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Autore: PrimPrime    28/08/2024    0 recensioni
Ambientata dopo "Premure tra sospettati"
Jim e Oswald non hanno ancora parlato in modo chiaro della loro relazione, ma riescono a ritagliarsi del tempo per uscire nella speranza che nessuno li veda insieme.
Però quando arrivano al cimitero di Gotham, per fare visita alla madre di Oswald, un incontro inaspettato cambia tutto.
Nel frattempo, Jim indagando attira le attenzioni di qualcuno che si rivelerà molto diverso da come lui pensava...
Contiene spoiler sulla stagione 2, durante cui è ambientata.
26600 parole
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Edward Nygma, Harvey Bullock, Jim Gordon, Leslie Thompkins, Oswald Cobblepot
Note: Lime | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Inseguendo un'idea di normalità'
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Capitolo 2



“Posso fermarmi da te stanotte?”
 
“Che?” aveva risposto Harvey, chiaramente colto alla sprovvista dalla richiesta di Jim.
 
Dopo essere uscito dal club di Oswald, Jim aveva considerato l’idea di tornare al suo appartamento ma poi aveva deciso che era meglio di no. Il pensiero di Nygma in casa sua, che frugava tra le sue cose e magari metteva delle microspie di qualche tipo, non lo faceva stare tranquillo.
 
Di questo passo forse si sarebbe dovuto trasferire, ma per il momento non voleva pensarci.
 
Per fortuna Harvey, malgrado la sorpresa iniziale, gli aveva dato il suo okay, e quindi adesso Jim si trovava nel suo appartamento, seduto sul suo divano a domandarsi perché le altre persone non potevano essere normali quanto loro due.
 
Ma vivevano a Gotham, e lì di pazzi ce n’erano fin troppi.
 
“Cos’è successo?” gli chiese Harvey, offrendogli una birra e accomodandosi in poltrona per bere con lui.
 
Era venerdì sera e Jim era piombato lì all’improvviso, forse rovinandogli qualche piano. Insomma, gli doveva almeno una spiegazione.
 
“Qualcuno è entrato in casa mia e non mi sento sicuro a tornarci,” ammise, al che Harvey corrugò la fronte.
 
“Ti hanno derubato?” gli chiese, allarmato, al che Jim sospirò.
 
“No… è stato qualcuno che conosco, e ha preso solo una cosa con cui può ricattarmi,” spiegò.
 
“Revenge porn? Che bastardo. È per questo che sei stato incazzato per tutto il giorno?”
 
“Niente del genere, più… una lettera. Una lettera che mi ha scritto la persona che frequento. Anzi, che frequentavo… Non lo so,” aggiunse con un sospiro sofferto.
 
“Mi dispiace Jimbo,” disse Harvey, e sembrava sincero.
 
“Abbiamo solo litigato in realtà, ma è tutto così complicato che non so più cosa voglio. Comunque, domani torno al mio appartamento e cerco di capire cosa fare.”
 
“Verrò con te, immagino che ti servirà una mano. Anzi, ci servirebbe qualcuno esperto di tecnologia, se temi che abbia installato delle videocamere o altro,” sottolineò, cogliendo nel segno. “Magari potresti chiedere a Bruce Wayne. I giovani ne sanno a pacchi su quelle cose, e se non fosse il suo caso, potrebbe avere le conoscenze giuste.”
 
Jim annuì e bevve un sorso di birra, decidendo che ci avrebbe provato.
 
L’indomani, come stabilito, lui e Harvey tornarono al suo appartamento. Fu strano rimetterci piede per la prima volta sapendo che c’era stato Nygma. Poco dopo li raggiunse anche Bruce, al quale aveva dato il suo indirizzo per telefono.
 
Nel piccolo appartamento di Jim adesso c’erano lui, Harvey, Bruce, Alfred e il Lucius Fox, un loro conoscente che lavorava alla Wayne Enterprises e che poteva essergli d’aiuto.
 
Fox si mise subito al lavoro, ma con tutte quelle persone all’improvviso la casa sembrava più piccola. Jim si sentì un po’ in soggezione, soprattutto, per la presenza di Bruce e Alfred, che vivevano in una villa enorme. Doveva essere claustrofobico, per loro, trovarsi lì.
 
Li invitò a sedersi nell’attesa e propose loro del caffè, ma quando aprì il mobile che lo conteneva e ci trovò diverse scatole di varietà di tè venne colpito da un’ondata di malinconia. Le aveva comprate per Oswald, per fargli trovare sempre qualcosa.
 
Senza rendersene conto rimase a fissare le confezioni per una buona manciata di secondi.
 
Non aveva ancora riflettuto su di loro, anzi finché era stato a casa di Harvey aveva cercato di non farlo affatto. Aveva avuto bisogno di staccare la mente, ma ora che era tornato lì ogni angolo della casa gli parlava di lui.
 
“Non sapevo che apprezzassi il tè,” notò Alfred, riportandolo alla realtà.
 
“Nemmeno io,” aggiunse Harvey in un tono eloquente, sollevando un sopracciglio, al che Jim gli scoccò un’occhiata con cui intendeva supplicarlo di smetterla subito.
 
“Beh, ho anche quello, se preferite,” disse solo.
 
Alla fine preparò del caffè per lui, Harvey e Fox, e del tè per Bruce e Alfred, seguendo i consigli di quest’ultimo perché evidentemente non sapeva come si facesse nel modo corretto.
 
Mentre aspettavano che le bevande venissero pronte, Fox stava controllando ogni angolo della casa con uno strano apparecchio che prometteva di individuare le cimici. Jim voleva credere nella sua efficacia, ma non sapeva se sperare che ne trovasse - ed eliminasse - o meno.
 
Comunque, in cucina non aveva trovato nulla e quindi era passato a controllare la metà di soggiorno che faceva da salotto.
 
“Se ti servisse ancora ospitalità, non esitare a chiedere a noi. Vero, Alfred?”
 
“Certo, signorino Bruce. Jim, saresti il benvenuto quando vuoi nella casa degli Wayne.”
 
“Vi ringrazio, ma dopo oggi spero che non servirà più,” ammise, accennando un sorriso tirato.
 
“Ma cos’è successo di preciso qui?” chiese Bruce, guardandosi intorno.
 
Jim non sapeva quanto dire, soprattutto con Fox presente che per lui era uno sconosciuto, ma sapeva sicuramente cosa non dire. E allora, dato che li aveva svegliati tutti di sabato mattina perché gli facessero quel favore, decise che qualche spiegazione la doveva anche a loro.
 
“Sto con una persona, al momento… Anche se abbiamo litigato, quindi in effetti non so se stiamo ancora insieme…” rifletté ad alta voce, ricordandosi poi che non avevano mai parlato esplicitamente del tipo di relazione che avevano, ma questo lo tenne per sé. “Comunque, un suo amico è entrato qui mentre non c’ero e ha trovato una sua lettera compromettente.”
 
“E cosa vuole ottenere in cambio? Questo suo amico è forse geloso di voi?” ipotizzò Bruce, corrugando leggermente la fronte.
 
A Jim sarebbe piaciuto che le cose fossero così semplici… Ma quella era Gotham, e a Gotham le cose non erano mai semplici.
 
“No. Il suo amico è un tipo poco raccomandabile, e tenendo la lettera vuole assicurarsi che io non decida mai di indagare sul suo conto.”
 
“Ma è orribile,” commentò Bruce, dando voce a quelli che dovevano essere i pensieri di tutti.
 
“Cazzo, Jimbo. Parliamo di cose grosse?” chiese Harvey senza badare alle parole, sorpreso.
 
“No, niente di grosso ma sai com’è, il distintivo intimidisce,” tagliò corto, sperando che gli credesse. “Comunque, adesso che è entrato qui non mi sento tranquillo.”
 
“Se posso permettermi, che tipo di persona frequenta adesso, per avere un amico del genere?” chiese Alfred, che sembrava trovarlo inconcepibile.
 
