CAPITOLO QUATTRO
WALTER BENNET
WALTER BENNET
«Ho condotto personalmente delle ricerche, perché Hugo non aveva intenzione di mettersi a leggere gli archivi», disse Eve, sedendosi accanto al corpo addormentato.
«Arriva al dunque». Walter sospirò. «Cos’hai trovato?»
«Niente». Eve tolse la fasciatura dalla spalla del ragazzo per esaminare la ferita. Walter gli lanciò un’occhiata curiosa, ma non la vide messa così male come pensava. Si stava risanando dall’interno, facilitandogli di molto il lavoro. Quello di Eve sicuramente, mentre il suo consisteva nell’attendere il suo risveglio. «E’ come se Ward non esistesse. Non è citato da nessuna parte».
«Impossibile», fece Walter, percorrendo il pavimento su e giù. Prese a massaggiarsi le tempie con forza, dove la miccia dell’emicrania si era appena accesa. «Deve aver fatto qualcosa degno di nota. Non avrai cercato abbastanza».
Eve lo fulminò con lo sguardo, ma lui non le badò. Piuttosto spostò l’attenzione sulle sue mani messe a coppa sulla ferita. Walter sapeva cosa stava facendo, conosceva la procedura a memoria.
«Ho cercato in ogni libro e testo in rete», disse Eve. «Niente articoli, nemmeno scritti sul tovagliolino di un bar e poi gettato nella spazzatura. Ma posso dirti la mia: Phoenix non si lascerebbe mai prendere viva».
«Grazie per il conforto», borbottò Walter. Si chiese da quando fosse così burbero. Non era nella sua indole reagire con la simpatia di un cavernicolo.
«Voglio solo dire che Phoenix sa badare a sé stessa». Dai palmi delle mani di Eve cominciò a irradiarsi un tenue bagliore che, col passare dei secondi, prese a intensificarsi fino a diventare accecante. Ricoprì l’intera ferita, andando a sanare ogni centimetro di pelle martoriata dal proiettile che vi era esploso all’interno. «Sono sicura non passerebbe mai informazione a Ward, qualora ne avesse».
Walter rallentò il suo passo fino a fermarsi solo per poterla guardare in viso. I capelli neri come la notte le ricadevano in modo scompigliato sulle spalle e la frangia lunga fino agli occhi andava a coprire quello che più gli interessava, nascondendo ciò che stava pensando. Probabilmente, pensò Walter, l’assenza di Phoenix influiva sul suo modo di essere tanto quanto succedeva a lui, ma Eve era molto abile nel celare le sue emozioni quando non desiderava che esse trapelassero. E quello era uno di quei momenti in cui lui avrebbe preferito vedere cosa nascondesse, piuttosto che saperla rinchiusa in un mondo oscuro in cui non gli era permesso accedere per trarla in salvo dalle sue stesse congetture.
«La scientifica ha esaminato il sangue», disse, incrociando le braccia sul petto in una posizione un po’ più rilassata. «E’ umano».
«La scientifica non direbbe mai quello che la gente non vuole sentirsi dire», osservò Eve. «Può darsi che Jeff sappia più di quanto non voglia lasciar intendere».
«Non c’è modo di saperlo se non entrando nel distretto per dare un’occhiata ai loro database». Ma Walter sapeva che non lo avrebbe fatto. Odiava la corruzione e il silenzio degli sbirri era sempre costato molto caro.
«Potresti trovare dei corpi», osservò Eve, con voce bassa. Gocce di sudore le imperlavano la fronte. «Potresti trovare Phoenix».
Walter strinse i denti con forza. Il pensiero di Phoenix su una barella dell’obitorio nuda, coperta solo con un lenzuolo bianco e asettico, con gli occhi chiusi e il corpo martoriato, gli causava brividi di freddo lungo la spina dorsale. Phoenix era forte e intelligente, ma Ward aveva dalla sua tanta furbizia e altrettanto denaro, per cui col passare del tempo era riuscito a comprarsi gran parte della città pagandola profumatamente, reclutando ogni genere di feccia dai bassifondi ai piani alti.
Quando Eve gemette per la fatica Walter le si avvicinò velocemente, temendo potesse cedere e le poggiò una mano sulla spalla.
«Ho quasi finito», disse lei, con il respiro corto. «Questa è l’ultima sessione, poi potrà svegliarsi senza provare dolore».
