Capitolo
quarto: Eterna lotta
L'individuo ha sempre dovuto lottare per non essere
sopraffatto dalla tribù.
Dieci
anni fa.
Dopo una settimana dalla mia ultima
uscita con Abel, trovai un bigliettino sotto la porta d’ingresso. Un solo
numero di cellulare, scritto con una grafia elegante. Non era quella di Abel,
ma sapevo che a quel numero avrebbe risposto lui. Mi avvicinai al telefono, un
suono sordo mi rimbombava nelle orecchie. Con la mano a mezz’asta cercavo il
coraggio di afferrare quella cornetta.
Non
farlo.
Sorrisi, divertita. La mia mente si
inventava sempre nuovi giochi e piacevoli intermezzi, per stemperare il mio
nervosismo. Le voci erano il modo più frequente. E non erano che la riprova di
quanto io in realtà non fossi per nulla normale. In fin dei conti lo sapevo, ma
era pur sempre altamente ricreativo capire fino a che punto potessi spingermi.
-
Non crederai di spaventarmi con così
poco?
Mi chiesi quasi incredula.
Lascia
che Abel Olsen trovi un altro rimpiazzo.
-
E rimpiangere questo giorno a vita? –
afferrai la cornetta – Mai.
Composi il numero, in fretta, senza
pensare. E rimasi a bocca asciutta quando non sentii la voce di Abe dall’altra
parte del filo. Era un uomo, certo, ma sicuramente più vecchio. La sua voce
cordiale mi lasciò inconsapevolmente senza parole.
-
Sono Charlotte Leanor Mitchel. –
tentennai mentre lo sentivo fare ampi segni senza voce a qualcuno al suo
fianco.
-
Sono Sandor Signorina. – il
chiacchericcio alle sue spalle si fece un po’ più smorzato. – Vuole parlare con
il signor Abe?
-
Si, si, grazie.
Balbettavo e questo mi rendeva ancor
più nervosa.
La cornetta del telefono passò da una
mano all’altra e poi, finalmente, quella voce.
-
Chare? Sono io. – lo sentii prendere
fiato – Non ti ha spaventato Sandor, vero?
-
No – mentivo spudoratamente –
L’importante è che non sia un cavallo a tre teste.
Abel smorzò una risata negando.
-
Perfetto – continuai – Allora posso
gestire tutto.
-
Ci vediamo?
Lo sentii sorridere, quel suo sorriso
contorto che sembrava nascondere una colpa abominevole nei miei confronti.
Quello stesso sorriso che rivelava quanto in realtà mi reputasse ideale per
quel compito. Mi diede appuntamento al porto, un luogo che secondo lui era
ottimale. Molta gente, molti affari. Nessuno avrebbe dato retta a noi. Abel non
poteva tuttava capire che, per quanto malsano, quello a me sembrasse un
appuntamento romantico. Nessuno ci avrebbe badato, vero, ma se lo avesse fatto
non sarebbe giunto che ad una sola, logica, inoppugnabile conclusione: era un
incontro amoroso segreto.
Presi in fretta un golf da buttarmi
sopra le spalle. Uno sguardo veloce allo specchio, non potei non notare che
avrei potuto essere conciata decisamente meglio di come in realtà mi stavo
azzardando ad uscire, ma una strana frenesia mi aveva preso dentro. Non la
sapevo spiegare ma era come se mi prudessero le mani, come se finalmente stessi
per fare qualcosa che andava veramente fatto.
Al porto, ovviamente, giunsi troppo
presto. Abel non era ancora arrivato. E la tensione saliva. Ad ogni secondo. Ad
ogni passo. Ad ogni nuova persona che incrociava il mio cammino. Mi sembrò di
morire una decina di volte, prima di vederlo di fronte a me con il suo elegante
cappotto in tweed con il bavero alzato e gli occhi stretti dal vento. Sorrisi,
ma la sua risposta era troppo inquieta per non essere palese perfino per me. Si
avvicinò ancora e, sempre in silenzio, appoggiò le mani sul parapetto che
puzzava di stantio al mio fianco. Lo imitai, mettendomi nella sua stessa
posizione. Mi ci vollero un paio di minuti per raggranellare tutto il mio
coraggio e fare finalmente quel passo in avanti che mi spaventava così tanto.