Ancora una volta, Jim fece un sorriso tirato. Ma le bevande erano pronte e perciò si prese del tempo prima di rispondere, mentre le versava per tutti quanti.
 
“Una persona che ha dei valori molto diversi dai nostri,” tagliò corto, non trovando un modo migliore per definirlo senza entrare nei dettagli.
 
“E ne vale la pena? Insomma, se siete così diversi… non è difficile capirsi?” chiese Bruce, con lo sguardo abbassato mentre ci rifletteva.
 
Jim sospirò sommessamente.
 
“Il problema è che mi fa stare bene come nessun altro… Sono più felice con lui di quanto lo sia mai stato con Lee o con Barbara…”
 
Solo dopo aver parlato si rese conto di aver ammesso che si trattava di un lui, cosa che per il momento voleva tenere per sé. E invece di correggersi o commentare in qualche modo, stemperò l'ondata di imbarazzò che seguì bevendo un sorso di caffè.
 
Ma per fortuna c'era Harvey, che lo sapeva già e arrivò subito in suo soccorso.
 
“Beh, Barbara era pazza,” commentò acidamente.
 
“Già. Ma ho parlato troppo, non voglio annoiarvi con i miei problemi,” disse, sperando che bastasse a cambiare discorso.
 
In realtà non voleva nemmeno pensarci. Parlare di Oswald e della loro relazione lo faceva sentire male. Non si era comportato benissimo con lui, la sera prima, ed era ancora tutto troppo fresco.
 
Ci avrebbe riflettuto, certo, ma sentiva che facendolo subito non ci sarebbe riuscito a mente lucida.
 
“Che ne dici Jimbo se andiamo a cercare un ferramenta aperto che possa venire subito a cambiarti la serratura? Per ogni evenienza, sia mai che questo bastardo abbia fatto una copia della chiave.”
 
Jim non credeva che fosse questo il caso, ma accolse la proposta di Harvey trovando che poi sarebbe riuscito a sentirsi più sicuro. Sempre meglio che trasferirsi.
 
Così si scusò con i suoi ospiti e, dopo aver dato il permesso a Fox di cercare nel resto della casa, uscì.
 
“Sicuro che va tutto bene?” gli chiese Harvey, che stava guidando. “Insomma l'amico del tuo ragazzo è un mezzo criminale e tu ci dici che lui ha dei valori molto diversi dai tuoi… Non è che stavi cercando di dirci che è un altro pazzo, come Barbara?”
 
“No… Barbara è molto più pazza. E comunque non lo definirei così.”
 
“Questo la dice lunga…” commentò Harvey. “Comunque non serve tutta questa segretezza con me, puoi parlare chiaramente. Siamo amici, cosa potrei mai dirti?”
 
Jim avrebbe voluto dirgli che, se solo avesse saputo di chi si trattava, ne avrebbe avute tante di cose da ridire. Però si trattenne.
 
“In realtà non mi va di parlarne, non finché non mi schiarisco le idee,” rispose e sospirò.
 
“Va bene, posso capirlo. Però se vi riappacificate ricorda che prima o poi me lo devi presentare.”
 
La conversazione toccò argomenti diversi, per sua fortuna, e dopo una mezz'oretta buona riuscirono a trovare un ferramenta aperto e disposto ad andare subito da loro per fare il lavoro.
 
Mentre tornavano indietro, Jim controllò il cellulare. Nessun messaggio né chiamate… E allora considerò l'ipotesi che Oswald si presentasse a casa sua per parlare, il che lo rese impaziente di arrivare al più presto.
 
Sarebbe stato strano rivedersi così presto dopo il litigio che avevano avuto, ma sarebbe stato ancora più strano sapere che aveva bussato alla sua porta e ad aprirgli erano stati Alfred e Bruce. E poi come avrebbe spiegato l'intera situazione?
 
Una volta arrivati, entrò in casa per primo e tirò un impercettibile sospiro di sollievo nel trovare tutto come lo aveva lasciato.
 
Il fabbro si mise subito al lavoro, con Harvey e Alfred che assistevano interessati. Jim non lo era molto, in realtà, e Fox era sparito in una delle altre stanze, quindi si sedette in cucina insieme a Bruce.
 
Il giovane signorino Wayne aveva l'aria turbata, o forse era solo perso in qualche riflessione.
 
“Vuoi dell'altro tè? Forse ho anche dei biscotti, da qualche parte,” propose Jim, notando la sua tazza vuota.
 
“Grazie ma sono a posto così,” rispose lui.
 
“Qualcosa non va? Stai forse pensando a Selina?” gli chiese, mantenendo basso il tono di voce.
 
Bruce alzò lo sguardo su di lui, segno che aveva centrato il bersaglio.
 
“Sì… Vedi, Selina per me è molto importante, l'ho capito da un po’, ma è così sfuggente… Inoltre ha dei valori diversi dai miei, perciò spesso ci sono dei fraintendimenti tra di noi,” si decise a raccontare, citando le sue parole.
 
Jim gli sorrise.
 
“Temo di non essere la persona più giusta a cui chiedere dei consigli di cuore… né il migliore degli esempi da seguire. Ma se vuoi parlarmene, ti ascolto.”
 
Bruce lo ringraziò, ma la conversazione terminò lì. Così lo sguardo di Jim ricadde sul fabbro al lavoro e gli tornò in mente di quando, solo il giorno prima, era andato a farsi fare una copia della chiave per darla a Oswald.
 
Si sentiva proprio stupido, visto com'erano andate le cose, e ora quella chiave non sarebbe nemmeno più servita.
 
Infilò una mano nella tasca della giacca trovandola lì dove l'aveva lasciata, e se la rigirò distrattamente tra le dita. Si accorse che Bruce l'aveva notata, ma non gli chiese niente e lui gliene fu grato. Alla fine si alzò e la buttò senza troppi complimenti nel cestino della cucina.
 
“La casa è pulita,” annunciò Fox, poco dopo. “Non c'è alcuna traccia di microspie di nessun tipo.”
 
“Grazie, signor Fox. Ti devo qualcosa per il disturbo?” gli chiese Jim, che adesso si sentiva decisamente sollevato.
 
“Nessun disturbo, ma mi chiami pure Fox, o Lucius.”
 
“Allora lei mi chiami Jim,” ribatté, grato dell'aiuto.
 
Bruce, Alfred e Fox andarono via e il fabbro finì poco dopo, consegnando le nuove chiavi a Jim. Harvey fu quello che si trattenne di più, ma alla fine se ne andò anche lui.
 
Jim, rimasto solo, si accorse che non sapeva bene cosa fare del suo tempo. Quindi, con un po’ di sconforto, accese la televisione e si sedette sul divano.
 
 
Dopo il weekend, altri giorni trascorsero nella monotonia. Al lavoro, Jim non era più di buon umore, ma in compenso si era accorto che nemmeno Nygma lo era.
 
Non c'erano stati messaggi da parte di Oswald né chiamate, e non si erano visti neanche per caso, il che lo faceva sentire tagliato fuori e non gli piaceva. La verità era che lui gli mancava terribilmente.
 
Alla fine aveva riflettuto su di loro e sul suo comportamento, e aveva capito di aver reagito troppo male. Aveva accettato Oswald, lato oscuro compreso… perché faceva parte di lui.  Quella sera al suo club, però, glielo aveva rinfacciato. Era stato pessimo.
 
Ora si rendeva conto che non aveva senso paragonarlo a nessun altro, o arrabbiarsi perché, quando si trattava di lui, faceva due pesi e due misure. Dopotutto, avevano gestito sempre il loro rapporto con una sottile trasparenza che permetteva a Oswald di non mentire, ma anche di non entrare nei dettagli, e a Jim andava bene così.
 
Era come quando lui stava lavorando su un caso, e allora non poteva rivelare nulla a riguardo. O come quando lavorava su delle scene del crimine particolarmente cruente, e sapeva che avrebbe dovuto tenere per sé quei dettagli macabri.
 
La differenza era che Jim era un detective e Oswald un criminale, ma lui lo aveva saputo sin dall’inizio.
 
