CAPITOLO TRE
EDWARD HALE
EDWARD HALE
La ragazza li seguiva senza parlare, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Edward e Ian si guardavano di sottecchi cercando di cogliere ogni minimo segnale.
Le luci al neon dei corridoi deserti conferivano al suo viso qualcosa di misterioso, quasi inquietante e se Jill non avesse assicurato loro che grazie al chip impiantatole nel cervello non era in grado di nuocere nemmeno a una mosca, avrebbero girato armati, con le pistole puntate sulla sua schiena, conficcate nelle costole. I suoi occhi erano dello stesso colore di quando si era risvegliata e continuavano a brillare di una strana luce vermiglia anche nell’oscurità. Era come guardare l’orizzonte infuocato sul ciglio di un baratro oscuro, di cui non si vedeva il fondo se non cadendoci dentro, e la cosa che più metteva Edward e Ian a disagio era quella strana increspatura che le si disegnava sulle labbra quando sembrava in procinto di dire qualcosa.
Edward sapeva che se solamente si fosse soffermato a guardarla più di quanto la cortesia imponesse, avrebbe rischiato di cadere in soggezione. Procedeva senza esitazione lungo il corridoio e manteneva i sensi all’erta, chiedendosi come avrebbe fatto a dormire sapendola in circolazione a pochi metri da lui. Meglio non prendere confidenza con elementi del genere, ma A1 ‒ Jill aveva denominato così il suo esperimento, ma Edward non aveva ben compreso se si trattava del chip o della ragazza stessa ‒ era in una specie di fase di rodaggio, quindi Jill aveva chiesto loro di concederle il beneficio del dubbio fino a quando non si fosse dimostrata idonea alla loro approvazione. Causa persa, collega, pensò Edward, ma era più sicuro tenere i pensieri per sé.
Ian, che doveva pensarla in un modo leggermente diverso ‒ se per diverso si intendeva con disprezzo e istinto omicida ‒ si sforzava di mantenere un atteggiamento se non contegnoso, quantomeno docile. Si fingeva quasi annoiato, ma Edward lo conosceva talmente bene da poter affermare che il sangue che gli scorreva nelle vene si era trasformato in veleno. Procedeva sicuro di sé, come sempre, ma le mani strette in pugni nelle tasche dei pantaloni lo tradivano.
Quando arrivarono alla stanza che fungeva da biblioteca, Ian fece cenno a Edward di aprire la porta per far sì che la ragazza entrasse per prima. Non per cortesia, non sia mai, ma per precauzione. Se A1 avesse tentato la fuga, l’unica possibilità che aveva sarebbe stata quella di tornare indietro verso il laboratorio di Jill e, da quell’angolazione, loro due potevano tenere la situazione sotto controllo fino a quando non si fossero chiusi all’interno. Contrastare ogni eventuale mossa offensiva ancora prima che si attui, pensò Edward.
«Prego». Edward aprì la porta e le fece cenno di entrare.
Gli occhi di A1 saettarono nei suoi e Edward, nonostante avesse deciso di non volerla guardare, avvertì un brivido lungo la schiena in grado di sconquassare tutto il suo essere.
«Grazie, Edward Hale».
Ian sghignazzò. «Il mostriciattolo conosce le buone maniere», disse, poi la seguì.
Edward chiuse la porta con un doppio scatto della serratura e si fece scivolare la chiave in tasca. «A1?» fece. «Saresti in grado di cercarti un nome da sola in mezzo a tutti questi libri? Ce ne sono abbastanza da tenerti impegnata per un paio d’ore».
La ragazza annuì, ma non si volse. I suoi occhi si guardavano attorno quasi con avidità, come se non avesse mai visto un paio di libri buttati alla rinfusa su alcuni scaffali impolverati.
«Io e Ian aspetteremo nell’altra stanza», continuò Edward, poi seguì Ian nella stanza adiacente. Avrebbero potuto tenerla sotto controllo dai vetri che li separavano dalla biblioteca perché quasi tutte le stanze avevano modo di comunicare tra loro. A volte era una fortuna, altre un fastidio e, come spesso e volentieri soleva dire Ian, Jane non si sentiva a suo agio nemmeno a dargli un bacio casto sapendo che Dom avrebbe potuto scostare le tende e godersi lo spettacolo.
