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Autore: Carlos Olivera    21/09/2009    3 recensioni
Cosa può spingere un uomo a rinnegare tutto ciò che ha sempre creduto, abbandonare i precetti che hanno governato la sua esistenza e rendersi partecipe di crimini innominabili?
Dolore, rabbia, frustrazione, odio, invidia. Tutto ciò può condurre all'abisso del male, e una volta che vi si è entrati la caduta è inesorabile.
Anno 1124
Due giovani assassini vengono incaricati dal loro maestro ormai morente di compiere un'ultima missione per le affollate strade di Baghdad, un paradiso di cultura e di conoscenza su cui alberga però un'ombra minacciosa. Nessuno sarà risparmiato, e l'unica cosa che attende loro, come molti altri, è il dolore, il dolore in tutte le sue più crudeli e terribili forme.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Baghdad

Febbraio 1124

 

Alla luce del sole, la splendida città circolare risplendeva come una gemma radiosa.

  Unanimemente riconosciuta come la città più bella d’oriente, era da tempo dominata dalla dinastia dei Selgiuchidi, ed entro le sue altissime mura circolari trovavano spazio le più alte forme di cultura che l’umanità avesse mai visto: storici, filosofi, matematici, geografi insegnavano nelle sue scuole, contribuendo ad una diffusione del sapere praticamente sconfinata, per non parlare poi della grande varietà di popoli e culture che la abitavano e che davano vita ad un culto del sapere che travalicava le barriere della lingua e della religione, facendosi universale.

  Si studiava di tutto, dal greco alla matematica, dalla geometria all’alchimia, dalla storia all’emergente geologia, ma si discuteva anche di letteratura, di poesia, di astronomia e di medicina.

  Fuori dalle scuole, la gente comune viveva un periodo di relativa prosperità, con carri carichi di ricchezze che quotidianamente arrivavano via terra, attraversando una delle sei porte d’ingresso, o via fiume, dal Tigri, che nello stesso tempo offriva in abbondanza pesce di qualità e acqua pura.

  Da quasi dieci anni la città era governata da Jahal Alì Falahda, califfo e uomo di fiducia del sultano Ahmed Sanjar, con cui aveva anche una lontana parentela, il che gli aveva permesso sicuramente di scalare rapidamente i vertici del potere dopo che il precedente sovrano, Mehmed I, lo aveva ostacolato e osteggiato in tutti i modi a causa di una differente veduta politica.

  «Finalmente siamo arrivati.» disse Kahled osservando la monumentale porta orientale «È davvero una bella città.»

  «Hai ragione. Baghdad è da secoli uno dei centri culturali ed economici più importanti della regione, e il suo fascino è indiscutibile.»

  «Risulta quasi difficile pensare che un luogo tanto bello possa nascondere un’insidia così terribile.»

  «Nulla è mai come appare. Ricordalo sempre. La facciata di una cosa non sempre è uguale a ciò che si cela al di sotto».

  Sentendo parlare suo fratello in quel modo, Kahled non riuscì a trattenere una risatina.

  «Che c’è?» domandò Altair «Ho detto qualcosa di buffo?»

  «Parli già come il maestro, e a pensarci bene non hai mai fatto altro. Senza dubbio sei tu la persona più adatta a prendere il suo posto.»

  «Non pensare a queste cose. Per il momento, dobbiamo preoccuparci unicamente di raggiungere il nostro obiettivo, come abbiamo sempre fatto. La sfida che ci ha lanciato il maestro non deve in alcun modo distrarci, e sono certo che nei suoi propositi anche questo facesse parte della prova.

  Del resto, un capo non è niente se non può contare sull’appoggio e sulla collaborazione di chi gli è più vicino.»

  «Sono perfettamente d’accordo. Sta tranquillo, non ho mai pensato neppure per un secondo che questo o qualsiasi altra cosa potesse in qualche modo pregiudicare la stima e il rispetto che ho sempre nutrito nei tuoi confronti.»