L’intensità del bagliore divenne talmente accecante che Walter dovette deviare lo sguardo su un punto diverso ‒ il volto del ragazzo andava più che bene ‒, altrimenti si sarebbe rovinato la vista. L’alone luminoso circondò completamente la spalla del ragazzo e ricoprì quasi tutto il suo braccio. Ma mano che la luce penetrava nella pelle lacerata, dove l’energia incandescente di Eve andava a restituire salute, il suo volto si rilassava, fino a farlo apparire in uno stato di sonno profondo, privo di dolore. Le sue labbra si distesero, il colorito delle guance assunse una tonalità più leggera sotto la barba incolta e la stretta dei suoi pugni si allentò.
Eve allontanò le mani e si lasciò sfuggire un sospiro. Il suo pallore era spettrale e il suo sguardo terribilmente vacuo mentre osservava i monitor al quale il corpo era collegato. «Sembra che sia tutto…» Non fece in tempo a terminare la frase, le sue gambe cedettero per la stanchezza eccessiva e se Walter non avesse teso le braccia per afferrarla e impedirle di rovinare a terra, ora nell’ambulatorio ci sarebbero stati due corpi da guarire. La prese tra le braccia, stupendosi di quanto fosse diventata pesante.
«Ti accompagno a dormire», le disse, ma ormai era già sprofondata in un sonno profondo, con la mente lontana anni luce e incapace di sentirlo.
Phoenix gli aveva lasciato pochi compiti. L’incolumità dei gemelli era la sua priorità. Nonostante non li avesse sentiti crescere nel grembo, il suo istinto materno si era risvegliato nell’istante in cui i suoi occhi si erano posati in quelli tristi ma determinati di Eve. E lui ero stato costretto a promettere e giurare che si sarebbe preso cura di loro nel caso a lei fosse successo qualcosa. Walter aveva protestato, obiettato che non gli piaceva giurare, per di più su una cosa così ovvia e scontata, ma Phoenix non aveva voluto sentire ragioni e lui avevo ceduto solo per il gusto di sentirla sospirare di sollievo. Fino a quel momento aveva creduto non ce ne sarebbe stato bisogno, ma si era dovuto ricredere.
All’epoca, Eve e Hugo avevano sei anni. Eve aveva già provveduto a salvare la vita di Hugo parecchie volte, riuscendo a riempirgli lo stomaco e a garantirgli il tetto di uno scantinato sopra la testa per far fronte all’inverno. Mentre lei usciva ogni giorno per cercare provviste e indumenti caldi, Hugo se ne stava ore e ore davanti a una stufa a legna tanto vecchia e malmessa come l’universo stesso, accesa o spenta non faceva differenza e quando Eve rincasava a mani vuote, il loro stomaco brontolava per tutta la notte. Walter la vide per la prima volta all’angolo di un bar, affaccendata a chiedere qualche spicciolo. Alcuni, impietositi dalle sue labbra viola e dai denti che battevano per il freddo, le allungavano una manciata di monete di tanto in tanto, soldi che a fine giornata finivano nelle tasche del panettiere della via e che servivano a garantire loro una pagnotta che sarebbe durata per due giorni, al massimo. L’aveva tenuta d’occhio per qualche tempo, curioso di sapere dove andasse una volta girato l’angolo. Una sera in cui la prima neve dell’anno stava attecchendo al suolo, l’aveva seguita ed era riuscito ad afferrarle il polso un attimo prima che lei si dileguasse nel nulla. Eve si era talmente spaventata che, mentre i loro corpi si dissolvevano nel crepuscolo, aveva chiesto mentalmente aiuto a Hugo.
Walter si accigliò ricordando l’espressione vuota di Hugo. Avevano lo stesso viso, lui ed Eve, lo stesso profilo e gli stessi capelli neri e lisci. L’unica cosa in cui si differenziavano era il colore degli occhi, lei marroni con pagliuzze verdi attorno alla pupilla ‒ schegge minuscole che si illuminavano quando sfoggiava il suo potere ‒, lui di un blu elettrico che, se e quando lo desiderava, si vedevano anche al buio. Walter si era sentito in soggezione quando, una volta toccato il suolo, Hugo lo aveva guardato, sfidandolo a torcere un capello a sua sorella.