«Cosa pensa di concludere Jill con lei?» chiese Ian, lasciandosi pesantemente cadere sulla poltrona più comoda.
Edward non sapeva cosa rispondere. Le vere intenzioni di Jill gli erano sconosciute e, nonostante continuasse a rimuginare sul motivo nascosto di tanto zelo nel volersi prendere cura di una creatura simile, non riusciva a venire a capo di nulla. «Non sono tutti uguali», disse, anche se lui stesso non ne era pienamente convinto.
«Oh, andiamo», sbottò Ian. «Non ti procura nessun fastidio sapere che respira come noi? Che sia, in qualche modo, simile a noi?»
Edward si strinse nelle spalle. «Siamo noi, quelli armati, qui dentro. E, se non lo hai notato, è alta quanto un soldo di cacio».
«Potrebbe arrostirti allo spiedo con uno schiocco delle dita, Hale».
Edward lo guardò da sopra la spalla. Se il suo elemento era davvero il fuoco, si chiese quanto tempo avrebbe impiegato a sciogliere il chip per tornare ad essere nuovamente padrona del suo corpo. Nemmeno Jill era in grado di costruire qualcosa di così altamente resistente, ma ci sperò con tutto sé stesso. «Jill ha in mente qualcosa». Edward mise le braccia conserte e si appoggiò con la spalla al vetro. «Ma ancora non riesco a capire cosa». La stanchezza minacciava di sopraffarlo e i suoi occhi bruciavano per il sonno, richiedendo l’oscurità. Pensò con desiderio al letto che lo attendeva in camera sua, anche un angolo del pavimento andava benissimo, ma avrebbe dovuto pazientare ancora un po’ prima di riportare la ragazza da Jill. Gliel’aveva lasciata in custodia solo per poco, giusto il tempo di trovarle un nome che le si addicesse, invece di quello freddo e senza senso che le aveva affibbiato lei. Anzi, ad essere onesti, non gliene fregava poi molto.
Quando Ian cominciò a russare, Edward guardò il suo orologio e vide che la lancetta delle ore era ferma sul tre. Era passato troppo tempo da quando erano entrati lì dentro ed era meglio affrettarsi. Raggiunse A1 e si fermò alle sue spalle.
«Edward Hale», disse la ragazza, facendolo sussultare. «Il mio compito giunge al termine».
«Hai trovato qualcosa di carino?» le chiese.
«Non penso che la concezione di “carino” sia uguale per entrambi».
Edward abbassò lo sguardo sul suo viso, l’increspatura delle labbra suggeriva che fosse sul ciglio di aggiungere qualcosa, ma non lo fece. Gli occhi, fissi e saldi in quelli di Edward come se non avvertisse un minimo di soggezione, nonostante fosse simile a un topo in gabbia, sprigionavano un’energia tale da lasciargli un vago sentore di stordimento, che Edward scacciò velocemente ricordando a sé stesso con chi avesse a che fare. Per un istante si chiese come dovesse essere vederla sorridere, ma cancellò il pensiero nel momento in cui nelle sue pupille intravide una scintilla rovente spingere per farsi strada.
«Siediti, Edward Hale».
Edward provò un leggero imbarazzo, una piccola parte di lui avrebbe voluto acconsentire ma era meglio non mostrarsi docili. «No, preferisco così». La ragazza rimase interdetta, forse aspettandosi un accenno di accondiscendenza, ma Edward era ben lungi dal volersi concedere. Poi, come se niente fosse, gli indicò un nome. «Phoenix», disse Edward. «Mi sembra perfetto».
«Niente deve essere tale quando si tratta di me», disse Phoenix. «Non sono meritevole di perfezione, Edward Hale».