  «Kahled…».

  Il fratello minore guardò il maggiore con gentilezza e ammirazione.

  «Io ti devo molto, Altair. Fin da quando eravamo piccoli mi hai sempre protetto, e hai continuato a farlo anche dopo che ci siamo uniti alla confraternita.»

  «Ho promesso ai nostri genitori di proteggerti e vegliare sempre su di te. E poi, sei mio fratello, ed è nostro dovere proteggerci vicendevolmente le spalle.»

  «E io di questo ti sono grato. Abbiamo combattuto insieme e sofferto insieme, e ogni giorno ringrazio il cielo per avermi fatto dono del tuo stesso sangue.

  Sono onorato e orgoglioso di stare al tuo fianco, e semmai dovessi un giorno divenire la nostra guida voglio che tu sappia che continuerò ad appoggiarti e a combattere per te e con te come ho sempre fatto.»

  «Queste tue parole mi riempiono di gioia. Anche io sono fiero di averti come fratello.»

  «Però, voglio che tu sappia una cosa. Fin da quando sono diventato un Hasisiyyun, ho promesso a me stesso che avrei fatto l’impossibile per arrivare ai vertici della confraternita, in modo da poterla guidare alla conquista di un mondo in cui nessuno, neanche il più misero degli uomini, sia costretto a subire la sorte toccata a noi in gioventù, e ora che ho la possibilità di realizzare questo mio sogno farò tutto ciò che è in mio potere per coglierla.»

  «E non dubitare che io farò altrettanto.» rispose Altair con un sorriso amichevole «Dopotutto anche io, come te, credo fortemente nella giustizia, e in ciò che i gli Hasisiyyun possono fare per essa.»

  «In questo caso.» disse Kahled porgendogli la mano «Amici come sempre.»

  «Come sempre.» rispose prontamente Altair stringendogliela «Fino alla fine».

  L’ingresso era ovviamente sorvegliato da una decina di guardie che supervisionavano sia i contenuti dei carri, imponendo ovviamente un obolo d’ingresso, sia i viandanti, soprattutto quelli che avevano l’aria di forestieri; negli ultimi tempi la situazione per l’Impero non era molto rosea, e correva voce che il sultano avesse in programma di condurre una guerra contro i Mongoli, che da un po’ di tempo pressavano con sempre maggiore insistenza sui confini orientali, pertanto la sorveglianza nelle grandi città come Baghdad era molto stretta, onde evitare l’intrusione di spie o, peggio ancora, di sabotatori, ma oltrepassare un ingresso sorvegliato era cosa da niente per due Assassini come loro.

  «Il solito trucchetto?» domandò Kahled

  «Ovviamente».

  Entrambi, scesi dai loro cavalli, si mischiarono alla folla che attendeva di entrare, mettendosi alla ricerca dei soggetti adatti; Altair arrivò per primo, trovando sulla propria strada un orrendo burbero dalla barba ispida che sicuramente non stava andando a Baghdad per frequentare una madrasa.

  Subito gli sferrò un destro poderoso, e nello stesso momento suo fratello faceva la stessa cosa con un tipo molto simile pochi metri più in là, buttandoli entrambi a terra per poi dileguarsi rapidamente; quelli, rialzatisi, si avventarono sui primi malcapitati che avevano a tiro, e nel giro di un secondo davanti al portone si scatenò una rissa colossale. Ben presto le guardie, intervenute per sedare gli animi, vennero a loro volta sopraffatte dalla calca, e così, approfittando della confusione, i due fratelli riuscirono ad entrare in città senza spargere una sola goccia di sangue.

  «Da qui in poi, meglio procedere separatamente.» disse Altair «Come le altre volte.»

  «Sì, hai ragione. Insieme daremmo troppo nell’occhio.»

  «Ci incontriamo alla dimora degli assassini. Ti ricordi dove si trova, vero?»