In fin dei conti, non dovevo fare altro che chiederlo.
-
Come è morta?
Gli
chiesi senza troppi giri di parole.Gli occhi verdi di Abel si erano voltati
verso di me quasi supplicandomi di non chiederglielo. Eppure per decidere
dovevo sapere.
-
Noi non possiamo morire, a meno che
non veniamo uccisi da un nostro simile.
-
C’è qualcuno che ci vorrebbe morti?
Che
domanda stupida ero riuscita a fare.
Abel
annuì incerto. Già prima di quell’occasione mi aveva spiegato che il suo mondo,
il mio futuro mondo, viveva di un concetto basilare: la segretezza. Ogni mondo
era un universo a sé, con le proprie regole e le proprie magie, che gli altri
ignoravano ed avrebbero dovuto continuare ad ignorare. Anche i Custodi
ignoravano forme, magie ed incantesimi degli altri suoi compagni. Ecco perché
io potevo vedere la vera forma di Maharet e lui no ed ecco perché io non potevo
vedere le reali fattezze di Sàmon, Kuma, Siana ed Iko.Ecco perché i Custodi
vivevano mischiati ai mortali, senza che nessuno conoscesse la loro identità.
Almeno non quella magica che li distingueva.
-
Quindi io ti sto vedendo come essere
umano ma hai anche un’altra forma magica che a me non è permesso di vedere?
Tornai
a chiedere sempre più intrigata.
-
Esattamente.- Si era rilassato, a
differenza delle altre volte. - Anche tu avrai una tua forma magica, una volta
diventata come me. E nessuno di noi la potrà vedere.
Mi
avvicinai a lui, sfiorandogli il braccio e cercando di immaginare quale
spaventosa forma potesse assumere quel ragazzo che a me sembrava così
terribilmente normale.
-
Ma se nessuno la potrà vedere, a che
serve?
-
Quella tua forma è la chiave della tua
immortalità Chare, ricordatelo bene. Gli appartenenti alla tua stessa razza la
vedranno sempre e comunque; se ti trafiggono con una loro arma mentre stai
usando i tuoi poteri e quindi stai sfruttando la tua forma magica, di te non
resterà che cenere.
Sobbalzai
improvvisamente preoccupata. Le fate mi avrebbero vista in maniera diversa, se
diventavo la custode del loro portale.
-
La precedente custode è morta così?
Uccisa da un suo simile?
La
mia voce era improvvisamente diventata un sussurro.
-
Stiamo ancora cercando di capirlo.
Il moto d’ira che gli percosse le
viscere gli fece prendere un’espressione tesa e livida.
-
E nel frattempo? Chi copre quel
passaggio?
-
Gli altri Custodi bloccheranno l’accesso
fino al suo nuovo ritorno.
Avevo
intuito subito che stesse citando a memoria il Necronomicon, il nostro Codice.
Mano
a mano che Abel mi istruiva in ogni piccolo particolare di quella strana vita,
vedevo sotto tutta un’altra luce il reale compito del Custode; nonostante
avessi già preso la mia decisione. Una continua vita di rinunce non mi si
confaceva decisamente, eppure il vortice di eventi in cui Abe mi aveva
trascinato era stato peggio di una droga per me. Volevo quella vita perché era
l’unica alternativa che mi fosse stata data al piattume che mi circondava.
Non
ne sarei stata felice, alla lunga. Lo sapevo benissimo. Non ero abituata ad
obbedire a nessuno se non a me stessa, non ero abituata nemmeno a condividere i
miei pensieri o le mie idee con nessuno e tanto meno mi piaceva l’idea di
rendermi responsabile della sopravvivenza di un intero popolo di fate. Odette
era una di loro, ma era differente. Lei era davvero con me, in ogni momento, in
ogni singolo pertugio della mia oscurità. Di lei, mi sarei occupata sempre
volentieri. Maharet, per esempio, non mi faceva nascere lo stesso spirito
protettivo. Forse, ma è solo un’ipotesi, dava l’impressione di essere forte
abbastanza per non aver bisogno dell’aiuto di nessuno. O forse era l’innata
consapevolezza da parte mia che, proprio lei, nonostante avesse intuito subito
le mie potenzialità, non riuscisse ad accettare il fatto che io reputassi Abe
più importante degli altri Custodi. Aveva capito subito che questa sarebbe
stato il mio Tallone d’Achille per la vita.