Walter aprì la porta della camera di Eve e distese la ragazzina sul letto, tirandole le coperte fino sotto il mento dopo averle sfilato le scarpe. Poi uscì nella notte, azionò l’antifurto che era collegato al suo cellulare e si fermò sotto il portico contemplando l’idea di prendere l’auto. Ma optò per il teletrasporto, più pratico e veloce. Aveva visitato il Jolly’s già un paio di volte quella settimana, ma era l’unico luogo in cui si poteva sperare di trovare qualcuno che per qualche spicciolo fosse propenso a divulgare informazioni che potevano risultare utili.
Si strinse il bavero della giacca sul collo e calò il cappuccio sulla testa, poi fece un passo avanti e si dissolse nell’aria. Udì lo scorrere del fiume ancor prima di toccare il terreno umido. Quello non era un luogo frequentato abitualmente dagli umani, fortunatamente, ragion per cui poté uscire dal folto della bassa vegetazione senza preoccuparsi più del dovuto di venire attaccato alle spalle da un individuo armato di coltello, pronto a tagliargli la giugulare.
Costeggiò la riva del fiume fino a quando non vide sorgere le colonne portanti del Jolly’s. Da tempo immemore in debito con i seguaci di Ward, che puntualmente chiedevano il conto, Carter faticava a stare al passo, soprattutto quando si trovava costretto a sbattere fuori qualcuno che dava fuori di matto per il troppo alcool, rifiutandosi di pagare e rischiando di attirare troppa attenzione. Il Jolly’s era un locale malmesso, con finestre che si aprivano con sonori cigolii ‒ che si aprissero era giù un’enorme fortuna ‒ e bagni pieni di topi che risalivano le fognature trasportando sulla schiena zecche e scarafaggi. A Walter non interessava sapere da quanto tempo non venisse ristrutturato, ma sapeva che nemmeno a Carter andava a genio lavorare in un posto simile. Cadeva letteralmente a pezzi, soprattutto la parte che riguardava la cucina sul retro ma Carter, nonostante i suoi fornitori avessero smesso già da un pezzo di consegnarli le scorte di cibo, serviva la miglior birra in circolazione. Era meglio non chiedergli da dove provenisse, però. Era preferibile non sapere. Non che avesse molta importanza ma la sua birra distillata, fredda e con poca schiuma, garantiva una maggior clientela.
Il portico era illuminato da lanterne elettriche che pendevano dagli infissi, con una luce fioca che a volte era assente perché gli stessi topi dei bagni si nutrivano dei cavi elettrici. Le travi che sorreggevano il piano superiore erano marce e più volte Walter si chiese se lo scricchiolio dei cardini non fosse dovuto a un’indigestione delle tarme.
Walter si lanciò delle breve e fugaci occhiate intorno mentre saliva i gradini che conducevano all’entrata. C’era gente di ogni genere, lì fuori. Giovani, ragazzine minorenni disposte a cedere attenzioni a chiunque offrisse loro un po’ di svago, uomini d’affari e persino un paio di sbirri. Fortunatamente lui era sempre riuscito a passare inosservato, non gli piaceva essere fermato per scambiare convenevoli sul tempo. Anche perché, lì fuori, l’aria stagnante si attaccava ai vestiti come una sanguisuga e ce la si portava all’interno dei polmoni per intere giornate, causando un senso di vomito perenne. All’interno scrutò attentamente ogni tavolo, alla ricerca di qualche potenziale pericolo. Occhi indiscreti che lo fissavano, seguendo ogni sua movenza, ce n’erano a bizzeffe, ma nessuno sembrava realmente interessato a lui. Forse il ragazzino dall’aria stralunata seduto al bancone che, per qualche ragione, aveva mollato il gay pride per passare una serata alternativa. E Carter, che smise di far finta di lucidare i boccali di birra per ammiccare con un cenno veloce del capo nella sua direzione.
Walter gli si avvicinò e prese lentamente posto senza togliere le mani dalle tasche della giacca. «Una birra, per favore», ordinò. «In bottiglia, se non ti dispiace».
Vide un ghigno farsi strada sul volto di Carter, il quale gli passò una bottiglia da sotto il bancone.
«Offre la casa», disse Carter.
«Non voglio essere la causa della tua rovina», obiettò Walter, allungandogli un paio di banconote.