Edward reagì spazientito, ma se ne rese conto solo quando vide un tentennamento in lei. Si ricompose schiarendosi la gola con un colpo di tosse, chiedendosi se il chip impiantatole nel cervello comandasse ogni sua emozione. Evidentemente Jill aveva pensato a tutto tranne che a rendere neutre quest’ultime. Edward avrebbe dovuto prenderne atto. «Perché non mi chiami semplicemente Edward?» fece, scostando la sedia per sedersi. «Questa cosa mi fa sentire vecchio».
«Tu sei il mio tutore», rispose Phoenix, fissandolo. «Tu, Jillian Camden e Ian Dawson».
«A noi piacciono le cose semplici. Quindi ti ordino, d’ora in poi, di usare solo i nostri nomi di battesimo. Per quanto riguarda me e Ian, ovviamente. Per Jill non so, parlane con lei, ma sono sicuro non rifiuterà. Ora puoi alzarti e rimettere a posto il libro, così poi ce ne andremo a dormire».
Phoenix annuì e si alzò. Mise il libro sullo scaffale e cominciò a sistemare anche i volumi accanto.
«Non serve che tu ti prenda il disturbo di farlo», osservò Edward, alzandosi e inarcando la schiena indolenzita. «Nessuno legge questi libri da tanto tempo».
«Questa logica mi calma, Edward Hale».
«Edward», la corressi.
Ma all’improvviso si rese conto che non avrebbe dovuto farlo, perché la reazione di Phoenix lo spaventò. La vide voltarsi velocemente, con uno scatto felino. Nel suo sguardo c’era paura, adesso, cosa che non aveva ancora visto e la cosa lo metteva alquanto a disagio. Le sue iridi cominciarono a tingersi di un rosso sempre più acceso, liquido. Edward pensò che doveva assolutamente dire a Jill che il software che la guidava aveva bisogno di una piccola revisione, altrimenti avrebbe faticato parecchio a portare a termine il suo compito. Alzò le mani in segno di resa, cercando di trasmetterle tutto il suo rammarico.
«Mi dispiace», ammise. «Non pensavo di creare tutto questo trambusto. Ora calmati, puoi chiamarmi come meglio credi, se la cosa è di tuo gradimento». Tutto fuorché quello sguardo da animale in trappola, io non sono un carnefice, si ritrovò a pensare.
«Non revocare un ordine così diretto», disse Phoenix. Era indietreggiata fino a nascondersi nell’ombra degli scaffali, dove la debole luce dei neon sul soffitto non riusciva ad arrivare.
Edward riusciva a scorgere i lineamenti del suo viso solo grazie al bagliore surreale che scaturiva dai suoi occhi. Questi esseri ‒ umani come noi, certo, ma un tantino diversi, pensò ‒ avevano qualcosa di dannatamente ammaliante. Terribile sì, malefico a volte, ma comunque spettacolare. Ian la pensava in modo completamente diverso, ma doveva convenire con lui che le loro doti fossero straordinarie. E non tutti erano pericolosi secondo Edward, ma vai a farglielo capire. Il rosso scarlatto che colorava lo sguardo di Phoenix non aveva niente di così malvagio come sosteneva Ian, ma lui sapeva che se avesse potuto non si sarebbe fermata solo a quello.
«Bene», disse, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, quando intravide i lineamenti del viso di Phoenix distendersi leggermente. «Ora possiamo andare a dormire. Dove dormi, di solito? Nello studio di Jill?»
«Sì», rispose Phoenix, avanzando fino a uscire dall’ombra.
«D’accordo, allora chiederò a Jill una sistemazione migliore. Se devo essere il tuo tutore, tanto vale fare le cose per bene. E il nostro primo lavoro sarà arredare una camera da letto apposta per te», fece Edward, incamminandosi verso la stanza adiacente. «Ora andiamo a svegliare Dawson, che russa peggio di un orso».
«Edward».
Edward si volse, incuriosito. «Sì?»
«La barella va benissimo».
Edward fece un gesto vago con la mano, come a voler scacciare un insetto. «Sciocchezze. Seguimi».
Ian dormiva della grossa. Edward gli sferrò un calcio allo stinco quel tanto che bastava per svegliarlo e Ian, di tutta risposta, balzò in piedi più vigile che mai. «Cosa succede? Il mostriciattolo è fuggito?»
