esclamò Kahled scendendo finalmente coi
piedi per terra «Sei tu che dovresti sentirti onorata di lavorare con noi. Speri
forse di poterci reggere il confronto?»
«Con tuo fratello
forse, con te sicuramente sì.»
«Piccola vipera.»
«Bene.» disse
Samir battendo le mani «Noto con piacere che la cara
vecchia atmosfera di un tempo è rinata tutta in una volta. Mi mancavano questi
battibecchi.
Ora però
preoccupiamoci di cose serie. Venite, parleremo nel mio studio».
Nota dell’Autore
Eccomi di nuovo!^_^
Non sapete quanto sia
felice di aver incontrato una così calorosa approvazione per questa fiction
che, correggendo la precedente affermazione, non sarà composta da 4, ma da sei 6 capitoli, prologo ed epilogo esclusi.
Per quel che riguarda
le domande che mi sono state fatte no, Altair non è lo stesso del gioco, e sì,
i due hanno qualcosa in comune, ma su cosa sia in realtà lo scoprirete solo
alla fine.
Ringrazio le mie due recensitrici, Elika e Saphira, e prometto di aggiornare ancora in breve tempo, ma
avendo l’inizio dei corsi a pendere sulla mia testa non so, da lunedì, quanto
veloce potrò essere.
A presto!^_^
Carlos Olivera