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Autore: Zobeyde    28/07/2024    2 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove, inaspettatamente, troverà amore e dannazione.
Solomon Blake: genio, ladro, machiavellico, determinato a compiere la sua vendetta fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo. Non solo nella magia.
Zora Sejdic, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al successo. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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SOLITUDINI

 
 
 
La Panne, 1915
 
 
 
Tom soffriva di terribili emicranie notturne.
Erano iniziate in trincea, e quando Abigail andava a trovarlo per le medicazioni, lo trovava quasi sempre seduto sul bordo del letto, con la canottiera tirata sopra la testa, che si dondolava avanti e indietro. Certe volte gli attacchi erano così forti da provocargli addirittura il vomito:
«Ne sento il sapore in bocca appena iniziano i dolori» le aveva confessato.
I medici lo avevano sottoposto a un esame radiologico, ma a livello clinico non avevano trovato niente che non andava, e a parte somministrargli dei sedativi, non erano in grado di fare molto altro. Così, Abigail inumidiva un panno e glielo stendeva sulla fronte, e questo lo aiutava un po’. Ma c’erano notti in cui non bastava, e Abigail poteva solo condividere con lui quelle ore sedendogli accanto e massaggiandogli la nuca, mentre Tom si teneva la testa tra le mani e gemeva, con gli occhi iniettati di sangue e il naso che colava.
Durante il giorno, invece, cercava di rendersi utile come poteva: i soldati in licenza venivano incaricati di provvedere alla distribuzione della posta, di fare da staffetta tra le retrovie e la trincea, oppure aiutare con la manutenzione dell’ospedale e la cura dell’orto, e non appena Tom fu in grado di muoversi autonomamente chiese di potervisi dedicare tra una seduta di fisioterapia e l’altra. Se c’era poi qualche piccola riparazione da fare, era il primo a offrirsi; ad Abigail piaceva la grande premura che infondeva in tutto ciò che faceva, che si trattasse di piantare patate, o di rimettere in funzione una vecchia radio, oppure di far ripartire un furgone. Vi leggeva il suo stesso desiderio di agire, di non lasciarsi sopraffare dalle avversità e dalle limitazioni imposte dalla vita.
Abigail gli rimase accanto durante tutta la convalescenza. Nelle ore libere, lo accompagnava in lunghe passeggiate sulla spiaggia; il più delle volte Tom si rifiutava di lasciarsi spingere in carrozzina, e preferiva zoppicare lentamente al suo fianco. Quando si stancava, sedevano tra le dune a guardare l'incessante corsa delle onde, e parlare delle loro vite prima del fronte. Tom le raccontava della sua infanzia a Limerick, del duro lavoro in fabbrica e della sua famiglia, dei bisticci tra le sue due sorelle minori, Claire e Siobhán, delle canzoni popolari che sua madre intonava mentre stendeva il bucato in cortile, e del delizioso stufato di manzo che suo padre cucinava il giorno di San Patrizio. E talvolta, anche delle scorribande assieme a James.
Abigail sapeva quanto fosse doloroso affrontare l’argomento, ma era straordinario il modo in cui il volto di Tom si trasformasse ogni volta che lo nominava; sembrava che le settimane trascorse in prima linea lo avessero invecchiato di almeno dieci anni, ma bastava il ricordo di James Finnegan e dei momenti spensierati trascorsi insieme per restituirgli tutto in una volta il sorriso e la giovinezza.
La spontaneità con cui lui aveva deciso di aprirsi così con lei spinse Abigail a mettere pian piano da parte le sue paure e a raccontargli a sua volta qualcosa di sé. All’inizio cercava di restare sul vago, ma Tom si dimostrava talmente curioso e la sua espressione mentre le poneva domande era così genuinamente ricca di stupore, che presto iniziò a scendere più nel dettaglio:
«Non so di preciso quanti maghi vivano ad Arcanta. Ma le sue mura furono incantate mille anni fa per potersi modellare a seconda di quanto cresca la popolazione» gli raccontò. «C’è un grande fiume che l’attraversa, proprio come Limerick. E ogni casa possiede almeno un’arnia. Le api sono il simbolo di Arcanta, perciò le strade ne sono piene.»