  «Naturalmente.»

  «E se ti è possibile, cerca di evitare i tuoi soliti colpi di testa. A dopo».

  Separatisi, presero direzioni opposte, e come faceva spesso Altair scelse di fare ricorso all’agilità saltando fra i tetti, e tenendo conto del caratteristico disordine strutturale che caratterizzava le città di tradizione araba, lontane dalla concezione geometrica e gerarchizzata degli agglomerati europei, non si trattava neanche di un’operazione troppo difficile, almeno non per qualcuno con il suo talento e la sua versatilità.

  Kahled invece, che per quanto agile e veloce non poteva certo competere con il fratello sotto questo aspetto, scelse come al solito di muoversi per le strade, stando bene attento a tenere il volto ben nascosto dal suo cappuccio e a non guardare nessuno negl’occhi.

  Gli piaceva camminare in mezzo alla gente, assaporare le piccole cose che per la gente comune erano normali e forse anche tanto monotone e quotidiane da essere ammuffite, ma che per un assassino come lui, condannato ad una vita lontano da tutto e da tutti, erano come un prezioso tesoro. Gli odori, i suoni, le parole, i rumori: era tutto così effimero, ma anche così bello.

  Ogni tanto Kahled sentiva la mancanza di quella vita, della vita a cui era stato brutalmente strappato a soli otto anni, quando passava le sue giornate a correre per le vie di Damasco rubacchiando alle bancarelle e tirando le barbe folte degli imam addormentati o in meditazione fuori dalle moschee per poi dileguarsi rapidamente nei vicoli della città vecchia.

  Immergersi ancora un po’ in quell’atmosfera gli ricordava che, infondo, era ancora umano, e gli dava anche un senso di speranza: la semplicità, in fin dei conti, era un bene, ma purtroppo solo chi come lui l’aveva persa poteva rendersene conto.

  Non era pentito di essere entrato a far parte della confraternita; come Assassino aveva i mezzi per guidare il mondo verso un futuro migliore, governato dalla pace e dalla ragione, ma non erano poche le volte in cui, guardandosi attorno, si era domandato se ne valesse davvero la pena: gli uomini potevano essere vili, egoisti, lussuriosi, arroganti, malvagi e crudeli, e cercare di portare un ideale come la pace in un essere vivente capace di manifestare simili emozioni rischiava di essere qualcosa al di là del possibile.

  Tuttavia, ogni volta che ci pensava, Kahled ripeteva a stesso che in quanto assassino non poteva pretendere di avere il suo sogno servito su un piatto d’argento, ma che anzi era suo dovere creare le condizioni per far sì che diventasse realtà.

  All’improvviso un coro di voci e schiamazzi proveniente dal cortiletto di un’abitazione attirò l’attenzione dei passanti, inclusa la sua, e pochi minuti dopo un gruppo di uomini e donne uscì all’esterno trascinando fuori di peso una giovane ragazza di forse sedici anni, se non più giovane, che urlava e piangeva, supplicando qualcuno di salvarla; i due uomini che la tenevano per le braccia, e che a giudicare dall’età dovevano essere il padre e il fratello, o il padre e il marito, la gettarono con violenza inaudita in mezzo alla strada, e mentre le donne la tempestavano di insulti gli uomini la riempivano di schiaffi e calci.

  La gente faceva cerchio, e le guardie non muovevano un dito per intervenire; anzi, mentre alcune tenevano indietro la folla altre rimanevano semplicemente a guardare, ma era una cosa più che comprensibile, data la situazione: si trattava sicuramente di un processo di famiglia, e in quei casi l’autorità non era autorizzata ad intervenire.