Carter si strinse nelle spalle, afferrò le banconote e le infilò nel polsino della camicia immacolata. «Allora, cosa ti porta da queste parti?» chiese, fingendo un’indifferenza che non ingannava nessuno. «Cerchi qualcuna delle mie ragazze? Puoi trovarle sul retro, anche se ho ragione di credere che al momento siano impegnate con uno di quegli sbirri là fuori».
Walter scosse la testa, grugnendo di disappunto. «Il sesso occasionale non è mai stato di mio gradimento». Desiderava arrivare immediatamente al punto, ma Carter era un ficcanaso di prima categoria, quindi era meglio andarci coi piedi di piombo.
«Posso trovarti una donna un po’ più matura, se desideri», insistette Carter, sporgendosi con fare confidenziale sul bancone. «Ti costerà un po’ di più, ma ne varrebbe certamente la pena».
«Non mi rivolgerei a te nemmeno se possedessi l’ultima donna sulla terra. Quindi lascia perdere».
«Carter ammiccò. «Allora sputa il rospo».
Walter indugiò un secondo di troppo sui suoi occhi, cercando di scrutare e oltrepassare la sua barriera. Ma Carter era abile nell’assumere e mantenere un’aria riservata. «Sto cercando informazioni», disse, quando non riuscì a cavare un ragno dal buco.
«Di che tipo?» chiese Carter, improvvisamente curioso. «Qualcosa di illegale?»
«Vedila come vuoi». Walter ingollò avidamente un lungo sorso di birra. «Cerco informazioni su Ward».
Carter ebbe un violento sussulto e, per poco, non si lasciò sfuggire dalle mani il boccale che aveva appena lustrato. «Amico», fece, quando si riprese. «Non dovresti andartene in giro a chiedere di Ward o di quello che combina come se stessi chiedendo che giorno è. Non sono proprio affari tuoi». Si deterse il sudore dalla fronte lucida e Walter si chiese perché il suo corpo avesse reagito in modo così spropositato. Sembrava preda di un violento attacco di panico, con le labbra dischiuse avide di ossigeno.
«Vero. Ma sono curioso di saperne di più su di lui. Tu no?»
«Dannazione!» esclamò Carter, con un’ottava di troppo. «Certo che no! Non voglio sapere niente di lui. Mi sta già abbastanza sul cazzo il fatto che manda qualcuno dei suoi a pretendere il conto, neanche fossimo mafiosi della peggior specie, quindi quello che fa, con chi e come, non è affar mio. Perciò fammi il piacere, va’ a chiedere di lui da un’altra parte».
«Hai ragione». Walter si finse dispiaciuto, non avrebbe dovuto chiedere senza prima indorargli la pillola, ma ognuno è padrone dei propri affari e i suoi, al momento, premevano sullo sterno fin quasi a mozzargli il respiro. «Puoi almeno dirmi quando si presenteranno i suoi?»
Carter sbuffò, palesemente infastidito. Lanciò lo straccio logoro sul pavimento e poggiò le mani sul bancone. «Non ti ricordavo così insistente. In realtà non so nemmeno io perché continuo a darti retta».
«Se non sbaglio mi devi un favore». Walter si strinse nelle spalle, con un’aria quasi annoiata. Vide Carter assumere un colorito sempre più rosso, fino a quando gli zigomi spigolosi non divennero bordeaux, ma tentò comunque di mantenere un certo decoro quando dal palmo delle sue mani scaturirono alcune scintille elettriche. Gli lanciò un’occhiataccia, sperando che sapesse anche lui che non era molto sicuro dare sfoggio della propria rabbia in un posto come quello. Infatti, Carter strinse i denti, deglutì e tornò lentamente ad avere un colorito più roseo.
«Se te lo dico, mi lascerai in pace?» chiese.
«Può darsi», rispose Walter.
Inspirò ed espirò rumorosamente prima di rispondere. Evidentemente la cosa gli costava un notevole sforzo, forse dettato dal terrore che gli uomini di Ward gli incutevano. Se Walter avesse avuto altro modo per ottenere quello che voleva, non gli avrebbe tartassato l’anima, ma sapeva che quella era la via più semplice e sbrigativa. Carter si sporse maggiormente verso di lui, fino a quasi sfiorargli l’orecchio con le labbra. Odorava di pulito, il che stonava con l’ambiente circostante.