«Api» aveva ripetuto Tom, sorridente e incredulo. «Assurdo, sono insetti così banali!»
«Una leggenda vuole che i maghi che fondarono Arcanta fossero stati guidati nella valle da uno sciame di api» spiegò Abigail. «Ma ci vivono molte altre creature: alla fine del Seicento, uno stregone adottò l’ultima coppia di dodo sopravvissuta dalle isole Mauritius: col tempo sono diventati una piccola comunità, e ormai scorrazzano liberi per l’Arboreto del Parnaso. Sono simpatici, ma anche un po’ invadenti. E poi ci sono i velodraghi…»
Alla parola drago Tom aveva iniziato a nutrire il sospetto che Abigail si stesse prendendo gioco di lui. «Draghi… come no! E magari li cavalcate anche.»
«Be’, no. Sarebbe un modo alquanto scomodo di viaggiare. Però li usiamo per trainare le carrozze.»
Di fronte all’estrema semplicità con cui Abigail gli parlava di cose che per persone come lei erano la normalità, mentre per quelle come lui erano più vicine alla leggenda, Tom rimase interdetto qualche istante, rivolgendo uno sguardo pensieroso al mare. «Be’, ha senso» decise alla fine, dopo averci riflettuto su a sufficienza. «C’è un luogo che ami più degli altri?»
Abigail non ebbe nessuna esitazione a rispondergli: «La Biblioteca della Cittadella! Un’immensa torre dove è raccolto l’intero patrimonio di conoscenze della nostra gente! Libri di storia, alchimia, filosofia, magia curativa! E gli Arcistregoni la arricchiscono ogni anno di nuovi testi rari.»
«Arcistregoni? E cosa sono?»
Abigail fece del suo meglio per spiegarlo in maniera semplice: «Be’, sono maghi estremamente potenti, incaricati di esplorare il Mondo Esterno, spesso esponendosi a grandi pericoli. Hanno anche delle accademie, ma solo Una Duval e Boris Volkov accolgono le ragazze.»
«Tu hai studiato lì?»
Abigail scosse mestamente il capo. «Mio padre non me lo ha mai permesso. Per lui è inutile che le donne abbiano un’istruzione magica.»
«Ma avresti voluto, giusto?» chiese Tom. «Entrare in una di queste accademie.»
A quel punto, Abigail era arrossita. «Be’, sì. Mi sarebbe piaciuto diventare allieva di Solomon Blake, ma una delle poche cose che ha in comune con mio padre è l’opinione sulle donne. Ed è un peccato, perché è davvero un grande mago! Brillante, coraggioso e…»
Un sorrisetto malizioso increspò le labbra di Tom. «Ti eri presa una bella cotta, eh?»
Sempre più rossa in faccia, lei dovette ammettere le sue colpe: «Be’, eravamo tutte un po’ cotte di lui. Ma è comunque troppo vecchio per me!»
Continuarono così, a scambiarsi domande e risposte, e mentre tracciava con il dito disegni sulla sabbia umida, dalle labbra di Abigail cadevano pensieri, desideri e preoccupazioni che non aveva mai osato confessare a nessuno; il complicato rapporto con suo padre, la frustrazione di non essere mai stata presa sul serio da lui, l’incolmabile vuoto interiore che sentiva al centro del petto da quando aveva perduto i poteri. Per la prima volta si sentiva libera di mostrarsi per ciò che era, con le sue vulnerabilità e insicurezze, perché sapeva che Tom non l’avrebbe giudicata. E mentre proseguiva coi suoi racconti, scoprì quanto disperatamente avesse bisogno di condividere con qualcuno l’intricato groviglio di sentimenti che ancora la teneva legata alla magia e ad Arcanta.