E per quanto i suoi valori non fossero cambiati, i suoi sentimenti erano più forti e più importanti, quindi sarebbe stato in grado di passare sopra a tutto quanto.
 
Ma voleva davvero farlo? Perché forse, con un po' di pazienza e di sofferenza, sarebbe riuscito a dimenticarlo e ad andare avanti. Forse un giorno sarebbe riuscito a trovare un'altra persona con cui poter avere una relazione normale, alla luce del sole, e senza doversi fare scrupoli di coscienza.
 
Jim si sentiva male al solo pensiero, ma stava vagliando ogni opzione.
 
Soprattutto, perché credeva che anche Oswald, trovando qualcuno più simile a lui, sarebbe stato meglio… Qualcuno che non si sarebbe arrabbiato perché un suo amico era un pazzo omicida, e che non avrebbe fatto marcia indietro sul loro rapporto per questo. Ripensandoci per l’ennesima volta, Jim sospirò.
 
Lo voleva, era più forte di lui. Era inutile raccontarsi favolette sul dimenticare e andare avanti… Ma erano già passati diversi giorni e lui non sapeva bene cosa fare. Forse Oswald c'era rimasto così male che non voleva più saperne di lui… e Jim poteva immaginarsi molto bene questo scenario.
 
Altrimenti, perché non aveva mai provato a contattarlo? Certo, spettava a Jim il prossimo passo dopo le cose che gli aveva detto, però quel silenzio gli sembrava comunque strano.
 
Cosa stava facendo? Come stava? Avrebbe tanto voluto avere un conoscente comune per potergli chiedere sue notizie.
 
Nygma ovviamente era fuori discussione, non voleva più avere niente a che fare con lui.
 
La mattinata lavorativa trascorse nella noia, perché lui e Harvey avevano da poco chiuso un caso, perciò ebbe molto tempo per riflettere. A pranzo uscirono e il suo amico lo distrasse con discorsi leggeri, probabilmente perché era consapevole dello stato in cui versava da giorni.
 
Poi tornarono al distretto, a dedicarsi ad altre scartoffie.
 
“Detective Gordon, ha una visita,” gli disse un collega, che si era avvicinato non visto alla sua scrivania.
 
Era ormai pomeriggio inoltrato, e quando Jim sollevò lo sguardo si ritrovò a schiudere le labbra per la sorpresa.
 
“Signor Van Dahl,” esclamò alzandosi in piedi. “Che sorpresa, cosa ci fa qui?”
 
Dopo averglielo chiesto, ebbe l’istinto di guardarsi intorno ma l’uomo era solo.
 
“Via Jim, chiamami Elijah,” gli chiese lui con un sorriso, il solito tono di voce gentile e accogliente. “Sono uscito per delle commissioni insieme a Grace, dato che oggi mi sentivo in forze, e già che eravamo in zona ho deciso di passare a salutarti. Mia moglie però ha preferito restare in auto.”
 
“Me la saluti tanto,” gli disse Jim, iniziando a spostare di lato le carte sparpagliate sulla sua scrivania. “Prego, si sieda.”
 
“Grazie,” accettò, accomodandosi di buon grado.
 
“Salve,” lo salutò Harvey, e solo in quel momento Jim si accorse che lui era lì, e quindi che non avrebbero potuto parlare in privato. “Sono Harvey Bullock, il partner di Jim.”
 
“Oh, è un piacere conoscerla detective Bullock,” rispose gentilmente, per poi sposare lo sguardo su Jim che lo stava ancora osservando.
 
Doveva chiedere, doveva sapere come stesse Oswald. Dopotutto, Elijah non doveva essere passato solo per vederlo.
 
“Mi fa molto piacere vedere che sta meglio. Suo figlio… come sta?” gli domandò, seppur con esitazione.
 
“Viene spesso a trovarmi e si prende sempre cura di me. Sono certo che sia grazie a lui se mi sembra di stare bene come non succedeva da tanto tempo. Però… è molto triste ultimamente. Cerca di nasconderlo, ma sai anche tu com’è fatto, è un libro aperto.”
 
Jim deglutì il nodo che gli si era formato alla gola. Anche lui stava male… ed era tutta colpa sua.
 
“James, so che state insieme. Con me potete parlare apertamente.”
 
“Gliel’ha detto?” gli chiese, sorpreso.
 
Non credeva che Oswald si sentisse pronto, ma se Elijah era così sereno a riguardo allora era andata bene.
 
“No, l’ho capito guardandovi sin dal primo momento. Quando gli ho chiesto perché non venivi più a cena da noi, mi ha detto che sei troppo impegnato con il lavoro… ma era ovvio che non fosse così.”
 
“Mi dispiace. Abbiamo avuto… delle divergenze,” rispose, non sapendo bene cosa dirgli.
 
“Non devi scusarti con me, James. La domanda è: tu ci tieni ancora a lui?”
 
“Sì,” rispose senza il bisogno di riflettere, ammettendolo finalmente ad alta voce. “Ma forse… lui è arrabbiato con me e non vuole vedermi…”
 
“Non è così. Fidati del mio giudizio,” disse e si alzò. “Questo sabato sera, alla villa daremo un ricevimento per il compleanno di Grace. I nostri ospiti vengono tutti da fuori Gotham, persino dall’estero. Sono tutti amici ai quali finalmente potrò presentare mio figlio… e vorrei che anche tu ci fossi. Non serve portare un regalo, basta la tua presenza.”
 
Jim ponderò il suo invito, agitato al pensiero di rivedere Oswald e di farlo in un contesto del genere.
 
“Io… ci sarò, grazie Elijah,” rispose, perché era davvero felice che fosse passato a trovarlo e che gli avesse fornito quell’occasione. “L’accompagno alla porta.”
 
Scesero insieme le scale e attraversarono la sala, fianco a fianco, in un silenzio carico di pensieri e di programmi.
 
“Non dirò a Oswald che sono stato qui,” aggiunse il signor Van Dahl, rivolgendogli un sorriso prima di varcare la porta principale.
 
“Grazie. Abbia cura di sé,” gli disse Jim.
 
Tornato alla sua scrivania, si accorse dello sguardo di Harvey fisso su di lui.
 
“Il padre del tuo ragazzo, deduco,” al che Jim si limitò ad annuire. “Non mi avevi detto che è ricco... Per caso ha anche una figlia che puoi presentarmi?”
 
Jim scosse la testa e si rimise al lavoro.
 
 
Il weekend arrivò prima del previsto e Jim trascorse tutta la giornata di sabato a prepararsi e a decidere cosa dire a Oswald.
 
Era passata una settimana da quando avevano litigato e da allora nessuno dei due si era fatto sentire, il che avrebbe creato un’atmosfera spiacevole quando si sarebbero rivisti, ne era certo.
 
Malgrado questo, voleva riaverlo nella sua vita e sperava che non fosse tardi.
 
Per non sfigurare troppo tra i ricchi invitati della famiglia Van Dahl, Jim aveva comprato un completo nuovo, anche se era certo che non sarebbe stato all’altezza. Era nero e abbastanza semplice, ma dove la giacca si ripiegava sul davanti il tessuto diventava liscio e lucido. Qualcosa di non troppo diverso da ciò a cui era abituato, non troppo estroso, ma che con un po’ di fortuna sarebbe sembrato più ricercato.
 
Quanto a un regalo, era felice che Elijah gli avesse detto che non serviva, perché non aveva idea di cosa avrebbe potuto prendere per una ricca strega che aveva tentato di lasciar morire il marito.
 
Mentre si preparava, Jim ripassò nella mente le parole che avrebbe voluto dire a Oswald, sperando che lui gliene lasciasse l’occasione. Intendeva arrivare presto, così da riuscire a parlargli in privato, o almeno era ciò che sperava.
 
Gli avrebbe chiesto scusa, detto che era tutta colpa sua e che non voleva che la loro relazione finisse così. E poi intendeva mettere in chiaro cosa fossero l’uno per l’altro.
 