«Alle cinque del mattino di venerdì», cominciò Carter, con un sussurro quasi impercettibile, «quando gli uccelli cominceranno a cantare il nuovo giorno, Silver Hamilton varcherà la soglia del Jolly’s».
«Arriva al dunque». Walter sospirò. «Cos’hai trovato?»
«Niente». Eve tolse la fasciatura dalla spalla del ragazzo per esaminare la ferita. Walter gli lanciò un’occhiata curiosa, ma non la vide messa così male come pensava. Si stava risanando dall’interno, facilitandogli di molto il lavoro. Quello di Eve sicuramente, mentre il suo consisteva nell’attendere il suo risveglio. «E’ come se Ward non esistesse. Non è citato da nessuna parte».
«Impossibile», fece Walter, percorrendo il pavimento su e giù. Prese a massaggiarsi le tempie con forza, dove la miccia dell’emicrania si era appena accesa. «Deve aver fatto qualcosa degno di nota. Non avrai cercato abbastanza».
Eve lo fulminò con lo sguardo, ma lui non le badò. Piuttosto spostò l’attenzione sulle sue mani messe a coppa sulla ferita. Walter sapeva cosa stava facendo, conosceva la procedura a memoria.
«Ho cercato in ogni libro e testo in rete», disse Eve. «Niente articoli, nemmeno scritti sul tovagliolino di un bar e poi gettato nella spazzatura. Ma posso dirti la mia: Phoenix non si lascerebbe mai prendere viva».
«Grazie per il conforto», borbottò Walter. Si chiese da quando fosse così burbero. Non era nella sua indole reagire con la simpatia di un cavernicolo.
«Voglio solo dire che Phoenix sa badare a sé stessa». Dai palmi delle mani di Eve cominciò a irradiarsi un tenue bagliore che, col passare dei secondi, prese a intensificarsi fino a diventare accecante. Ricoprì l’intera ferita, andando a sanare ogni centimetro di pelle martoriata dal proiettile che vi era esploso all’interno. «Sono sicura non passerebbe mai informazione a Ward, qualora ne avesse».
Walter rallentò il suo passo fino a fermarsi solo per poterla guardare in viso. I capelli neri come la notte le ricadevano in modo scompigliato sulle spalle e la frangia lunga fino agli occhi andava a coprire quello che più gli interessava, nascondendo ciò che stava pensando. Probabilmente, pensò Walter, l’assenza di Phoenix influiva sul suo modo di essere tanto quanto succedeva a lui, ma Eve era molto abile nel celare le sue emozioni quando non desiderava che esse trapelassero. E quello era uno di quei momenti in cui lui avrebbe preferito vedere cosa nascondesse, piuttosto che saperla rinchiusa in un mondo oscuro in cui non gli era permesso accedere per trarla in salvo dalle sue stesse congetture.
«La scientifica ha esaminato il sangue», disse, incrociando le braccia sul petto in una posizione un po’ più rilassata. «E’ umano».
«La scientifica non direbbe mai quello che la gente non vuole sentirsi dire», osservò Eve. «Può darsi che Jeff sappia più di quanto non voglia lasciar intendere».
«Non c’è modo di saperlo se non entrando nel distretto per dare un’occhiata ai loro database». Ma Walter sapeva che non lo avrebbe fatto. Odiava la corruzione e il silenzio degli sbirri era sempre costato molto caro.
«Potresti trovare dei corpi», osservò Eve, con voce bassa. Gocce di sudore le imperlavano la fronte. «Potresti trovare Phoenix».
Walter strinse i denti con forza. Il pensiero di Phoenix su una barella dell’obitorio nuda, coperta solo con un lenzuolo bianco e asettico, con gli occhi chiusi e il corpo martoriato, gli causava brividi di freddo lungo la spina dorsale. Phoenix era forte e intelligente, ma Ward aveva dalla sua tanta furbizia e altrettanto denaro, per cui col passare del tempo era riuscito a comprarsi gran parte della città pagandola profumatamente, reclutando ogni genere di feccia dai bassifondi ai piani alti.
Quando Eve gemette per la fatica Walter le si avvicinò velocemente, temendo potesse cedere e le poggiò una mano sulla spalla.
«Ho quasi finito», disse lei, con il respiro corto. «Questa è l’ultima sessione, poi potrà svegliarsi senza provare dolore».