  Kahled, a fatica, riuscì a raggiungere la testa del gruppo, e inizialmente cercò di ricordarsi della promessa fatta a suo fratello di non attirare l’attenzione, ma poi quella ragazza lo guardò, supplicandolo silenziosamente e gelandogli il sangue: quello sguardo, il suo sguardo, era lo sguardo di chi cercava disperatamente una via di fuga, non solo da quella situazione, ma dalla stessa vita. Era lo sguardo di una colomba che, per quanto desiderasse e bramasse la libertà, era nata in gabbia, e in gabbia sarebbe rimasta.

  Quando vide gli uomini raccogliere da terra delle grosse pietre il giovane assassino non ci vide più, e senza riflettere si distaccò dalla massa.

  «Ehi! Lasciatela stare!» gridò con tono di ordine.

  Uno degli uomini, sicuramente il padre, si girò verso di lui, seguito a breve da tutti i suoi famigliari.

  «Voi non intromettetevi. Questa è una faccenda di famiglia.»

  «Perché? Che cosa ha fatto?»

  «È un’adultera. L’abbiamo sorpresa in atteggiamento intimo con un altro uomo.»

  «E questo è un crimine?»

  «Un crimine imperdonabile. Ha disonorato suo marito e la sua famiglia.»

  «Suo marito? Quale marito? Quello che gli avete scelto voi? Vi arrogate il diritto di decidere della vita delle vostre figlie, e pretendete pure che loro si sottomettano passivamente? Il solo fatto che questa famiglia abbia deciso di dare personalmente la morte ad un proprio congiunto è un disonore mille volte più grande di quello che pretendete di attribuire a lei.»

  «Come vi permettete di parlare così? Chi siete per obiettare sulle nostre leggi!?»

  «Sono un uomo che rifiuta leggi tanto stupide e barbariche da legittimare l’omicidio di una giovane donna la cui unico crimine è stato voler decidere della sua vita.»

  «Tu, bastardo! Hai bestemmiato!».

  Il padre a quel punto, dimenticatosi completamente della figlia, lanciò la pietra che aveva in mano contro Kahled, ma questi, che pur non avendo l’agilità del fratello disponeva dei riflessi di un cobra, evitò senza problemi spostandosi di lato, e allora il vecchio gli si fece incontro sfoderando un grosso coltello.

  Kahled dapprincipio non mosse un muscolo, neppure quando quell’uomo sollevò la mano armata per colpire, ma nell’istante in cui il fendente prendeva a tagliare l’aria il giovane si abbassò, evitandolo, e contemporaneamente si udì uno strano scatto; Kahled avanzò violentemente, portandosi spalla a spalla con il vecchio, e quasi subito questi sgranò gli occhi, facendosi rigido come la pietra mentre dalla sua bocca uscivano insieme un rantolo di agonia e uno schizzò di sangue.

  Guardie e passanti rimasero immobili e atterriti mentre il corpo dell’uomo cadeva inerme all’indietro con una grossa ferita proprio all’altezza del cuore e la tunica bianca sporca di sangue, e a quel punto tutti poterono scorgere la lama lunga e sottile che emergeva dal bracciale sinistro del ragazzo, l’arma di rappresentanza del suo ordine divenuta tristemente famosa come portatrice di morte in tutti i più remoti angoli della regione.

  «È un Assassino!» gridò qualcuno, e subito nella strada esplose il panico.

  La gente comune prese a fuggire in tutte le direzioni, i soldati lì presenti invece si affrettarono a mettere mano alle spade, e Kahled fece subito altrettanto, dimostrando di voler accettare la sfida.

  Malgrado gli Assassini non avessero mai operato in quel momento né a Baghdad né nelle zone limitrofe la loro leggendaria abilità sia come sicari sia come spadaccini era nota ovunque, quindi le guardie erano ben coscienti di ciò che poteva attenderli, ma confidavano comunque nel loro numero per poter ottenere una facile vittoria.

  Kahled, messosi subito spalle al muro, fece un rapido conteggio: in tutto dieci tra guardie e soldati regolari, questi ultimi provvisti, oltre che della veste bianca, anche di una leggera protezione di cuoio un po’ simile alla sua, ma tutto sommato niente di ingestibile.