«Ti manca?» le chiese Tom, cogliendo la malinconia che aveva oscurato i suoi occhi.
Per una volta, Abigail scelse di essere onesta con sé stessa prima che con lui: «Sì. Ci sono giorni in cui mi manca persino mio padre.»
Considerando che era proprio suo padre il motivo per cui era scappata e tutto il dolore che le aveva procurato, ciò aveva dell’assurdo. Ma per quanto Abigail potesse essere in collera con lui, per quanto credesse di odiarlo, Tibor Blackthorn le aveva dato una lezione di vita importante: privarla della magia le aveva fatto capire cosa fosse davvero la solitudine.
«Per un mago, la peggior forma di punizione è che venga reciso il suo legame con il Tutto» mormorò. «Per questo la chiamano Mutilazione: è un incantesimo così terribile e potente che solo i Decani sono autorizzati a praticarlo. Chi lo subisce è esiliato per sempre dalla comunità magica, e destinato a perderne gradualmente ogni ricordo.»
C’erano giorni in cui quel pensiero le schiacciava i polmoni come una pressa d’acciaio: Arcanta sarebbe sempre stata là, come aveva fatto da più di mille anni, con le sue ipocrisie e le sue contraddizioni, ma Abigail non l’avrebbe rivista mai più.
«Non è tanto l’impossibilità di usare la magia a far male» confessò. «È l’isolamento…sentirsi tagliati fuori dal proprio mondo per sempre. I maghi Decaduti sono come orfani.»
Tom ascoltò con attenzione, senza interromperla.
«Secondo mio padre, non sono più degna essere una maga» proseguì Abigail, combattendo contro le lacrime. «Perché aiutando i Mancanti ho scelto di voltare le spalle alla mia gente, alle sofferenze che ha patito in passato. Forse, non ha tutti i torti: se non sono riuscita a trovare il mio posto ad Arcanta, significa che in me deve esserci qualcosa di sbagliato.»
Le parole iniziavano a venir fuori con difficoltà, pesanti come macigni, e a quel punto Tom si chinò su di lei e posò le labbra sulle sue. Abigail sentì un incendio divamparle nel basso ventre, come ogni volta che lui la sorprendeva con quegli slanci di tenerezza impulsivi e un po’ maldestri, a cui ancora non riusciva ad abituarsi. Chiuse gli occhi, si abbandonò a quel meraviglioso caos che la scombussolava dalla testa ai piedi, e null’altro al mondo le sembrò più importante.
Quando si separò da lei, gli occhi grigi di Tom si fissarono nei suoi con intensità.
«In te non c’è niente di sbagliato» le disse con voce ferma e ruvida. «Hai servito una causa che ritenevi giusta, salvato molte vite. Non so nulla di magia, Abby, ma credo che il tuo sacrificio valga più di tutti i libri di incantesimi, e i draghi e le cose straordinarie che ci sono lì ad Arcanta.»
Abigail sorrise. Avrebbe voluto potergli credere, lo desiderava con tutto con tutto il suo cuore. Accarezzò il viso del ragazzo con dolcezza e tornò a rivolgere l’attenzione al mare, la mano di Tom stretta nella sua.
 
 
Una mattina, a tre settimane dal suo ricovero all’Océan, Tom ricevette la visita del colonnello Schofield, che era subentrato al posto di Mackenzie nella guida del Secondo Devonshire dopo il fallimentare assalto a Bellewaerde.
Schofield chiese a Tom di poter parlare privatamente, e Abigail li sbirciò da una finestra mentre passeggiavano insieme nel frutteto dietro l’ospedale; il colonnello camminava con la schiena dritta e le mani dietro la schiena, come se fosse in marcia, e Tom si sforzava di adeguarsi al suo passo senza trascinare la gamba lesa.