Con questo obiettivo in mente, si mise la cravatta, controllò di avere i capelli in ordine e uscì.
 
Raggiunse la villa dei Van Dahl che erano appena le diciotto e sperò che Oswald fosse già arrivato. Era decisamente presto, ma era stato troppo impaziente di parlargli per riuscire a rimanere a casa in attesa, con le mani in mano. Quindi si fece coraggio, scese dall’auto e si diresse all’ingresso.
 
Olga gli aprì la porta e sembrò sorpresa di vederlo, ma come sempre non disse nulla e lo fece passare.
 
Il salone all’ingresso della villa era stato trasformato in un grande spazio libero con lunghi tavoli ai lati, l’illuminazione delle candele era avvolgente e intorno ai corrimani delle grandi scale che portavano al piano di sopra erano state intrecciate delle decorazioni dorate, sottili ed eleganti.
 
Jim si guardò attorno, sorpreso di come fosse cambiato l’ambiente, ma soprattutto intenzionato a trovare Oswald. Invece vide il signor Van Dahl che usciva da un corridoio laterale, quello che portava alla sala da pranzo e al salotto più interno.
 
Stava dando delle indicazioni al catering, ma quando anche lui lo notò gli sorrise e congedò il personale con un gesto gentile.
 
“James, che piacere. Oswald è di sopra, nella sua stanza.”
 
Jim non perse tempo, lo salutò e salì le scale. Non era mai entrato nella stanza che avevano dato a Oswald, ma lui gliela aveva indicata una volta, quando erano saliti a portare le nuove medicine a suo padre.
 
Quando fu arrivato fuori dalla porta, cercò di ignorare il nodo che sentiva allo stomaco e bussò.
 
“Avanti,” sentì dire, ed era la prima volta che sentiva la voce di Oswald da troppo tempo.
 
Aprì la porta con ritrovata incertezza, temendo come avrebbe reagito nel ritrovarselo davanti all’improvviso.
 
Oswald era in fondo alla stanza, si stava sistemando la cravatta con gesti che tradivano il suo nervosismo e indossava un completo decorato sui toni del verde scuro, la cui giacca era appoggiata sullo schienale di una sedia.
 
Finalmente si voltò verso di lui e Jim vide la sua espressione tendersi ancora di più per la sorpresa, mentre schiudeva le labbra.
 
“James… Che ci fai qui?” chiese a mezza voce.
 
“Sono venuto a scusarmi. Posso entrare?” gli domandò, non osando fare un passo senza il suo permesso.
 
“Sì… entra pure.”
 
Il detective lo fece e chiuse la porta alle sue spalle, quindi lasciò andare un sospiro silenzioso.
 
“Mi dispiace per come ti ho trattato, sono stato un idiota… Ho reagito male perché ero arrabbiato, ma tu non c’entravi nulla,” iniziò, rimanendo vicino alla porta.
 
“Avresti potuto chiamare o scrivermi un messaggio…” lo interruppe, abbassando lo sguardo.
 
“Lo so, ma temevo che non volessi sentirmi. E stavo… riflettendo. Su di noi, su come mi sono comportato, su tutto…” sospirò di nuovo, avvicinandosi a lui ma restando comunque a debita distanza. “Tu mi piaci, Oswald. Come nessun altro mi è piaciuto mai… E io accetto tutto di te, anche se quella sera mi sono comportato in un modo che dimostrava il contrario, e me ne pento profondamente.”
 
“Come hai fatto a sapere della festa?” gli chiese sempre senza guardarlo in faccia, ignorando le tue parole.
 
“Tuo padre è venuto a trovarmi al lavoro, qualche giorno fa,” rivelò, e lo vide finalmente alzare su di lui uno sguardo incredulo. “Ha capito ciò che c’è tra di noi e mi ha detto come stavi. Io gliel’ho chiesto, il pensiero che potessi stare male a causa mia mi tormentava. Ma pensavo anche che avresti potuto trovare di meglio, qualcuno che non si sarebbe mai arrabbiato con te per il tuo lavoro… e non trovavo il coraggio di parlarti…”
 
“Non essere sciocco, Jim,” gli disse Oswald, gli occhi lucidi ancora fissi nei suoi. “Io non ho mai voluto di meglio. Mi piaci da molto tempo e stare con te era un sogno diventato realtà… ma mi aspettavo che prima o poi avremmo litigato a causa mia.”
 
“Ma è per colpa mia che è successo,” ribatté Jim, avvertendo una morsa dolorosa nel petto. “Avrei dovuto mantenere la calma, invece mi sono arrabbiato con te che non c’entravi nulla. Sono stato pessimo… Posso capirlo, se non vuoi avere più niente a che fare con me.”
 
“Non è così,” gli disse subito Oswald, facendo un passo nella sua direzione. “Se non mi avessi contattato entro il weekend, sarei venuto a cercarti a casa. Non sopportavo che le cose finissero così, senza neanche provare a chiarirci. Io voglio ancora stare con te.”
 
Jim sentì finalmente il dolore che aveva nel petto farsi più tenue, ma non era ancora sicuro che avessero risolto del tutto.
 
“Allora mi perdoni?” gli chiese, per accertarsene. “Tra noi è tutto a posto?”
 
“Sì, James,” sussurrò, mentre il detective si avvicinava di più e gli accarezzava una guancia con la mano destra.
 
I suoi occhi erano ancora lucidi, ma non stava piangendo.
 
“Prometto di trattarti con più cura d’ora in poi,” disse, e con la mano scese per sistemargli il nodo alla cravatta. “Con la cura che meriti…”
 
“E io mi impegnerò per venirti in contro, e per tentare di farti ragionare quando necessario.”
 
Jim accennò un sorriso, questa volta davvero sollevato.
 
“Grazie… Spero di non farti penare troppo. Posso baciarti?” gli chiese, ma fu Oswald ad avvicinarsi per primo.
 
Si diedero un bacio, poi un altro e poi un altro ancora, e quando tornarono a guardarsi negli occhi a Jim parve di essere tornato a respirare dopo tanto tempo. Oswald lo guardava come si guarda qualcosa di prezioso, di importante, con occhi lucidi di emozione… E Jim fu davvero grato di essere andato da lui, di non aver preso davvero le distanze con la scusa che non si sarebbero mai capiti e che l’avrebbe fatto solo soffrire.
 
Non voleva farlo soffrire e si sarebbe impegnato in tal senso.
 
“Ho bisogno di chiederti una cosa, anche se forse è una domanda stupida… ma non ne abbiamo mai parlato finora,” disse, e constatando che Oswald lo stava ascoltando in silenzio continuò. “Noi due stiamo insieme?”
 
Oswald inspirò rumorosamente, poi il suo sorriso si fece più ampio e carico di imbarazzo.
 
“Oh… s-sì, se lo vuoi anche tu,” rispose, abbassando lo sguardo ma solo per un istante.
 
“Certo che lo voglio,” affermò il detective, accarezzandogli piano con la mano sinistra le ciocche di capelli che aveva sulla fronte. “Diciamo, ufficialmente da oggi? Il nostro anniversario sarà il compleanno di Grace?”
 
“Mi sembra un’ottima idea,” convenne, una risata non del tutto celata nel suo tono di voce. “Sono felice che tu sia qui, la serata si prospetta intensa. Ma aspetta, hai detto che mio padre sa di noi? Glielo hai detto tu?”
 
“No, dice di averlo capito non appena ci ha visti,” rispose Jim, rivolgendogli un sorriso imbarazzato.
 
“Allora non serve più fingere. Anche se immagino che dovremo parlargli apertamente di questo, prima o poi,” disse, recuperando la giacca e indossandola. Dopo averlo fatto gli offrì la sua mano destra. “Vogliamo andare?”
 
Jim annuì, fece intrecciare le loro dita e aprì la porta per lui.
 
Era ancora presto per l'arrivo degli ospiti, perciò trovarono ancora vuote le grandi sale della villa. In compenso, i dipendenti del catering avevano iniziato a imbandire i tavoli di piccoli piattini dal contenuto apparentemente gustoso e costoso.
 