«Non potrei mai», disse Phoenix, facendo un passo indietro, come se volesse nascondersi dietro Edward.
Con nonchalance, Edward spostò il peso sui talloni in modo da coprirla quel poco che necessitava a farla sentire al sicuro, anche se era fermamente convinto che la situazione non lo richiedeva. Ian impiegò qualche secondo di troppo per metterla a fuoco, forse prendendosi del tempo per studiare la sua reazione. «I suoi occhi hanno cambiato colore», disse, ammiccando verso di lei.
Edward si volse e notò con stupore che il rosso scarlatto degli occhi di Phoenix era migrato verso un colore simile al cioccolato al latte appena tolto dal fuoco. Mancava solo un cucchiaino di zucchero per addolcire il tutto, ma la sua mente lo prese a schiaffi per averci anche solo pensato.
«Da cosa dipende?» le chiese, schiarendosi la gola, cercando di nascondere il senso di imbarazzo che lo aveva attanagliato. Imprecò tra sé e sé.
Phoenix si strinse nelle spalle. «Presumo mi stia abituando a voi».
Ian osservava la scena con fare criptico, ma Edward rimase interdetto.
«Fantastico», disse Ian, con sarcasmo, alzando gli occhi al cielo.
Edward lo fulminò con lo sguardo. «Cosa ne dici di portare la tua carcassa fuori di qui e andartene a dormire? E’ tardi, per i mocciosi».
«Non farti addomesticare, Hale», disse Ian, con uno sguardo che non ammetteva repliche. «Anzi, non permetterle di fotterti». Poi, lanciando un’ultima occhiataccia a Phoenix come se volesse inchiodarla sul posto, avvertendola di non azzardarsi nemmeno a pensare di fare un passo falso, si incamminò verso la porta. Estrasse dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi, fece scattare la serratura e uscì nel corridoio. Edward lo seguì con lo sguardo fino a che non voltò a sinistra, svanendo nell’oscurità. Non lo permetterò, pensò, tornando a guardare Phoenix, ma si chiese cosa gli avesse messo Jill tra le mani. O peggio, chi.
Le luci al neon dei corridoi deserti conferivano al suo viso qualcosa di misterioso, quasi inquietante e se Jill non avesse assicurato loro che grazie al chip impiantatole nel cervello non era in grado di nuocere nemmeno a una mosca, avrebbero girato armati, con le pistole puntate sulla sua schiena, conficcate nelle costole. I suoi occhi erano dello stesso colore di quando si era risvegliata e continuavano a brillare di una strana luce vermiglia anche nell’oscurità. Era come guardare l’orizzonte infuocato sul ciglio di un baratro oscuro, di cui non si vedeva il fondo se non cadendoci dentro, e la cosa che più metteva Edward e Ian a disagio era quella strana increspatura che le si disegnava sulle labbra quando sembrava in procinto di dire qualcosa.
Edward sapeva che se solamente si fosse soffermato a guardarla più di quanto la cortesia imponesse, avrebbe rischiato di cadere in soggezione. Procedeva senza esitazione lungo il corridoio e manteneva i sensi all’erta, chiedendosi come avrebbe fatto a dormire sapendola in circolazione a pochi metri da lui. Meglio non prendere confidenza con elementi del genere, ma A1 ‒ Jill aveva denominato così il suo esperimento, ma Edward non aveva ben compreso se si trattava del chip o della ragazza stessa ‒ era in una specie di fase di rodaggio, quindi Jill aveva chiesto loro di concederle il beneficio del dubbio fino a quando non si fosse dimostrata idonea alla loro approvazione. Causa persa, collega, pensò Edward, ma era più sicuro tenere i pensieri per sé.
Ian, che doveva pensarla in un modo leggermente diverso ‒ se per diverso si intendeva con disprezzo e istinto omicida ‒ si sforzava di mantenere un atteggiamento se non contegnoso, quantomeno docile. Si fingeva quasi annoiato, ma Edward lo conosceva talmente bene da poter affermare che il sangue che gli scorreva nelle vene si era trasformato in veleno. Procedeva sicuro di sé, come sempre, ma le mani strette in pugni nelle tasche dei pantaloni lo tradivano.