  Il primo ad attaccare fu un soldato, che si fece avanti a spada tratta, ma Kahled schivò senza problemi e assestò un affondo preciso al torace che lo uccise sul colpo; altri tre partirono tutti insieme, e questa volta, piuttosto che limitarsi a contrattaccare, Kahled decise di rispondere a tono, e allontanato il primo con un calcio dopo aver deviato il suo fendente piantò uno dei suoi pugnali nella fronte del secondo quindi, sfoderato il coltello, colpì il terzo con un taglio preciso della gola approfittando di un suo momento di esitazione per poi infliggere con lo stesso coltello il colpo mortale al primo che, rialzatosi, aveva attaccato di nuovo, scoprendosi però e lasciando esposta la vena ascellare, che era stata prontamente recisa.

  Dei quattro superstiti due tentarono un nuovo attacco, ma vennero a loro volta uccisi senza difficoltà, un terzo invece tentò di darsi alla fuga; Kahled, rinfoderata spada e coltello, prese una breve rincorsa, e poggiato un piede sulla sommità di un muretto laterale gli arrivò addosso come un angelo della morte, buttandolo a terra e piantandogli la lama nascosta nella nuca.

  Subito il ragazzo si concentrò sull’ultimo nemico, aspettandosi di dover inseguire anche lui, invece, girato lo sguardo, lo trovò intento a proteggersi usando la ragazzina come scudo e tenendole la scimitarra puntata alla gola; Kahled non osò intervenire subito, ben conscio che un uomo terrorizzato a tal punto poteva diventare capace di tutto, ma mentre era ancora intento a trovare una possibile situazione un nuovo coltello sbucò dal nulla centrando il sequestratore in piena testa e uccidendolo istantaneamente.

  La ragazza, forse per paura, forse per lo shock, svenne, e subito dopo Altair comparve dal tetto dell’alto in una strada ormai deserta, e prima ancora di vederlo alzare lo sguardo Kahled si immaginava già quello che sarebbe successo.

  «Che cosa avevo detto a proposito dei colpi di testa?» esordì severamente

  «Ecco…»

  «Quante volte ti ho detto che devi pensare prima di agire? Non puoi risolvere sempre tutto con la spada.»

  «Ma fratello, l’avrebbero uccisa. Non potevo restare a guardare senza far niente.»

  «Non basta saper combattere per essere un bravo assassino, ci vuole anche cervello.»

  «Ho agito d’impulso, lo ammetto, ma che altro potevo fare? Un fanatico integralista non è la persona con cui si possa parlare, e credimi, ci ho provato.»

  «La tua lingua taglia più della spada. Credi che non lo sappia?».

  Kahled abbassò lo sguardo, conscio dell’ennesima stupidaggine commessa; come diceva Altair, non era nuovo a bravate di quel genere, e a lungo aveva tentato di imporsi un freno, ma non riusciva a rimanere indifferente a qualsivoglia tipo di ingiustizia che veniva compiuta dinnanzi ai suoi occhi, e poi toccava sempre a suo fratello tirarlo fuori dai guai.

  «Ora andiamo via, prima che arrivi qualcuno. Per oggi direi che abbiamo fatto abbastanza rumore.»

  «Aspetta, e cosa facciamo con lei?» domandò il minore guardando la ragazza «Non possiamo lasciarla qui, la ucciderebbero sicuramente».

  Altair sospirò, poi tornò sui suoi passi e prese la ragazza tra le braccia per poi scomparire insieme al fratello in una vietta laterale giusto in tempo per evitare l’arrivo di altre guardie.

 

La locale dimora degli assassini sorgeva in una delle zone più ricche ed esclusive della città ed era abilmente mascherata da ricca casa signorile, con tanto di servitori e guardie del corpo, tutti segretamente membri dell’ordine, che facevano abitualmente avanti e indietro dal mercato o da altri luoghi pubblici per rendere la storia ancora più credibile.