L’intensità del bagliore divenne talmente accecante che Walter dovette deviare lo sguardo su un punto diverso ‒ il volto del ragazzo andava più che bene ‒, altrimenti si sarebbe rovinato la vista. L’alone luminoso circondò completamente la spalla del ragazzo e ricoprì quasi tutto il suo braccio. Ma mano che la luce penetrava nella pelle lacerata, dove l’energia incandescente di Eve andava a restituire salute, il suo volto si rilassava, fino a farlo apparire in uno stato di sonno profondo, privo di dolore. Le sue labbra si distesero, il colorito delle guance assunse una tonalità più leggera sotto la barba incolta e la stretta dei suoi pugni si allentò.
Eve allontanò le mani e si lasciò sfuggire un sospiro. Il suo pallore era spettrale e il suo sguardo terribilmente vacuo mentre osservava i monitor al quale il corpo era collegato. «Sembra che sia tutto…» Non fece in tempo a terminare la frase, le sue gambe cedettero per la stanchezza eccessiva e se Walter non avesse teso le braccia per afferrarla e impedirle di rovinare a terra, ora nell’ambulatorio ci sarebbero stati due corpi da guarire. La prese tra le braccia, stupendosi di quanto fosse diventata pesante.
«Ti accompagno a dormire», le disse, ma ormai era già sprofondata in un sonno profondo, con la mente lontana anni luce e incapace di sentirlo.
Phoenix gli aveva lasciato pochi compiti. L’incolumità dei gemelli era la sua priorità. Nonostante non li avesse sentiti crescere nel grembo, il suo istinto materno si era risvegliato nell’istante in cui i suoi occhi si erano posati in quelli tristi ma determinati di Eve. E lui ero stato costretto a promettere e giurare che si sarebbe preso cura di loro nel caso a lei fosse successo qualcosa. Walter aveva protestato, obiettato che non gli piaceva giurare, per di più su una cosa così ovvia e scontata, ma Phoenix non aveva voluto sentire ragioni e lui avevo ceduto solo per il gusto di sentirla sospirare di sollievo. Fino a quel momento aveva creduto non ce ne sarebbe stato bisogno, ma si era dovuto ricredere.
All’epoca, Eve e Hugo avevano sei anni. Eve aveva già provveduto a salvare la vita di Hugo parecchie volte, riuscendo a riempirgli lo stomaco e a garantirgli il tetto di uno scantinato sopra la testa per far fronte all’inverno. Mentre lei usciva ogni giorno per cercare provviste e indumenti caldi, Hugo se ne stava ore e ore davanti a una stufa a legna tanto vecchia e malmessa come l’universo stesso, accesa o spenta non faceva differenza e quando Eve rincasava a mani vuote, il loro stomaco brontolava per tutta la notte. Walter la vide per la prima volta all’angolo di un bar, affaccendata a chiedere qualche spicciolo. Alcuni, impietositi dalle sue labbra viola e dai denti che battevano per il freddo, le allungavano una manciata di monete di tanto in tanto, soldi che a fine giornata finivano nelle tasche del panettiere della via e che servivano a garantire loro una pagnotta che sarebbe durata per due giorni, al massimo. L’aveva tenuta d’occhio per qualche tempo, curioso di sapere dove andasse una volta girato l’angolo. Una sera in cui la prima neve dell’anno stava attecchendo al suolo, l’aveva seguita ed era riuscito ad afferrarle il polso un attimo prima che lei si dileguasse nel nulla. Eve si era talmente spaventata che, mentre i loro corpi si dissolvevano nel crepuscolo, aveva chiesto mentalmente aiuto a Hugo.
Walter si accigliò ricordando l’espressione vuota di Hugo. Avevano lo stesso viso, lui ed Eve, lo stesso profilo e gli stessi capelli neri e lisci. L’unica cosa in cui si differenziavano era il colore degli occhi, lei marroni con pagliuzze verdi attorno alla pupilla ‒ schegge minuscole che si illuminavano quando sfoggiava il suo potere ‒, lui di un blu elettrico che, se e quando lo desiderava, si vedevano anche al buio. Walter si era sentito in soggezione quando, una volta toccato il suolo, Hugo lo aveva guardato, sfidandolo a torcere un capello a sua sorella.