Quando arrivarono alla stanza che fungeva da biblioteca, Ian fece cenno a Edward di aprire la porta per far sì che la ragazza entrasse per prima. Non per cortesia, non sia mai, ma per precauzione. Se A1 avesse tentato la fuga, l’unica possibilità che aveva sarebbe stata quella di tornare indietro verso il laboratorio di Jill e, da quell’angolazione, loro due potevano tenere la situazione sotto controllo fino a quando non si fossero chiusi all’interno. Contrastare ogni eventuale mossa offensiva ancora prima che si attui, pensò Edward.
«Prego». Edward aprì la porta e le fece cenno di entrare.
Gli occhi di A1 saettarono nei suoi e Edward, nonostante avesse deciso di non volerla guardare, avvertì un brivido lungo la schiena in grado di sconquassare tutto il suo essere.
«Grazie, Edward Hale».
Ian sghignazzò. «Il mostriciattolo conosce le buone maniere», disse, poi la seguì.
Edward chiuse la porta con un doppio scatto della serratura e si fece scivolare la chiave in tasca. «A1?» fece. «Saresti in grado di cercarti un nome da sola in mezzo a tutti questi libri? Ce ne sono abbastanza da tenerti impegnata per un paio d’ore».
La ragazza annuì, ma non si volse. I suoi occhi si guardavano attorno quasi con avidità, come se non avesse mai visto un paio di libri buttati alla rinfusa su alcuni scaffali impolverati.
«Io e Ian aspetteremo nell’altra stanza», continuò Edward, poi seguì Ian nella stanza adiacente. Avrebbero potuto tenerla sotto controllo dai vetri che li separavano dalla biblioteca perché quasi tutte le stanze avevano modo di comunicare tra loro. A volte era una fortuna, altre un fastidio e, come spesso e volentieri soleva dire Ian, Jane non si sentiva a suo agio nemmeno a dargli un bacio casto sapendo che Dom avrebbe potuto scostare le tende e godersi lo spettacolo.
«Cosa pensa di concludere Jill con lei?» chiese Ian, lasciandosi pesantemente cadere sulla poltrona più comoda.
Edward non sapeva cosa rispondere. Le vere intenzioni di Jill gli erano sconosciute e, nonostante continuasse a rimuginare sul motivo nascosto di tanto zelo nel volersi prendere cura di una creatura simile, non riusciva a venire a capo di nulla. «Non sono tutti uguali», disse, anche se lui stesso non ne era pienamente convinto.
«Oh, andiamo», sbottò Ian. «Non ti procura nessun fastidio sapere che respira come noi? Che sia, in qualche modo, simile a noi?»
Edward si strinse nelle spalle. «Siamo noi, quelli armati, qui dentro. E, se non lo hai notato, è alta quanto un soldo di cacio».
«Potrebbe arrostirti allo spiedo con uno schiocco delle dita, Hale».
Edward lo guardò da sopra la spalla. Se il suo elemento era davvero il fuoco, si chiese quanto tempo avrebbe impiegato a sciogliere il chip per tornare ad essere nuovamente padrona del suo corpo. Nemmeno Jill era in grado di costruire qualcosa di così altamente resistente, ma ci sperò con tutto sé stesso. «Jill ha in mente qualcosa». Edward mise le braccia conserte e si appoggiò con la spalla al vetro. «Ma ancora non riesco a capire cosa». La stanchezza minacciava di sopraffarlo e i suoi occhi bruciavano per il sonno, richiedendo l’oscurità. Pensò con desiderio al letto che lo attendeva in camera sua, anche un angolo del pavimento andava benissimo, ma avrebbe dovuto pazientare ancora un po’ prima di riportare la ragazza da Jill. Gliel’aveva lasciata in custodia solo per poco, giusto il tempo di trovarle un nome che le si addicesse, invece di quello freddo e senza senso che le aveva affibbiato lei. Anzi, ad essere onesti, non gliene fregava poi molto.