  Il suo occupante era il nobile Samir Al Farah, illustre mercante di lana, ma all’insaputa di tutti era anche il Rafiq di Baghdad, il solo forse tra i suoi compagni a poter vantare un’attività di copertura tanto sfarzosa e lussureggiante.

  Gli assassini accedevano alla villa tramite il cortile interno, e così fecero anche Altair e suo fratello, pur appesantiti da un fardello così ingombrante, per quanto grazioso; subito dopo che furono tornati coi piedi per terra il padrone di casa li raggiunse uscendo da una porta laterale assieme a due guardie.

  A differenza degli altri Rafiq, Samir non indossava la classica uniforme degli assassini e il soprabito nero, abbigliamento che avrebbe stonato con il ruolo che la città intera credeva che ricoprisse, ma al contrario faceva sfoggio di ricce vesti ricamate, e molti pensavano, non senza ironia, che si vestisse in modo tanto lussuoso per cercare di mascherare i limiti di un’età non più tanto florida.

  Tuttavia, benché calvo e non certo appariscente, era grande e grosso come un toro, e non a caso nei tempi in cui era stato un assassino il suo nome in codice era stato Sansone.

  «Alla buon’ora!» esordì andandogli incontro «Io vi aspettavo tre giorni fa.»

  «Scusaci, Rafiq.» rispose Altair «I predoni ultimamente si sono fatti molto numerosi, e siamo dovuti venire per strade secondarie.»

  «Lei chi è?» domandò poi il mercante vedendo la ragazza che il maggiore aveva sulle spalle

  «Volevano lapidarla.» disse Kahled «L’abbiamo aiutata.»

  «A dire il vero ha fatto tutto di testa sua, come al solito.»

  «Questa non è una casa di cura. Questa è la dimora degli assassini. E se venissero a cercarla?»

  «Ma non possiamo mandarla via. La ucciderebbero.»

  «Va’ bene, ho capito il discorso. Sì da’ il caso che oggi un gruppo dei miei servitori debbano tornare a Masyaf. Andrà con loro.»

  «Ti ringrazio. Sapevo di poter contare su di te».

  Sistemata anche quella questione Samir, che aveva visto crescere coi suoi occhi quei due fratelli, insegnandogli anche alcuni dei suoi segreti nel periodo di apprendistato che avevano trascorso a Baghdad prima di diventare assassini a tutti gli effetti, li abbracciò calorosamente, come se fossero stati i suoi figli.

  «È davvero una gioia rivedervi, ragazzi.»

  «Anche per noi è bello rivederti, Samir.» disse Kahled

  «Speravo tanto di potervi rincontrare, ma purtroppo in qualità di Rafiq non mi è concesso lasciare Baghdad. E ditemi, come sta il maestro? Si è un po’ ripreso?»

  «Purtroppo no.» rispose Altair «È in declino, e la situazione peggiora di giorno in giorno.»

  «Mi si spezza il cuore, ma infondo era quello che mi aspettavo di sentire. Ho capito che era una cosa grave quando ho visto che i messaggi non erano scritti di suo pugno».

  Si sparse una spiacevole atmosfera di ansia e dolore, ma Samir cercò di riportare subito un soffio di serenità.

  «Tuttavia, questo deve renderci solo più determinati. Sarà l’ultima missione affidataci da Hasan-i Sabbah, pertanto abbiamo il dovere di compierla al meglio.»

  «Hai ragione Rafiq.» rispose Kahled «Non dobbiamo lasciarci distrarre. Al contrario, dobbiamo dimostrare il meglio di noi stessi.»

  «Così mi piaci, ragazzo.»

