Capitolo 67
Sull’anulare brillava la fede nuziale
Prima parte
- Sogno -
“Se sei un sogno non svegliarmi.
Vorrei vivere nel tuo respiro.
Mentre ti guardo muoio per te.
Il tuo sogno sarà di sognare me.
Ti amo perché ti vedo riflessa
in tutto quello che c’è di bello.
Dimmi dove sei stanotte
ancora nei miei sogni?
Ho sentito una carezza sul viso
arrivare fino al cuore.
Vorrei arrivare fino al cielo
e con i raggi del sole scriverti ti amo.”
Pablo Neruda, Il bacio (attribuzione incerta)
Dilatandosi,
il tempo parve fermarsi e, interposta fra i loro volti, la nuvoletta di fumo
prodotta da entrambe le sigarette rimase come sospesa, nascondendo di Hermann gli
occhi vitrei e spalancati di stupore e di Massimiliano le labbra curvate in
un’espressione un po’ furbetta.
Per
sfuggire allo sguardo, esitante nei movimenti per il tremore da tener a freno, anch’egli
allungò il braccio verso il parapetto e, preceduto dal padre di Agnese, nel
terriccio del vasetto, spense la sigaretta.
“Si
vede lontano un miglio che siete innamorato di vostra cugina”, asserì
sorridente l’uomo e, nel trattenere il sospiro di sollievo, Hermann dovette
sembrargli ancor più nervoso. “Ma non vi date pena”, proseguì e fu lui a
sospirare nell’esprimersi più seriamente, “non mi scandalizzo dell’amore fra
cugini. C’è stato e, ahimè, ci sarà sempre ben altro per cui scandalizzarsi al
mondo.”
Le
camere a gas, le esecuzioni sommarie, le guerre, le discriminazioni razziali, i
genocidi. Il medesimo pensiero li accomunò e lui ch’era stato una pedina solerte
nell’infernale macchina nazista entrò in empatia col suo interlocutore e vide
un padre – e, in questi, vide il padre di Sarah – costretto a separarsi dalla
propria figlia, pensando di fare la cosa giusta per metterla in salvo.
Temette
che fosse in procinto di confidarsi, invece Massimiliano si rilassò in volto e
riprese il discorso sulla sfera sentimentale, dicendogli: “E neanche
preoccupatevi di progettare un futuro insieme. A un isolato da qui c’è una
coppia, anche loro sono cugini e una decina di anni fa hanno ricevuto la
dispensa matrimoniale dalla Chiesa. Adesso hanno quattro figli maschi sani e
forti.”
Suscitato
da una menzogna, l’incoraggiamento non avrebbe potuto sortire alcun effetto,
eppure Hermann riuscì a trarne consolazione, immaginando la sua vita da lì a
dieci anni.
Lui
che non aveva mai provato a guardare se stesso oltre
l’orizzonte di una carriera militare da concretizzare nei suoi trent’anni che
pensava fossero eterni si vide ultraquarantenne con qualche ruga in più sul
viso e fili d’argento tra i capelli meno folti, con la valigetta da impiegato
di banca in una mano e nell’altra il pomello della porta di casa da far girare.
Sull’anulare brillava la fede nuziale.
Dall’altro
lato, ad accoglierlo con un bacio e una carezza Sarah, radiosa d’inscalfibile
bellezza, coi capelli acconciati in un foulard e con indosso un abito
grembiule, giacché intenta a preparare la cena, seguita dai passi celeri di un
bambino pronto a fiondarsi su di lui, stringendogli le gambe per farsi prendere
in braccio. Il ventre arrotondato di Sarah lasciava presagire che la famiglia
si sarebbe allargata.
Non
si accorse nemmeno Hermann di aver poggiato i gomiti sul parapetto né di aver
ricambiato la buonanotte di Massimiliano, fissando nuovamente e più
insistentemente lo sguardo sui binari per far continuare, ripetendolo
all’infinito e ancora all’indomani, quel sogno ad occhi aperti.
Il
bambino così somigliante a Sarah si fiondò alle sue gambe ed egli, seduto
vicino al finestrino, nascose il sorriso, imprimendolo sul dorso della mano,
mentre il treno correva sulla strada ferrata che a lei lo avrebbe condotto.
Napoli,
25 maggio 1947
~
Un giorno al ricongiungimento ~
Lo
aveva di nuovo sognato. Distesa immobile, stringeva tra le mani i lembi del
lenzuolo, sforzandosi di ricordare il sogno per distaccarsi dall’insopportabile,
insoddisfacente realtà, nel sottofondo del cigolio del letto e degli ansiti di
Matteo. Con occhi chiusi e labbra serrate, finanche le orecchie avrebbe voluto
tapparsi.
Era
la domenica, quando i ritmi della vita rallentavano, che Sarah avvertiva più
pressantemente il senso di frustrazione.
Libera
dal lavoro al Gran Cafè – quindi, lontana da clienti e persone amiche coi quali
relazionarsi, talvolta, fingendo di essere felice – ed esonerata dalle faccende
domestiche, giacché ospite a casa dei suoceri – dove, pur volendo, non avrebbe
potuto parlare con nessuno, tranne che con la cognata più piccola che le
correva incontro, chiamandola zia e chiedendole di giocare con le bambole –,
entrava in un ascolto più profondo di se stessa.
Ed
era nel “giorno del Signore”, durante la Messa, alla quale entrambi
partecipavano, che, riprendendo quel dialogo interiore ch’era assopito
dall’ottobre del ’43, faceva verità sul suo matrimonio infelice, sentendone la
disapprovazione propria e dall’Alto. Dietro l’ombra del velo in pizzo bianco
che le copriva il capo, nascondeva lacrime trattenute di tristezza da lasciar
confondere con la commozione per il sacro rito.
Disapprovandola,
sempre più s’allontanava emotivamente dalla vita che aveva scelto, immaginando
come questa sarebbe stata con Hermann, mentre suo marito diventava una persona
cui essere indifferente e la loro intimità un mero dovere coniugale.
E
Matteo era tutt’ansiti per la smaniosità di movimenti coi quali pareva voler
comporre la prestazione perfetta e lei ricordava dell’altro la passionale
sincronia di movenze delicate e decise, di parole dolci e audaci sussurrate
all’orecchio, fino a sentirne il tocco della pelle, il suono della voce.
I
ricordi l’accompagnarono alla vetta del piacere e sul precipizio dei sensi di
colpa.
“Il tuo sorriso, l’allegria
quanto mi mancano.
Le parole sussurrate, zitte, poi gridate.
Le parole tue per me.
Morirò d’amore, morirò per te.
[…] Socchiudo gli occhi
e le tue mani mi accarezzano.
Quelle parole urlate, poi
dall’eco rimandate che dal cielo cantano.
Morirò d’amore, morirò per te.”
Giuni Russo, Morirò d’amore