Walter aprì la porta della camera di Eve e distese la ragazzina sul letto, tirandole le coperte fino sotto il mento dopo averle sfilato le scarpe. Poi uscì nella notte, azionò l’antifurto che era collegato al suo cellulare e si fermò sotto il portico contemplando l’idea di prendere l’auto. Ma optò per il teletrasporto, più pratico e veloce. Aveva visitato il Jolly’s già un paio di volte quella settimana, ma era l’unico luogo in cui si poteva sperare di trovare qualcuno che per qualche spicciolo fosse propenso a divulgare informazioni che potevano risultare utili.
Si strinse il bavero della giacca sul collo e calò il cappuccio sulla testa, poi fece un passo avanti e si dissolse nell’aria. Udì lo scorrere del fiume ancor prima di toccare il terreno umido. Quello non era un luogo frequentato abitualmente dagli umani, fortunatamente, ragion per cui poté uscire dal folto della bassa vegetazione senza preoccuparsi più del dovuto di venire attaccato alle spalle da un individuo armato di coltello, pronto a tagliargli la giugulare.
Costeggiò la riva del fiume fino a quando non vide sorgere le colonne portanti del Jolly’s. Da tempo immemore in debito con i seguaci di Ward, che puntualmente chiedevano il conto, Carter faticava a stare al passo, soprattutto quando si trovava costretto a sbattere fuori qualcuno che dava fuori di matto per il troppo alcool, rifiutandosi di pagare e rischiando di attirare troppa attenzione. Il Jolly’s era un locale malmesso, con finestre che si aprivano con sonori cigolii ‒ che si aprissero era giù un’enorme fortuna ‒ e bagni pieni di topi che risalivano le fognature trasportando sulla schiena zecche e scarafaggi. A Walter non interessava sapere da quanto tempo non venisse ristrutturato, ma sapeva che nemmeno a Carter andava a genio lavorare in un posto simile. Cadeva letteralmente a pezzi, soprattutto la parte che riguardava la cucina sul retro ma Carter, nonostante i suoi fornitori avessero smesso già da un pezzo di consegnarli le scorte di cibo, serviva la miglior birra in circolazione. Era meglio non chiedergli da dove provenisse, però. Era preferibile non sapere. Non che avesse molta importanza ma la sua birra distillata, fredda e con poca schiuma, garantiva una maggior clientela.
Il portico era illuminato da lanterne elettriche che pendevano dagli infissi, con una luce fioca che a volte era assente perché gli stessi topi dei bagni si nutrivano dei cavi elettrici. Le travi che sorreggevano il piano superiore erano marce e più volte Walter si chiese se lo scricchiolio dei cardini non fosse dovuto a un’indigestione delle tarme.
Walter si lanciò delle breve e fugaci occhiate intorno mentre saliva i gradini che conducevano all’entrata. C’era gente di ogni genere, lì fuori. Giovani, ragazzine minorenni disposte a cedere attenzioni a chiunque offrisse loro un po’ di svago, uomini d’affari e persino un paio di sbirri. Fortunatamente lui era sempre riuscito a passare inosservato, non gli piaceva essere fermato per scambiare convenevoli sul tempo. Anche perché, lì fuori, l’aria stagnante si attaccava ai vestiti come una sanguisuga e ce la si portava all’interno dei polmoni per intere giornate, causando un senso di vomito perenne. All’interno scrutò attentamente ogni tavolo, alla ricerca di qualche potenziale pericolo. Occhi indiscreti che lo fissavano, seguendo ogni sua movenza, ce n’erano a bizzeffe, ma nessuno sembrava realmente interessato a lui. Forse il ragazzino dall’aria stralunata seduto al bancone che, per qualche ragione, aveva mollato il gay pride per passare una serata alternativa. E Carter, che smise di far finta di lucidare i boccali di birra per ammiccare con un cenno veloce del capo nella sua direzione.
Walter gli si avvicinò e prese lentamente posto senza togliere le mani dalle tasche della giacca. «Una birra, per favore», ordinò. «In bottiglia, se non ti dispiace».
Vide un ghigno farsi strada sul volto di Carter, il quale gli passò una bottiglia da sotto il bancone.
«Offre la casa», disse Carter.
«Non voglio essere la causa della tua rovina», obiettò Walter, allungandogli un paio di banconote.
Carter si strinse nelle spalle, afferrò le banconote e le infilò nel polsino della camicia immacolata. «Allora, cosa ti porta da queste parti?» chiese, fingendo un’indifferenza che non ingannava nessuno. «Cerchi qualcuna delle mie ragazze? Puoi trovarle sul retro, anche se ho ragione di credere che al momento siano impegnate con uno di quegli sbirri là fuori».