Dopo
quella chiaccherata sul porto, Abel azzardò una cosa che non mi aspettavo:mi fece
salire in fretta in macchina per portarmi al Crocevia, per farmi conoscere gli
altri. Ma, se dovevo essere sincera, l’opinione che mi feci non fu per nulla
lusinghiera nei loro confronti Delia, la custode del mare, era troppo saccente
e spocchiosa. Doyle, quello degli Spiriti, un piccolo ragazzino che, nonostante
avesse il doppio dei miei anni, mi risultava terribilmente immaturo e
scapestrato. Saul, la chiave del mondo dei Nani, era proprio come i suoi
protetti, irritante, volgare e basso.
Ci
furono solo saluti e convenevoli, nulla di più. Abel sembrava avere una innata
fretta nel chiudere quella parte della giornata e mi trascinò veloce verso il
giardino esterno. Incapace e soprattutto decisa a non voler prolungare la mia
permanenza in compagnia dei Custodi rimasti, lo lasciai fare. Almeno si sarebbe
calmato quanto prima. O almeno così credevo. Lo lasciai pensare, avevo ancora la
sensazione che tra le sue mani reggesse qualcosa di mortalmente importante. Mi
accovacciai sul cofano di Sàmon ed attesi. Il Protettore sembrò accettare di
buon grado quella mia intrusione.
-
Credo che tu sia quasi pronta per
diventare effettivamente la Custode del Quarto Passaggio.
Mi
disse ricacciando indietro qualche accenno di stizza.
-
Poi che cosa faremo?
Gli
chiesi io, curiosa.
-
Tu e Doyle comincerete a fare le solite
ronde. Nulla di impegnativo.
-
E tu?
L’ansia
mi giocò un pessimo scherzo e non riuscii a trattenere la domanda.
-
Il mio compito è proteggere il
Crocevia.
Mi
rispose quasi laconico.
-
E quindi? - La mia insita capacità
comprensiva stava elaborando ovviamente.
- Io e te non ci vedremo che qualche volta di tanto in tanto … magari in
occasione di qualche stupida eclissi? E’ questo? -
Abe
non mi rispondeva mai, quando io lo attaccavo preda dell’ira. Preferiva vedermi
sbollire, ma quella volta non ero del tutto sicura che sarebbe riuscito in
qualche modo nel suo intento.
-
Nessun coinvolgimento tra i Custodi, Chare.
Quale parte di quel capitolo del Necronomicon non ti è chiara?
Mi
ricordò più duro di quanto non fosse stato necessario.
Sobbalzai
sconfitta ed improvvisamente l’idea di continuare a perpetuare quel compito che
mi ero impegnata ad assumere non mi sembrava neppure lontanamente invitante.
Era solo una condanna, se non potevo avere almeno un sorriso o una battuta di
Abel come invece era stato negli ultimi tempi. Mi ero assuefatta troppo in
fretta ai suoi modi di fare, ora staccarsene risultava troppo doloroso e
violento per me. Alzai le spalle, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Se lui voleva fare il capo, non sarebbe stato di certo con me che avrebbe avuto
modo di farlo.
Abel
mi strinse il polso, cercando di trattenere me accanto a lui. Sapeva che, con
quell’espressione, l’unico mio desiderio era quello di rimanere sola e
soprattutto lontana da lui. Sapeva anche che, con il mio discreto
caratteraccio, ciò che mi stavo approssimando a fare sarebbe stato un gesto
eclatante, appariscente e forse molto teatrale. Lui non amava queste cose. Ma
amava ancor meno vedere me che piangevo. Di questo ne ero certa.