Quando Ian cominciò a russare, Edward guardò il suo orologio e vide che la lancetta delle ore era ferma sul tre. Era passato troppo tempo da quando erano entrati lì dentro ed era meglio affrettarsi. Raggiunse A1 e si fermò alle sue spalle.
«Edward Hale», disse la ragazza, facendolo sussultare. «Il mio compito giunge al termine».
«Hai trovato qualcosa di carino?» le chiese.
«Non penso che la concezione di “carino” sia uguale per entrambi».
Edward abbassò lo sguardo sul suo viso, l’increspatura delle labbra suggeriva che fosse sul ciglio di aggiungere qualcosa, ma non lo fece. Gli occhi, fissi e saldi in quelli di Edward come se non avvertisse un minimo di soggezione, nonostante fosse simile a un topo in gabbia, sprigionavano un’energia tale da lasciargli un vago sentore di stordimento, che Edward scacciò velocemente ricordando a sé stesso con chi avesse a che fare. Per un istante si chiese come dovesse essere vederla sorridere, ma cancellò il pensiero nel momento in cui nelle sue pupille intravide una scintilla rovente spingere per farsi strada.
«Siediti, Edward Hale».
Edward provò un leggero imbarazzo, una piccola parte di lui avrebbe voluto acconsentire ma era meglio non mostrarsi docili. «No, preferisco così». La ragazza rimase interdetta, forse aspettandosi un accenno di accondiscendenza, ma Edward era ben lungi dal volersi concedere. Poi, come se niente fosse, gli indicò un nome. «Phoenix», disse Edward. «Mi sembra perfetto».
«Niente deve essere tale quando si tratta di me», disse Phoenix. «Non sono meritevole di perfezione, Edward Hale».
Edward reagì spazientito, ma se ne rese conto solo quando vide un tentennamento in lei. Si ricompose schiarendosi la gola con un colpo di tosse, chiedendosi se il chip impiantatole nel cervello comandasse ogni sua emozione. Evidentemente Jill aveva pensato a tutto tranne che a rendere neutre quest’ultime. Edward avrebbe dovuto prenderne atto. «Perché non mi chiami semplicemente Edward?» fece, scostando la sedia per sedersi. «Questa cosa mi fa sentire vecchio».
«Tu sei il mio tutore», rispose Phoenix, fissandolo. «Tu, Jillian Camden e Ian Dawson».
«A noi piacciono le cose semplici. Quindi ti ordino, d’ora in poi, di usare solo i nostri nomi di battesimo. Per quanto riguarda me e Ian, ovviamente. Per Jill non so, parlane con lei, ma sono sicuro non rifiuterà. Ora puoi alzarti e rimettere a posto il libro, così poi ce ne andremo a dormire».
Phoenix annuì e si alzò. Mise il libro sullo scaffale e cominciò a sistemare anche i volumi accanto.
«Non serve che tu ti prenda il disturbo di farlo», osservò Edward, alzandosi e inarcando la schiena indolenzita. «Nessuno legge questi libri da tanto tempo».
«Questa logica mi calma, Edward Hale».
«Edward», la corressi.
Ma all’improvviso si rese conto che non avrebbe dovuto farlo, perché la reazione di Phoenix lo spaventò. La vide voltarsi velocemente, con uno scatto felino. Nel suo sguardo c’era paura, adesso, cosa che non aveva ancora visto e la cosa lo metteva alquanto a disagio. Le sue iridi cominciarono a tingersi di un rosso sempre più acceso, liquido. Edward pensò che doveva assolutamente dire a Jill che il software che la guidava aveva bisogno di una piccola revisione, altrimenti avrebbe faticato parecchio a portare a termine il suo compito. Alzò le mani in segno di resa, cercando di trasmetterle tutto il suo rammarico.
«Mi dispiace», ammise. «Non pensavo di creare tutto questo trambusto. Ora calmati, puoi chiamarmi come meglio credi, se la cosa è di tuo gradimento». Tutto fuorché quello sguardo da animale in trappola, io non sono un carnefice, si ritrovò a pensare.