Walter scosse la testa, grugnendo di disappunto. «Il sesso occasionale non è mai stato di mio gradimento». Desiderava arrivare immediatamente al punto, ma Carter era un ficcanaso di prima categoria, quindi era meglio andarci coi piedi di piombo.
«Posso trovarti una donna un po’ più matura, se desideri», insistette Carter, sporgendosi con fare confidenziale sul bancone. «Ti costerà un po’ di più, ma ne varrebbe certamente la pena».
«Non mi rivolgerei a te nemmeno se possedessi l’ultima donna sulla terra. Quindi lascia perdere».
«Carter ammiccò. «Allora sputa il rospo».
Walter indugiò un secondo di troppo sui suoi occhi, cercando di scrutare e oltrepassare la sua barriera. Ma Carter era abile nell’assumere e mantenere un’aria riservata. «Sto cercando informazioni», disse, quando non riuscì a cavare un ragno dal buco.
«Di che tipo?» chiese Carter, improvvisamente curioso. «Qualcosa di illegale?»
«Vedila come vuoi». Walter ingollò avidamente un lungo sorso di birra. «Cerco informazioni su Ward».
Carter ebbe un violento sussulto e, per poco, non si lasciò sfuggire dalle mani il boccale che aveva appena lustrato. «Amico», fece, quando si riprese. «Non dovresti andartene in giro a chiedere di Ward o di quello che combina come se stessi chiedendo che giorno è. Non sono proprio affari tuoi». Si deterse il sudore dalla fronte lucida e Walter si chiese perché il suo corpo avesse reagito in modo così spropositato. Sembrava preda di un violento attacco di panico, con le labbra dischiuse avide di ossigeno.
«Vero. Ma sono curioso di saperne di più su di lui. Tu no?»
«Dannazione!» esclamò Carter, con un’ottava di troppo. «Certo che no! Non voglio sapere niente di lui. Mi sta già abbastanza sul cazzo il fatto che manda qualcuno dei suoi a pretendere il conto, neanche fossimo mafiosi della peggior specie, quindi quello che fa, con chi e come, non è affar mio. Perciò fammi il piacere, va’ a chiedere di lui da un’altra parte».
«Hai ragione». Walter si finse dispiaciuto, non avrebbe dovuto chiedere senza prima indorargli la pillola, ma ognuno è padrone dei propri affari e i suoi, al momento, premevano sullo sterno fin quasi a mozzargli il respiro. «Puoi almeno dirmi quando si presenteranno i suoi?»
Carter sbuffò, palesemente infastidito. Lanciò lo straccio logoro sul pavimento e poggiò le mani sul bancone. «Non ti ricordavo così insistente. In realtà non so nemmeno io perché continuo a darti retta».
«Se non sbaglio mi devi un favore». Walter si strinse nelle spalle, con un’aria quasi annoiata. Vide Carter assumere un colorito sempre più rosso, fino a quando gli zigomi spigolosi non divennero bordeaux, ma tentò comunque di mantenere un certo decoro quando dal palmo delle sue mani scaturirono alcune scintille elettriche. Gli lanciò un’occhiataccia, sperando che sapesse anche lui che non era molto sicuro dare sfoggio della propria rabbia in un posto come quello. Infatti, Carter strinse i denti, deglutì e tornò lentamente ad avere un colorito più roseo.
«Se te lo dico, mi lascerai in pace?» chiese.
«Può darsi», rispose Walter.
Inspirò ed espirò rumorosamente prima di rispondere. Evidentemente la cosa gli costava un notevole sforzo, forse dettato dal terrore che gli uomini di Ward gli incutevano. Se Walter avesse avuto altro modo per ottenere quello che voleva, non gli avrebbe tartassato l’anima, ma sapeva che quella era la via più semplice e sbrigativa. Carter si sporse maggiormente verso di lui, fino a quasi sfiorargli l’orecchio con le labbra. Odorava di pulito, il che stonava con l’ambiente circostante.
«Alle cinque del mattino di venerdì», cominciò Carter, con un sussurro quasi impercettibile, «quando gli uccelli cominceranno a cantare il nuovo giorno, Silver Hamilton varcherà la soglia del Jolly’s».