A un certo punto, Schofield gli consegnò una busta insieme a un oggetto luccicante, poi gli rivolse un formale saluto militare e girò i tacchi per accomiatarsi. Tom rimase solo nel frutteto per diversi istanti, a rigirarsi tra le dita quella che sembrava una semplice piastrina d’argento. Alla fine, la gettò oltre il muro e se ne andò via anche lui zoppicando.
 

Non si fece vedere per tutto il giorno.
Non si presentò alla seduta di riabilitazione, e nessuno dei suoi compagni sapeva dove fosse andato. Preoccupata, Abigail lo cercò in lungo e in largo, in ospedale, alla caserma, e per l’intera cittadina balneare. Alla fine, a pomeriggio inoltrato, trovò Tom in una vecchia rimessa per le barche, solo, intento a smontare e a pulire il suo fucile alla luce di una lanterna a gas, seduto di spalle contro uno scafo.
«Mi hanno dato il congedo permanente.»
Abigail si fermò a qualche passo da lui, interdetta. «Oh.»
«Secondo Schofield ho assolto il mio dovere verso l’Inghilterra» disse Tom senza alzare lo sguardo, mentre spingeva lo scovolino di bronzo all’interno della canna. «Dice che sordo da un orecchio e storpio come sono, non sarò più di nessuna utilità sul campo. Mi ha consegnato una stupida medaglia, i ringraziamenti di Sua Maestà, e tanti cari saluti.»
Abigail non seppe come reagire alla notizia. Dentro di sé, era enormemente sollevata, ma sapeva cosa significasse per un soldato venire considerato inadatto a combattere, dopo tutti i sacrifici fatti per servire il proprio Paese. Aveva già visto quell’espressione piena di amarezza dipinta sul volto di tanti reduci. «Hai già informato i tuoi genitori?» preferì domandare.
Tom tirò un profondo sospiro, mentre passava a intingere lo scovolo nel solvente per acciaio. «Per dirgli cosa? “Cari mamma e papà, d’ora in avanti avrete un invalido in famiglia?”»
«Saranno di sicuro felici e grati di riaverti a casa» replicò Abigail, convinta. «E col tempo la gamba potrebbe migliorare. I dottori non lo hanno escluso.»
Lui emise una breve risata sarcastica. «Certo. Vaglielo a spiegare tu al mio caposquadra all’acciaieria! Perderò il lavoro, e trovarne un altro messo così sarà praticamente impossibile…»
«Tom.» Abigail si sedette accanto a lui. «Lo so che non sarà facile, che hai perso tanto. Ma ti è stata data una seconda opportunità, che molti non avranno mai.»
Tom tacque, gli occhi fissi sulla canna del fucile. «James l’avrebbe meritato più di me. Aveva dei progetti per il futuro, voleva studiare, diventare un dottore. Io non ho nessun diritto di tornarmene in Irlanda con una medaglia, mentre lui marcisce qui, in questa terra maledetta …»
«Ne hai diritto eccome.» Abigail fece scivolare le dita tra le sue. «James ha dato la sua vita perché tu potessi rivedere l’Irlanda. Lo ha fatto perché ti voleva bene, perché credeva che tu meritassi di vivere in pace.»
«E che genere di vita mi aspetta?» fece Tom, con voce roca. «Da storpio, ai margini della società...?»
«Sei giovane e pieno di risorse» ribatté Abigail ostinata. «E hai una casa e una famiglia che ti aspetta. C’è ancora tanto per cui vale la pena vivere, credimi.»
Tom sospirò ancora e mise da parte il fucile, con gesti lenti e calibrati, quasi premurosi. Quando tornò a voltarsi, guardò Abigail dritto negli occhi mentre poneva delicatamente le mani ai lati della sua testa. Adesso si trovarono fronte contro fronte, naso contro naso, e lei sentì sulle labbra il calore del suo alito. Tom sussurrò qualcosa, qualcosa che Abigail non riuscì a capire, e poi, tutt’a un tratto, si ritrovò stretta tra le sue braccia.