Il signor Van Dahl era sparito da qualche parte e degli altri membri della famiglia non c'era l'ombra. Forse Sasha stava aiutando Grace a prepararsi, immaginò Jim, mentre Charles chissà dov'era finito. Non che a Jim dispiacesse avere ancora un po’ di tempo per stare da solo con Oswald, soprattutto perché sembrava che presto sarebbero arrivate moltissime persone.
 
“Stai benissimo oggi,” gli disse, ancora tenendolo per mano mentre si dirigevano insieme verso il salotto interno, più piccolo e appartato, in cui di solito si accomodavano dopo le cene.
 
“Grazie…” rispose Oswald, con un accenno di rossore sulle guance. “Questo è il completo che ha realizzato per me mio padre. Ci tenevo molto a indossarlo.”
 
“Beh, è stupendo,” sottolineò, esaminandone ancora con lo sguardo il motivo sofisticato.
 
“Anche tu ti sei impegnato per questa sera, vedo. Non è uno dei tuoi soliti completi,” notò, al che Jim sorrise.
 
“Sì, ci ho provato. Anche se non sarò lontanamente all'altezza vostra e dei vostri invitati,” buttò lì con leggerezza ma era quello che pensava veramente.
 
“Lo sei, anche senza un vestito firmato,” rispose Oswald.
 
Anche se nel resto della casa sembrava esserci del fermento, in quel salotto si stava tranquilli per ora e così si sedettero.
 
“Cosa mi sono perso in questi giorni? Ho visto che tuo padre sta molto meglio,” disse Jim, intenzionato a recuperare.
 
“È grazie alla nuova terapia. Vengo qui ogni sera per dargli le medicine, poi a volte resto per cena mentre altre torno in città per lavoro. A proposito, una di queste sere mi sono fermato a dormire e l'indomani mattina ho trovato Sasha in camera mia, che provava a entrare nel mio letto…” raccontò, con una nota divertita nella voce.
 
“Che cosa?” chiese Jim, allibito.
 
La sorellastra di Oswald ci aveva provato con lui in modo così spudorato, e mentre Jim non c'era? Aveva l'impressione che di lei non si potesse fidare e questa ne fu la conferma.
 
“Forse Grace temeva che li avrei uccisi per la storia delle medicine, se non mi avesse dato qualcosa in cambio. E quel qualcosa era sua figlia!” aggiunse, rivolgendogli una faccia divertita che voleva sottolineare l'assurdo.
 
“Forse dovrei iniziare a fermarmi qui con te anche io…”
 
“Per favore, fallo. Credo che mio padre non avrebbe niente da ridire a questo punto… anche se probabilmente prima dovremmo parlargli di tutto,” disse Oswald, abbassando lo sguardo.
 
“Qualcosa non va?” gli chiese Jim, preoccupato.
 
“No, è solo che nessuno ha mai saputo che sono gay, nemmeno mia madre… Tu sei il primo con cui riesco a essere davvero me stesso, e mio padre è il primo che lo capisce e lo accetta. Mi sembra ancora incredibile…”
 
Jim diede una leggera stretta alla sua mano e gli rivolse un sorriso.
 
“Io l'ho detto ad Harvey,” raccontò, e Oswald gli rivolse uno sguardo sorpreso. “Non di noi due in particolare ma, sì, che sto con un uomo. Ha fatto una battuta, ma è finita lì.”
 
“È stato difficile per te parlarne?” gli chiese, in un tono di voce preoccupato.
 
“Un po’, ma si trattava di Harvey, è il mio migliore amico e sapevo di potermi fidare, così alla fine l'ho detto e basta. Anche se poi mi è scappato pure con Bruce e Alfred,” ammise, sorridendo perché si sentiva stupido a ripensarci.
 
“E com'è successo?” gli chiese Oswald, sembrando divertito a sua volta.
 
Jim esitò un istante prima di raccontare, indeciso se rievocare o no ciò che era successo, ma alla fine si disse che non potevano evitare l'argomento per sempre.
 
“Erano a casa mia, insieme a un loro conoscente che ha controllato che non ci fossero microspie nell'appartamento. Ero un po’ paranoico… Comunque, non c'era niente,” tagliò corto.
 
“Oh… Capisco. Mi dispiace,” rispose, abbassando lo sguardo.
 
“Non devi dispiacerti perché non hai colpe,” sottolineò, convinto di questo. “E comunque, ritengo la questione chiusa.”
 
Certo, Edward aveva ancora la lettera ma Jim aveva comunque le mani legate, quindi per il momento stava cercando di non pensarci.
 
Il signor Van Dahl varcò la soglia del salotto in quel momento, lo sguardo puntato sulle loro mani intrecciate e il sorriso sulle labbra.
 
Oswald strinse un po’ di più, forse perché nervoso nel farsi vedere per la prima volta così da suo padre.
 
“Eccovi qui, ragazzi. Che bello vedere che avete risolto.”
 
“Sì. Grazie per avermi dato la spinta che mi serviva, Elijah,” gli disse Jim. “Non rischierò più di mandare tutto all'aria,” aggiunse, spostando lo sguardo su Oswald.
 
Lui ricambiò lo sguardo con uno carico di emozioni che smosse qualcosa nel petto di Jim.
 
“Splendido. Ormai non manca molto all'arrivo dei primi ospiti, ma non vi ho chiesto come vi devo presentare.”
 
Loro si scambiarono un altro sguardo, questa volta incerto.
 
“Non abbiamo ancora detto a nessuno… di noi,” rispose Oswald, con un po’ di esitazione. “Quindi forse sarebbe meglio continuare a dire che siamo amici.”
 
Jim annuì, perché aveva pensato la stessa cosa.
 
“A proposito, padre… Grazie. Sei la prima persona che lo sa e che lo accetta.”
 
“Non serve ringraziarmi, Oswald. Sei mio figlio,” sottolineò e gli sorrise, in un modo che rendeva chiaro quanto gli volesse bene. “E tu, James, sei il benvenuto in famiglia. Adesso andiamo nel salone.”
 
Seguirono Elijah di là, dove erano arrivati anche Sasha e Charles. Il ragazzo aveva già iniziato a mangiare qualcosa, ma quando vide arrivare il padre si fermò fece finta di niente.
 
“Oh, sei tornato James,” disse, sorpreso, poi notò che si stavano ancora tenendo per mano e schiuse le labbra.
 
Anche Sasha ci aveva fatto caso e sembrava sconvolta.
 
Per il resto della serata cercarono di essere più discreti, quindi ridussero il contatto al minimo, ma rimasero comunque vicini. Poi ogni tanto Elijah presentava qualcuno a Oswald, e a volte James si allontanava con la scusa di prendere da bere per entrambi.
 
Grace fece il suo ingresso più tardi, in un lungo abito scintillante ed elegante che la faceva sembrare una regina. Tutti gli invitati applaudirono al suo ingresso, e anche loro lo fecero per mantenere la facciata.
 
I festeggiamenti rimasero tiepidi, dopotutto era un evento tra persone altolocate che chiacchieravano, bevevano e mangiavano qualcosa. L'età media era avanzata, ma c'erano anche un paio di ragazzini che si erano ritirati in sala da pranzo a giocare.
 
I pochi giovani invece occupavano un angolino appartato e si comportavano proprio come i loro genitori. Nel gruppetto c'erano anche Sasha e Charles, il che suggeriva che fossero tutti amici.
 
Jim e Oswald avrebbero potuto farsi avanti, presentarsi e scambiare due chiacchiere, ma per cosa? Probabilmente erano tutti quanti snob, e magari i fratellastri li avevano già messi in guardia sul loro conto.
 
Preferirono restare in disparte, a commentare la situazione mentre assaggiavano qualcosa dal buffet.
 
“Sasha è una stronza e Charles un lecchino che non sa pensare con la sua testa,” disse Oswald dopo un po’, quando i fratelli si allontanarono dagli amici per prendere da bere e rivolsero a loro un'occhiata strana.
 