  «Sai già perché siamo qui, vero?» chiese Altair

  «Sì, naturalmente. E mi sono già permesso di raccogliere delle informazioni per aiutarvi nella missione. Abbiamo molto di cui parlare, ma prima sarà meglio attendere l’arrivo del terzo assassino. Dovrebbe essere qui a minuti.»

  «Il terzo assassino?» ripeté Kahled

  «Il maestro non ve l’ha detto? Non sarete da soli a compiere questa missione. Vi affiancherà un professionista, qualcuno che da anni gravita attorno a Jahal Alì Falahda e alla sua corte.»

  «E di chi si tratta? È Yusuf?»

  «Non proprio. Lo scoprirai a tempo debito».

  In quella un’ombra minacciosa sovrastò tutti e tre, e Kahled, alzato lo sguardo, si spostò appena in tempo per evitare la spada di un altro assassino, che lasciati perdere Altair e Samir si concentrò unicamente su di lui; malgrado indossasse l’uniforme degli assassini e nascondesse il volto dietro un bavero, tanto gli occhi quanto la corporatura resero più che evidente che si trattava di una donna.

  Kahled guardò Altair, che allargò amichevolmente le braccia senza mostrare alcuna intenzione di intervenire, quindi sguainò a sua volta la spada, e tra i due fu subito aperto scontro. La donna era agile e aggraziata, ed utilizzava uno stile di lotta assolutamente non comune per le regioni del Medio Oriente, fatto di spostamenti continui, movenze acrobatiche e affondi letali, per non parlare della sua spada: non una scimitarra o un pesante spadone europeo, ma una lama lunga e sottile come un foglio di carta; l’impugnatura, di legno, era decorata finemente come un pregiato arabesco, e aveva alla base una cordicella arancio tramonto a cui era legata una sfera nera.

  Kahled dovette indietreggiare di parecchi passi, poi però si ritrovò con la schiena appoggiata al pozzo al centro del giardino, e agilmente vi saltò sopra giusto all’ultimo secondo, salvandosi ancora una volta sul filo del rasoio; messosi in piedi salto di nuovo per evitare un fendente orizzontale, e contemporaneamente saltò alle spalle dell’aggressore che, giratasi, venne disarmata da un preciso colpo a mano aperta all’altezza del polso.

  Prima di potersi considerare in pericolo però la ragazza allontanò Kahled con un calcio, e affondate le mani dietro la schiena ne prese fuori due spade corte legate insieme tra di loro da una lunga corda di seta rossa; Kahled rispose sfoderando anche il pugnale, e la battaglia riprese più accesa di prima. Pur risultando molto abile anche con la spada, divenne subito chiaro che quella coppia di spade erano l’arma favorita dalla ragazza, che dimostrò ben presto di saperle usare con una maestria incredibile; tenendo ben stretta la corda che le univa era in grado, fuori dal corpo a corpo, di renderle ugualmente pericolose, facendo compiere loro lunghe, veloci o pericolose parabole che arrivavano anche a tre metri da lei o a farle schizzare fulminee in avanti come la testa avvelenata di un serpente, e quando pensavi di essertene finalmente liberato te le trovavi nuovamente addosso, pronte a minacciarti ancora.

  Altair e Samir continuarono a restare impassibili, malgrado il Rafiq continuasse a supplicare i due contendenti di non distruggergli il giardino, e alla fine Kahled, superate le difese nemiche, appoggiò la lama del coltello alla gola della ragazza, ma il suo sorriso soddisfatto si spense alla vista dello sguardo fiero e sicuro di sé dell’avversaria.

  «Non cambi mai, vero Kahled?» disse, e solo allora il ragazzo si accorse di avere una delle due spade nemiche appoggiata ad un fianco

  «E va’ bene, lo ammetto.» mugugnò allontanandosi «Questa volta hai vinto tu».

  La ragazza rinfoderò le spade e si tolse il copricapo, rivelando un magnifico volto candido circondato da lunghi capelli neri e arricchito da due occhi piccoli e lunghi, un piccolo naso aquilino e gentili labbra minute.