Quel che avvenne dopo tra loro fu così travolgente da darle le vertigini. In qualche modo, si trovò sdraiata al fianco di Tom, in quell’abbraccio sempre più serrato e smanioso. Abigail sentiva il pavimento freddo e umido di salsedine sotto la schiena, la pressione del petto di Tom, l’ampiezza delle sue spalle, il calore emanato dalla sua pelle sotto i vestiti; lo tirò su di sé, aiutando il corpo di lui a scivolare sopra il suo, ma quando lo sentì lamentarsi debolmente, si ricordò della gamba ferita.
«Scusa…» iniziò, ma lui la baciò ancora, con urgenza e desiderio, e tutto il resto perse importanza. Le mani di Tom erano forti, ruvide e callose, mani da operaio e da soldato, ma la toccavano con delicatezza, accendendo mille scintille di desiderio sul suo corpo, spingendola a tirarlo ancora di più a sé. Era tutto così nuovo e sconosciuto, eppure non c’era alcuna incertezza nei suoi gesti, mentre gli rimuoveva l’uniforme e gli sfilava la canotta da sopra la testa, e poi seguiva con le dita i contorni dei suoi muscoli. Solo quando fu lui a sbottonarle la camicetta, Abigail si irrigidì, vergognosamente consapevole di tutti i suoi difetti; la pelle pallida e asciutta, le ossa sporgenti, i seni troppo piccoli, i fianchi stretti…
Leggendo incertezza nei suoi occhi, Tom le prese il viso tra le mani, seguendo col pollice la linea delle sue labbra. «Sei bellissima.» E lei capì che era tutto ciò di cui aveva bisogno.
Lo attirò a sé, sentendolo rabbrividire quando i loro corpi si incontrarono, senza più nulla a spararli, finché il bisogno tra loro si fece intenso e nervoso, come un arco teso fino allo spasimo.
Alla fine, rimasero abbracciati contro il fianco di una barca, coperti solo da un telo di fortuna. Affannati, storditi, con addosso l’uno l’odore dell’altro, senza riuscire a trovare parole adatte ad esprimere ciò che avevano appena condiviso.
«Parti insieme a me» disse Tom, la voce arrochita dal lungo silenzio.
La testa appoggiata al suo petto, Abigail sollevò lo sguardo, incredula. «Tu…vuoi che venga in Irlanda?»
«Sei l'unica cosa buona che questa guerra mi ha portato» rispose lui, accarezzandole i capelli. «La sola che desideri avere con me.»
Abigail non sapeva cosa dire. Sentiva il cuore batterle all’impazzata, mille pensieri che le affollavano la testa. «Io…»
«Parti insieme a me, Abigail» chiese di nuovo lui, e nei suoi occhi lei vi lesse una profonda determinazione, adamantina e sincera. «Diventa mia moglie. Se è vero che mi è stata donata una seconda occasione, che posso ancora essere felice, voglio poterla condividere con te. So che non ho molto da offrire…»
Tom continuò a parlare e a farle promesse, e Abigail sentì una gioia incontenibile riempirle il petto. Ecco, era quello il senso di un’esistenza priva di magia, ciò che spingeva quegli uomini e quelle donne a rischiare la propria vita ogni giorno, consapevoli di quanto fosse effimera: l’incessante desiderio di pace, di una casa a cui tornare, qualcuno sempre pronto ad accoglierli…
Questo potrebbe essere anche il mio futuro. Potrebbe essere il nostro futuro.
Ma c’erano ancora dei vincoli che non poteva ignorare, impegni presi verso l’ospedale, persone che avevano ancora bisogno di lei. La guerra non era ancora finita, e chissà quanto altro dolore avrebbe seminato…
«Io…» All’improvviso, sentì il peso di quelle responsabilità sopraffarla, insieme al bisogno di allontanarsi da Tom, di evadere da quel sogno a occhi aperti durato troppo a lungo. Si alzò in piedi, cominciò a raccogliere freneticamente i vestiti sparsi sul pavimento. «Perdonami, devo andare.»