Jim per poco non si strozzò con lo champagne per divertimento causato dal suo commento improvviso.
 
“Non li conosco quanto te, ma non lo metto in dubbio,” gli rispose. “Una delle prime sere qui, ero tornato in sala da pranzo a cercare qualcosa da bere e c'era anche Sasha. Mi ha messo una mano sul ginocchio e chiesto cosa ci facessi in casa vostra.”
 
Oswald non rispose, ma Jim si accorse che aveva serrato la mascella.
 
“Poi è arrivata sua madre che ha detto praticamente la stessa cosa. Credo che in realtà volessero mandarmi via per paura che io scoprissi cosa stessero facendo…”
 
“Ma tu sei rimasto e hai scoperto tutto comunque,” sottolineò Oswald, con un sorriso compiaciuto. “Ho bevuto troppo, usciamo a prendere una boccata d'aria.”
 
Una volta all'esterno della villa, Jim poté respirare l'aria fresca della sera e si sentì meglio. Feste del genere non facevano proprio per lui, mentre sarebbero state il pane quotidiano della sua ex, Barbara. Lei era cresciuta in una famiglia ricca.
 
Oswald sembrava relativamente a suo agio, se non fosse stato per Grace e i suoi figli.
 
Rimasero in silenzio per un po’, seduti sulla panchina all'esterno. A un certo punto, tra il vociare all'interno, sentirono qualcuno dire ad alta voce la parola “torta”, ma restarono comunque lì.
 
“Se vuoi tornare dentro…” iniziò a dire Jim, dopo un po’.
 
“No, preferisco stare qui. So che tu non sei a tuo agio in un ambiente di questo tipo.”
 
“Ma posso sopportarlo per te,” dichiarò, al che Oswald si appoggiò con una spalla alla sua.
 
“Non devi, non sempre. Non stasera almeno, quando la regina della festa è Grace.”
 
Dopo averlo detto, Oswald si irrigidì.
 
“Sono molto fiero di te, lo sai?” sottolineò Jim.
 
“Lo sto facendo per mio padre e per te,” rispose Oswald, a sguardo basso. “Ma ora che lo vedo stare meglio, e che siamo sicuri che lei non tenterà più nulla, mi sento meno arrabbiato.”
 
“Mi fa piacere,” disse Jim.
 
Vederlo tranquillo a riflettere sotto la luce della luna aveva qualcosa di magico. I rumori della festa erano solo un vago brusio in sottofondo, come se lì ci fossero solo loro due. Oswald con la sua pelle pallida, i suoi occhi chiari e le dita affusolate troppo lontane dalle sue… E Jim, che avrebbe tanto voluto baciarlo in quel momento. Ma intendeva trattenersi.
 
“Sono felice, per la prima volta dopo tanto tempo,” gli sentì dire, e si riscosse dai suoi pensieri. “Qui con te, e con mio padre… Non è tutto perfetto, ma mi sembra comunque incredibile.”
 
“Anche io sono felice,” gli disse Jim, non resistendo alla tentazione di prenderlo per mano.
 
Oswald fece intrecciare le loro dita e gli rivolse un sorriso.
 
“Ho una cosa per te,” annunciò Jim, ed estrasse una chiave dalla tasca della giacca.
 
Alla fine l'aveva fatto, era tornato dal ferramenta e si era fatto fare un'altra copia della chiave di casa, quella nuova dopo aver cambiato la serratura. La sua intenzione di darla a Oswald non era cambiata, e sentiva di non poter resistere ancora.
 
Mentre gliela porgeva, vide i suoi occhi scintillare di consapevolezza ed emozione.
 
“È la chiave di casa mia,” precisò comunque. “So che stai alla tua villa, e puoi anche venire qui, ma se ti servirà qualcosa o avrai semplicemente voglia di vedermi… vieni. Solo, avvisami per messaggio così lo saprò.”
 
“Oh James… Ne sei sicuro?” gli chiese corrugando leggermente la fronte mentre la prendeva dalla sua mano.
 
“Certo. Mi fido di te e voglio che tu possa andare e venire come preferisci dal mio appartamento. Immagino che ci saranno dei periodi in cui faremo fatica a trovare il tempo per vederci… e allora tu avrai la chiave, anche solo per venire a dormire accanto a me, se lo vorrai.”
 
Oswald lo abbracciò e quando tornarono a guardarsi negli occhi Jim vide che stava piangendo. Con una mano gli asciugò le lacrime e gli sorrise, sentendosi emozionato a sua volta.
 
Non lo stava invitando a vivere con lui, ma era comunque un passo importante. Inoltre per Jim era la prima volta, dato che gli era successo sempre il contrario. Quando aveva una relazione, era lui a fermarsi dalle persone che frequentava, anziché farle venire nel suo impersonale appartamento da single. Questa volta stava succedendo l'opposto e l'idea inaspettatamente gli piaceva molto.
 
Restarono fuori ancora un po’, a contemplare in silenzio la vicinanza reciproca, dopodiché Jim si alzò.
 
“Che ne dici, entriamo a mangiare una fetta di torta?” propose, e Oswald lo seguì.
 
La serata proseguì tranquilla, tra socialità forzata e brindisi a Grace, ma almeno la torta era buona.
 
Alla fine Jim si trattenne fino a tardi, e quando tutti gli invitati se ne furono andati salutò con l’intenzione di tornare a casa, ma non prima di proporre a Oswald di rivedersi l’indomani per fare colazione nel loro posto segreto.
 
 
Il giorno dopo, Jim passò a prenderlo alla villa alle sette in punto e lo avvisò del suo arrivo con un messaggio.
 
La casa era silenziosa a quell’ora, sembrava che dormisse insieme ai suoi abitanti. Dopotutto, non solo era presto ed era domenica, ma la sera prima c’era stata una festa. Forse solo Olga era sveglia, a pulire e riordinare perché i suoi datori di lavoro non trovassero alcuna traccia dell’evento al loro risveglio.
 
Poco dopo Oswald uscì dalla porta. Indossava un completo nero ma non per questo semplice, infatti aveva delle decorazioni visibili in controluce. Forse lo aveva indossato il giorno precedente prima della festa, quando si era cambiato per mettere quello che gli aveva fatto suo padre.
 
Jim lo guardò scendere le scale e salire sulla sua auto, ma quando fece per mettere la cintura lui la prese dalle sue mani per allacciargliela personalmente. Lo fece sporgendosi nella sua direzione, e il gesto fu calmo e carico di cura.
 
“James… Sei l’unico uomo in tutta Gotham che mi riserverebbe mai questo genere di premure,” gli disse Oswald, colpito.
 
“Se non fosse così sarei molto geloso. Andiamo?”
 
“Sì, andiamo.”
 
Il viaggio verso la caffetteria tedesca fu più lungo rispetto all’altra volta, perché si trovavano in tutt’altra parte della città, ma era presto perciò avevano tempo, e lo avrebbero usato per parlare.
 
“Hai dormito bene?” gli chiese Jim, volendo iniziare la conversazione.
 
“Sì, anche se non molto, ma ci sono abituato. Lavorando al club, spesso faccio le ore piccole e l’indomani mi sveglio presto per sbrigare altre faccende," specificò.
 
“Io di solito vengo tenuto sveglio da pensieri relativi al lavoro…” ammise Jim. “Quindi anche io sono abituato a dormire poco. Ma ho un gran bisogno di un caffè."
 
“Vuoi che guidi io?” propose Oswald.
 
“No, non sono così stanco. Ieri sera è successo qualcosa quando me ne sono andato via? Grace o i suoi figli ti hanno parlato?” gli chiese, ricordando come lo avessero lasciato in disparte per tutto il tempo.
 
“No, sono andati subito a dormire, ma ho preferito così. In compenso sono rimasto un po’ da solo con mio padre, per dargli le medicine, e mi ha ripetuto che è stato molto felice di averci entrambi lì,” svelò. “Sembra stare sempre meglio, in questi giorni… E so che la sua malattia non è reversibile, ma sono fiducioso. Credo che abbia recuperato molto tempo.”
 