Mi
voltai a fissarlo negli occhi. Grandi e lucidi come sempre, mi fissavano quasi
in cerca del perdono. Non mi era mai passato per la mente che il suo compito
potesse risultargli difficile, perché lo svolgeva con una naturalezza al limite
del divino. Ecco, in quel momento mi accorsi che avevo sopravvalutato Abel
Olsen. Proprio come definiva la psicologia infantile, la presa di coscienza
della fallibilità di un genitore è quasi un momento catastrofico, per ognuno di
noi. In quel preciso istante, mentre attorno a noi il mondo era completamente
immobile, mi rendevo conto che nulla mi avrebbe mai ridato il fratello che
avevo agognato, sperato e trovato in Abe.
E
mi ritrovai a rendermi conto anche di quanto fossi stata egoista. Persa nel mio
limbo segreto di pensieri e speranze, avevo dato a lui l’incarico di portarmi
via dallo squallore della vita che conducevo. Dalla mancanza di novità. Dalla
possibilità di fare di me un qualcosa di speciale. Di far si che qualcuno mi
accettasse perché, finalmente, ero qualcosa di perfetto ed inattaccabile.
Nulla
poteva darmi tutto ciò, neppure la presunta infallibilità di Abel. Ed io ero
stata molto sciocca anche solo a farmi sfiorare da un pensiero del genere.
Mi
svicolai dalla situazione e mi chiusi veloce nell’abitacolo di Maharet.
-
Ha sbagliato con te.
Mi
confessò la voce suadente di Doyle al mio fianco.
Le
mie sopracciglia si alzarono irritate ben più di quanto non mi potessi
permettere con lui.
Mi
voltai a fissarlo, nervosa, mentre con tutte le mie forze mi stavo obbligando a
non piangere.
Lui
si passò una mano tra i corti capelli castani, tagliati quasi a spazzola, e mi
fissava inquieto con i grandi occhi nocciola che facevano ancora capitolare
ogni ragazza gli passasse accanto. Ma a me, lui, non interessava.
-
Sarebbe?
Gli
chiesi secca.
-
Ti ha dato troppa confidenza.
Soffrirai per lui e non sto dicendo che tu ne sia innamorata.
Incrociai
le braccia al petto cercando di trattenere dentro di me ogni sentimento. Il
sole stava per tramontare, eppure non ne vedevo i colori. Il mondo era
improvvisamente muto, come lo era il vento.
Doyle
aveva, ovviamente e come sempre, ragione. L’idea di rimanere soli per buona
parte della propria vita doveva essere ben chiara a chi veniva scelto per
essere un Custode. Io non l’avevo capito, nonostante tutta la mia intelligenza,
perché avevo dato per scontato Abe sempre al mio fianco. Errore madornale.
Mi
voltai a fissare Doyle quasi supplicandolo di dirmi cosa fare. Se un modo di
sopravvivere c’era a quell’improvvisa sensazione di vuoto, lui doveva saperlo
di certo. Era immaturo ed irresponsabile, certo, ma era comunque più vecchio di
me. Non poteva non avere idea di ciò che mi passava per la mente, non poteva
non sapere cosa dirmi o che consiglio darmi in quel momento. Non poteva essere
quella la prima volta che succedeva un casino di quel tipo. Avrei voluto
ritirare tutto, direi che la mia era stata una scelta irrazionale, istintiva,
idiota. Se dovevo rimanere da sola, se essere una chiave significava non avere
nessuno al mio fianco, Abe in testa, non volevo più quel compito. Ma non c’era
modo di scappare da ciò che mi attendeva, oramai. Avevo dato la mia parola,
purtroppo.
-
Allontanati da lui Charlotte.
Mi
suggerì in un sibilo Doyle mentre scendeva dall’auto e lanciandomi un ultimo
sguardo triste.
-
Prenditi una vita mortale per conto
tuo, fingi di vivere come una mortale. Stai lontana dal Crocevia, se non per le
nostre missioni.”
-
Il male passerà?
Chiesi
speranzosa.
-
Non passa mai il nostro male, tesoro.
Chiuse
la porta dell’abitacolo mentre mi rendevo conto che, quanto meno, non ero
l’unica ad aver sofferto in quella bizzarra famiglia.