«Aspetta, Abigail! Non volevo turbarti…»
«Non mi hai…» Lei sospirò, si passò una mano tra i capelli. Il sangue le pulsava nel ventre, negli occhi, nelle ossa. «È solo che…ci…ci devo pensare.»
Lui la guardò un’ultima volta, intensamente, e seppe che aveva capito.
 
Abigail si sentì combattuta tra desideri e responsabilità per il resto della giornata. Tom non le mise pressione, anzi, le lasciò tutto lo spazio di cui aveva bisogno, ma in cuor suo lei sapeva che meritava di ricevere una risposta al più presto. Così, decise di chiedere un parere esterno. Non a Gwen, perché sapeva già che l’avrebbe spinta a partire senza alcuna esitazione. No, le serviva l’opinione di qualcuno in grado di parlarle con brutalità e schiettezza, perciò appena ebbe un momento libero, si mise in cerca di Fanny Bouchard.
La trovò seduta sui gradini del porticato, a fumare una sigaretta.
«Tom come sta?» si informò, appena Abigail ebbe preso posto al suo fianco.
«Meglio. I suoi superiori gli hanno concesso di tornare a casa.»
Fanny annuì, la testa bionda avvolta in una voluta di fumo. «E tu, come stai?»
Abigail prese un profondo respiro, senza neanche sapere da che parte cominciare. In silenzio, Fanny le passò la sigaretta, e malgrado non avesse mai fumato in vita sua, lei l’accettò. Fece un tiro, tossì, respinse il conato che le era salito in gola. «Mi ha chiesto di partire insieme a lui. Dice…dice che vuole sposarmi.»
Fanny tacque per un lungo momento, lo sguardo freddo e lontano. «Accetterai?»
«Non lo so» ammise lei. «La fine della guerra è ancora lontana. Non posso andarmene mentre qui c’è ancora gente che ha bisogno di me…»
«Ci sarà sempre gente bisognosa di cure, a prescindere dalla guerra. Ma la vera domanda è: tu di cosa hai bisogno?»
Abigail la guardò, interdetta. «Ecco…»
«Se siamo venute qui è perché abbiamo sentito dentro di noi che era la cosa giusta da fare» disse Fanny, la voce perfettamente calma. «Ma le cose possono sempre cambiare. Tu puoi sempre cambiare.»
«Voglio ancora fare la mia parte» replicò Abigail con slancio. «Voglio essere utile…»
«Potrai farlo ovunque. Anche in Irlanda. Credi che malattie e pazienti sofferenti lì non ci siano?»
«Lo so, ma…»
Fanny sembrò perdere la pazienza. «Ascoltami, Thorn: tu non sei speciale come credi, e di sicuro non sei una martire. Sei solamente una donna, giovane e con tutta una vita davanti a sé. E se questo ragazzo può renderti felice, avete il dovere sacrosanto di salire su una fottuta nave e andarvene finché potete!»
Quelle parole la spiazzarono. «Il primo giorno che venni qui, credevi che questa missione per me fosse un capriccio. E adesso, invece…»
«Ho capito che non lo è mai stato» rispose lei, brusca. «E anche che se siamo qui a sporcarci le mani, è per garantire ad altri di poter vivere in pace, un giorno.»
Abigail sbatté rapidamente le palpebre, sorpresa e commossa. «Grazie.»
«Non ringraziarmi» ribatté Fanny. Esitò, e dopo un momento, aggiunse: «Avrei voluto dirlo anche a James. Ma non c’è stato tempo.»
Abigail la guardò, sentì un sospiro tremante risalire dal suo petto, mentre i suoi occhi azzurri si riempivano di lacrime.
«Era troppo giovane» sussurrò. «Non doveva andarsene così…»
Abigail non disse niente. Fece scivolare il braccio attorno alle sue spalle e Fanny piegò la testa contro la sua spalla. Rimasero così per diversi minuti, sostenendosi l’una all’altra, sotto un cielo terso e silenzioso.
  
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