“Lo credo anche io,” concordò Jim. “È un ottimo padre, un uomo gentile. Se lo merita.”
 
Oswald annuì.
 
“Non mi hai detto come hai trascorso tu questi giorni,” realizzò poi, voltandosi verso Jim.
 
Il detective sospirò.
 
“Non ho molto da raccontare in realtà… Ho lavorato fino a tardi, tranne i giorni in cui Harvey ha insistito perché uscissi a bere con lui. Mi mancavi e mi sentivo in colpa,” tagliò corto.
 
“Non pensiamoci più allora. L’importante è che adesso stiamo insieme.”
 
Trascorsero il resto del viaggio a parlare, e quando raggiunsero la loro destinazione parcheggiarono ed entrarono nella caffetteria, a prendere qualcosa da mangiare passeggiando.
 
Il cielo era coperto e c’era una buona probabilità che nevicasse, visto quanto faceva freddo. Camminarono fianco a fianco gustando la loro colazione calda, che finirono di mangiare seduti al parco scoperto due settimane prima.
 
“Si sta proprio bene qui,” commentò Oswald, allungando un braccio sullo schienale della panchina, oltre le spalle di Jim.
 
Nell’altra mano teneva ancora il suo tè, che sorseggiava tra una chiacchiera e l’altra.
 
“Voglio dirlo ad Harvey. Di noi, intendo,” disse Jim all’improvviso.
 
Ci stava riflettendo da un po’ e sentiva che era arrivato il momento giusto. Dopotutto, era il suo migliore amico nonché colui che sopportava i suoi sbalzi d’umore al lavoro. Gli aveva sempre dato manforte e sì, probabilmente avrebbe dato di matto una volta scoperta tutta la verità, ma poi avrebbe capito.
 
“Ne sei sicuro?” gli chiese Oswald, con gli occhi sgranati per la sorpresa. “Sai che reagirà male, vero?”
 
“Sì ma glielo devo. È da un po’ che ascolta i miei sfoghi e che si chiede con chi sto uscendo.”
 
“Hai qualcosa di cui sfogarti con Bullock?”
 
Dopo averlo chiesto, bevve un sorso di tè continuando a guardarlo negli occhi.
 
“No, intendo dire che quando mi ha visto giù mi ha aiutato, e mi ha sempre ascoltato. Per te è un problema?”
 
“No, se non lo è per te. Sei tu che devi affrontarlo e che poi dovrai vederlo tutti i giorni al lavoro.”
 
“In realtà speravo che glielo avremmo detto insieme. Del tipo, ‘vieni che ti presento il mio ragazzo’ e poi, sorpresa, arrivi tu,” buttò lì, cercando di immaginarsi la scena.
 
Oswald si mise a ridere.
 
“Se facciamo così possiamo essere certi che fa una scenata.”
 
“Già, hai ragione… Beh, vorrei che glielo dicessimo. La tua famiglia lo sa, e purtroppo anche Nygma lo sa. Non dico che dobbiamo urlarlo ai quattro venti, però possiamo scegliere le persone a cui vogliamo dirlo.”
 
“In realtà l’ho detto anche a Gabe.”
 
“Gabe, ovvero… il tuo sottoposto?” domandò Jim, rievocando l’ultima volta in cui lo aveva visto.
 
“Sì. Lui mi è fedele, parla poco e non giudica. E a differenza di altri, non ha spirito di iniziativa. Quindi l’ho detto a lui e… ecco…” fece oscillare la testa da un lato all’altro, forse valutando quali parole usare. “Mi sono lamentato un po’ con lui, nei giorni in cui non ci siamo sentiti,” rivelò, con un sorriso tirato.
 
“Okay, lo posso capire. Allora dalla tua parte lo sanno tuo padre, Charles e Sasha, probabilmente anche Grace ormai, poi Edward e Gabe. Mi è concesso dirlo almeno ad Harvey?”
 
“Puoi dirlo a chi vuoi, se lo ritieni giusto,” rispose con calma. “Finché non si tratta di persone che possono mettere in dubbio il tuo lavoro, sei tu il detective della GCPD,” gli fece notare.
 
E aveva dannatamente ragione.
 
“Harvey è a posto,” disse, e gli vennero in mente un altro paio di persone, ma per il momento decise di rimandare.
 
“Forse dovremmo concordare una versione dei fatti, sai, perché non sospettino che sia successo tutto con la morte di Galavan.”
 
A quelle parole, Jim si rese conto che, per quanto fosse d’accordo, non era sempre possibile.
 
“Buona idea, ma non funzionerà con Harvey. Quando eri ospite da me, lui ha capito subito che mi piaceva qualcuno.”
 
Ascoltando, Oswald gli rivolse un sorriso carico di imbarazzo.
 
“Dovrai dirgli la verità, allora. Sul fatto che mi ospitavi, quantomeno… Ne sono certo, darà di matto. Non vorrei essere presente per vederlo.”
 
“Io invece vorrei che tu lo fossi.”
 
“Va bene, James. Pensa a un’occasione in cui potrebbe non reagire troppo male e io mi organizzerò per esserci.”
 
Malgrado le buone intenzioni, le cose non andarono proprio come sperato.
 
I giorni successivi Jim si ritrovò sommerso dal lavoro a causa di un nuovo caso molto complesso. Lunedì e martedì rimase a lavorare fino a tardi, con molto altro nella testa per pensare di parlare con Harvey del suoi fatti personali, o per organizzare un incontro.
 
Non riuscì nemmeno a vedere Oswald, perché anche lui era molto impegnato, però almeno si sentivano al telefono in pausa pranzo, e per messaggio la sera.
 
Finalmente mercoledì lui e Harvey inchiodarono il colpevole, e dopo aver compilato una buona dose di scartoffie decisero di uscire a prendere da bere. Erano entrambi stanchi, ma Jim voleva festeggiare quanto lui, inoltre credeva che un po’ di alcol lo avrebbe aiutato a sciogliersi e ad affrontare finalmente il discorso.
 
“Fermiamoci a prendere qualcosa e andiamo a casa tua, è più vicina,” propose Harvey, e Jim non ebbe niente da ridire.
 
A casa avrebbe potuto parlare più liberamente, anche se ciò significava che Harvey avrebbe potuto urlargli contro in libertà.
 
Quando parcheggiò l’auto, però, si accorse che le luci erano accese.
 
“Cazzo…” sussurrò, e prese il cellulare per controllare se Oswald gli avesse scritto.
 
In effetti ci trovò un suo messaggio risalente ad alcuni minuti prima.
 
“James, sei a casa? Sono appena stato da mio padre, ha fatto sviluppare le foto quindi ho pensato di portartele,” diceva.
 
Le foto a cui faceva riferimento dovevano essere gli scatti di famiglia che Elijah aveva fatto fare durante la festa, e in alcuni di essi aveva voluto includere Jim.
 
“Che succede, c’è qualcuno che ti aspetta?” gli chiese Harvey, notando anche lui le luci accese.
 
“Sì… Il mio ragazzo ha scritto che passava, l’ho notato adesso.”
 
Anche se avevano convenuto di fare diversamente, si era creata una situazione da “vieni che ti presento il mio ragazzo” e poi, sorpresa, è Oswald. Jim avrebbe voluto sprofondare, perché immaginava che non sarebbe riuscito ad avvisare nemmeno lui ormai.
 
“Bene, così finalmente me lo presenti.”
 
“Aspetta Harvey,” gli disse Jim, ma lui stava già scendendo dall’auto, e così si sbrigò per stargli dietro.
 
“C’è qualche problema?” gli chiese, fermandosi sulla porta.
 
“No, ma in verità lo conosci già e so che non la prenderai bene,” precisò, volendo mettere le mani avanti con lui.
 