«Non revocare un ordine così diretto», disse Phoenix. Era indietreggiata fino a nascondersi nell’ombra degli scaffali, dove la debole luce dei neon sul soffitto non riusciva ad arrivare.
Edward riusciva a scorgere i lineamenti del suo viso solo grazie al bagliore surreale che scaturiva dai suoi occhi. Questi esseri ‒ umani come noi, certo, ma un tantino diversi, pensò ‒ avevano qualcosa di dannatamente ammaliante. Terribile sì, malefico a volte, ma comunque spettacolare. Ian la pensava in modo completamente diverso, ma doveva convenire con lui che le loro doti fossero straordinarie. E non tutti erano pericolosi secondo Edward, ma vai a farglielo capire. Il rosso scarlatto che colorava lo sguardo di Phoenix non aveva niente di così malvagio come sosteneva Ian, ma lui sapeva che se avesse potuto non si sarebbe fermata solo a quello.
«Bene», disse, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, quando intravide i lineamenti del viso di Phoenix distendersi leggermente. «Ora possiamo andare a dormire. Dove dormi, di solito? Nello studio di Jill?»
«Sì», rispose Phoenix, avanzando fino a uscire dall’ombra.
«D’accordo, allora chiederò a Jill una sistemazione migliore. Se devo essere il tuo tutore, tanto vale fare le cose per bene. E il nostro primo lavoro sarà arredare una camera da letto apposta per te», fece Edward, incamminandosi verso la stanza adiacente. «Ora andiamo a svegliare Dawson, che russa peggio di un orso».
«Edward».
Edward si volse, incuriosito. «Sì?»
«La barella va benissimo».
Edward fece un gesto vago con la mano, come a voler scacciare un insetto. «Sciocchezze. Seguimi».
Ian dormiva della grossa. Edward gli sferrò un calcio allo stinco quel tanto che bastava per svegliarlo e Ian, di tutta risposta, balzò in piedi più vigile che mai. «Cosa succede? Il mostriciattolo è fuggito?»
«Non potrei mai», disse Phoenix, facendo un passo indietro, come se volesse nascondersi dietro Edward.
Con nonchalance, Edward spostò il peso sui talloni in modo da coprirla quel poco che necessitava a farla sentire al sicuro, anche se era fermamente convinto che la situazione non lo richiedeva. Ian impiegò qualche secondo di troppo per metterla a fuoco, forse prendendosi del tempo per studiare la sua reazione. «I suoi occhi hanno cambiato colore», disse, ammiccando verso di lei.
Edward si volse e notò con stupore che il rosso scarlatto degli occhi di Phoenix era migrato verso un colore simile al cioccolato al latte appena tolto dal fuoco. Mancava solo un cucchiaino di zucchero per addolcire il tutto, ma la sua mente lo prese a schiaffi per averci anche solo pensato.
«Da cosa dipende?» le chiese, schiarendosi la gola, cercando di nascondere il senso di imbarazzo che lo aveva attanagliato. Imprecò tra sé e sé.
Phoenix si strinse nelle spalle. «Presumo mi stia abituando a voi».
Ian osservava la scena con fare criptico, ma Edward rimase interdetto.
«Fantastico», disse Ian, con sarcasmo, alzando gli occhi al cielo.
Edward lo fulminò con lo sguardo. «Cosa ne dici di portare la tua carcassa fuori di qui e andartene a dormire? E’ tardi, per i mocciosi».
«Non farti addomesticare, Hale», disse Ian, con uno sguardo che non ammetteva repliche. «Anzi, non permetterle di fotterti». Poi, lanciando un’ultima occhiataccia a Phoenix come se volesse inchiodarla sul posto, avvertendola di non azzardarsi nemmeno a pensare di fare un passo falso, si incamminò verso la porta. Estrasse dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi, fece scattare la serratura e uscì nel corridoio. Edward lo seguì con lo sguardo fino a che non voltò a sinistra, svanendo nell’oscurità. Non lo permetterò, pensò, tornando a guardare Phoenix, ma si chiese cosa gli avesse messo Jill tra le mani. O peggio, chi.