  Come Assassina si chiamava Mira, ma il suo vero nome era Yang Li, e veniva dalle fertili pianure della Cina; figlia di un grande maestro, a soli sette anni era stata catturata nel corso di una razzia compiuta nel suo villaggio, e venduta come schiava era passata di padrone in padrone fino ad arrivare, ormai tredicenne, a Samarcanda, dove, una volta scappata, aveva vissuto i due anni successivi come tanti bambini di strada. Poco tempo dopo era stata trovata dallo stesso Samir, che rimasto colpito dall’abilità e dalla tecnica con cui vinceva combattimenti clandestini contro uomini molto più grandi di lei l’aveva portata con sé a Baghdad, riuscendo a convincere Hasan-i Sabbah a sorvolare sulle sue origini e a concedergli di addestrarla.

  Lei e i due fratelli si erano conosciuti durante l’addestramento, nel periodo che Altair e Kahled avevano trascorso a Baghdad, e fra i tre era nata subito un’intesa molto forte, in particolare con il fratello minore. Kahled era notoriamente troppo orgoglioso per accettare una sconfitta in duello inflittagli da qualcuno che non fosse suo fratello, ma con Mira le cose erano diverse; lei era speciale, e tra i due vi era un sano sentimento di rivalità che li spingeva a misurarsi in amichevoli conflitti al fine di migliorarsi continuamente, ma c’era anche dell’altro, qualcosa che forse due persone di quel tipo potevano esprimere per l’appunto solo confrontandosi, ma i primi a non voler scendere nell’argomento erano proprio loro.

  Liberatasi dell’ingombrante copricapo la ragazza andò a recuperare la sua prima spada, rimasta conficcata nel terreno.

  «E con questa siamo quattro a quattro. Ora ne manca solo una per decidere chi è il migliore».

  «Non sei affatto cambiata, Mira.»

  «Neanche tu, Altair. Sei sempre il solito musone ombroso, tuo fratello invece è sempre il solito sempliciotto prevedibile».

  Kahled rimase rigido come un sasso, e a differenza delle altre volte non riuscì a trovare la forza di rispondere a tono alle provocatorie stoccate della sua amica: e pensare che l’ultima volta che si erano visti le aveva detto, per scherzo naturalmente, che non sarebbe mai stata in grado di diventare una ragazza attraente, invece ora era bella da togliere il fiato.

  «Allora…» riuscì solo a dire «Sei tu il terzo assassino assegnato a questa missione!?»

  «Indovinato. Questa volta lavoreremo insieme.

  Dovresti sentirti onorato di avermi come tua partner.»

  «Ma sentila, la presuntuosa!» esclamò Kahled scendendo finalmente coi piedi per terra «Sei tu che dovresti sentirti onorata di lavorare con noi. Speri forse di poterci reggere il confronto?»

  «Con tuo fratello forse, con te sicuramente sì.»

  «Piccola vipera.»

  «Bene.» disse Samir battendo le mani «Noto con piacere che la cara vecchia atmosfera di un tempo è rinata tutta in una volta. Mi mancavano questi battibecchi.

  Ora però preoccupiamoci di cose serie. Venite, parleremo nel mio studio».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi di nuovo!^_^

Non sapete quanto sia felice di aver incontrato una così calorosa approvazione per questa fiction che, correggendo la precedente affermazione, non sarà composta da 4, ma da sei 6 capitoli, prologo ed epilogo esclusi.

Per quel che riguarda le domande che mi sono state fatte no, Altair non è lo stesso del gioco, e sì, i due hanno qualcosa in comune, ma su cosa sia in realtà lo scoprirete solo alla fine.

Ringrazio le mie due recensitrici, Elika e Saphira, e prometto di aggiornare ancora in breve tempo, ma avendo l’inizio dei corsi a pendere sulla mia testa non so, da lunedì, quanto veloce potrò essere.

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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