Detto ciò prese la chiave di casa con la mano destra e con la sinistra si fece passare la cassa di birre da Harvey, temendo che l’avrebbe fatta cadere per lo shock. Gli lasciò invece il sacchetto con le cose da mangiare, perché lì non c’era niente di fragile.
 
“Mi devo preoccupare?” gli domandò, sollevando un sopracciglio.
 
Jim prese un respiro profondo, domandandosi se fosse il caso di dirgli tutto lì, sull’uscio di casa prima di entrare, con il rischio che facesse la sua scenata all’aperto, ma che almeno fosse pronto all’incontro che stava per avvenire.
 
Ma alla fine decise che fosse meglio parlarne dentro.
 
“Aspetta un attimo a entrare e, per favore, non prenderla troppo male.”
 
Dopo averlo detto girò la chiave nella serratura ed entrò, trovando Oswald seduto al tavolo della cucina che guardava delle foto, con una tazza di tè fumante davanti.
 
“Mi dispiace, ho visto il messaggio solo adesso e sono qui con Harvey,” gli disse subito, per allertarlo, e Oswald sgranò gli occhi ma non fiatò.
 
Era tutto troppo improvviso, lo sapeva anche Jim e non avrebbe voluto creare quella situazione, ma ormai era troppo tardi.
 
“Allora Jimbo? Io entro,” disse Harvey da dietro la porta, e un attimo dopo fu nel soggiorno.
 
La sua espressione da stanca si fece tesa e poi sconvolta.
 
“Mi state prendendo per il culo?” domandò, spostando lo sguardo da Oswald a lui. “Jim, dimmi che è uno scherzo.”
 
“Ti presento il mio ragazzo, Oswald Cobblepot,” disse invece, chiudendo la porta perché lo scoppio di rabbia di Harvey non venisse udito dai vicini.
 
“Sorpresa, detective Bullock,” intervenne Oswald mentre si alzava in piedi, e l’espressione di Harvey si fece più scura quando il suo sguardo si posò su di lui in risposta.
 
“Come cazzo è potuto succedere? Jim, ti sei bevuto il cervello?”
 
“So che può sembrare assurdo, ma posso spiegare,” gli rispose Jim, appoggiando le birre sul tavolo per posizionarsi accanto a Oswald.
 
Devi spiegare,” sottolineò Harvey, in un tono di voce fortunatamente civile.
 
“Io comunque me ne stavo andando via,” annunciò Oswald, con un sorriso di circostanza che tradiva il suo nervosismo.
 
“No, resta,” gli chiese Jim, rivolgendogli uno sguardo implorante. “Almeno il tempo di finire il tuo tè.”
 
“Io ho bisogno di sedermi. E di una birra,” annunciò Harvey dirigendosi verso il divano, e Jim lo raggiunse con una birra in mano.
 
Oswald invece rimase dov’era, tornando seduto sulla sedia.
 
“Forza, spiega,” gli ordinò il suo migliore amico, dopo aver stappato la birra e bevuto un primo sorso.
 
“È successo tutto dopo la morte di Galavan,” ammise Jim. “Gli ho dato rifugio qui da me, in quei giorni ci siamo conosciuti meglio ed è scattato qualcosa. C’è poco altro da dire in realtà.”
 
“Hai dato asilo a un criminale in casa tua?” gli chiese, allibito.
 
“Sapeva che non ero colpevole,” intervenne Oswald, con la tazza sollevata per bere un sorso di tè, e tecnicamente non aveva mentito.
 
“A te non ho chiesto niente,” lo rimbeccò Harvey assottigliando lo sguardo.
 
“Per favore Harvey, sii civile.”
 
“Non sto urlando, Jim, direi che mi sto già impegnando a essere civile.”
 
Mentre lo ascoltava, Jim prese una birra per sé e ne offrì silenziosamente una a Oswald, che rifiutò con un sorriso e un movimento del capo. Poi prese il sacchetto della spesa e mise gli snack che avevano comprato sul tavolino del salotto.
 
“Ti ringrazio per questo e non pretendo che tu capisca, ma le cose stanno così,” gli disse solamente, e Harvey in risposta bevve diversi sorsi di birra tutti di fila.
 
“Va bene Jim, non capirò mai cosa ti passa per la testa, ma se sei felice allora va bene,” gli accordò, mentre tornava da Oswald anziché sedersi con lui.
 
Era chiaramente teso a causa di quella situazione, ma Jim era felice che fosse lì. Sia perché non voleva affrontare Harvey da solo, sia perché non si vedevano da diversi giorni. Per andare da lui, Oswald aveva indossato il maglione che gli aveva dato insieme agli attillati pantaloni di un completo. Stava benissimo, e se solo fossero stati in privato gli sarebbe saltato addosso subito, rispondendo a un’urgenza che sentiva crescergli nel petto.
 
“Solo non capisco come si faccia a passare da Lee Thompkins a Oswald Cobblepot,” continuò Harvey, e Jim riportò la sua attenzione su di lui.
 
“Questo me lo sono chiesto anche io,” ammise Oswald a sguardo basso.
 
“Lee era pesante. Sono molto più felice adesso,” sottolineò Jim, spiazzato da quel paragone.
 
“Allora potevi tapparle la bocca e avresti avuto comunque una bella donna,” rincarò la dose.
 
“Evidentemente non era ciò che volevo,” ammise Jim, con un sospiro. “Lee non faceva che psicanalizzarmi, giudicarmi, e niente avrebbe mai compensato con quello.”
 
“Pinguino invece ha una personalità migliore?” gli chiese Harvey, sollevando un sopracciglio.
 
“Sì, su questo non ho dubbi.”
 
A quelle parole, finalmente Oswald alzò di nuovo lo sguardo su di lui, sorpreso.
 
“Ma non intendo dare spiegazioni a riguardo. Oswald, hai già mangiato?” domandò poi, rivolgendosi al suo ragazzo.
 
“Sì… Ho cenato da mio padre,” rispose, la sorpresa ancora ben visibile nel suo sguardo.
 
“Bene. Noi ci facciamo qualcosa adesso, dovrei avere una pizza surgelata in freezer.”
 
“Ci penso io,” annunciò Oswald, che forse stava soffrendo a rimanere lì con le mani in mano mentre Harvey gli dava contro, e si alzò per accendere il forno.
 
“Stiamo davvero per farci preparare la cena da un signore del crimine?” chiese il suo amico, allibito.
 
“È solo una pizza surgelata, ma ti informo che è un ottimo cuoco.”
 
Harvey storse le labbra come a indicare che non ci credeva, e poi abbassò lo sguardo e si dedicò all’apertura delle confezioni degli snack.
 
Jim allora ne approfittò per andare da Oswald, che si era allungato per arrivare a una teglia in alto, e la prese per lui facendo aderire la metà destra del petto alla sua schiena, avvicinandosi al suo collo per inspirare il suo profumo.
 
“James...” sussurrò Oswald, arrossendo leggermente.
 
“Mi sei mancato,” gli disse lui in risposta, ruotando il viso per dargli un bacio sulla guancia.
 
Mise la teglia sul piano e Oswald aprì il freezer per prendere la pizza, quindi Jim si voltò verso Harvey e notò che li stava tenendo d’occhio.
 
“Possiamo chiudere qui il discorso e trascorrere una serata normale?”
 
“Va bene, Jimbo, per me puoi scoparti chi ti pare,” rispose, e Oswald si fece scivolare dalle mani la confezione vuota della pizza, che emise un suono sordo cadendo a terra.
 
Dopo essersi voltato per assicurarsi che andasse tutto bene, Jim decise che non avrebbe commentato.
 
“Hai finito?” disse solo, e Harvey sollevò le mani in segno di resa. “Tu stai ancora con Scottie? Non me ne parli mai, e pensavo che ormai sareste andati a vivere insieme.”
 
Prima di rispondere, il suo amico scoccò un’occhiata a Oswald come se non si fidasse a parlare della sua ragazza con lui presente.
 
“Va tutto a gonfie vele tra di noi, ma quello è un passo importante e non ne abbiamo ancora parlato per il momento. Piuttosto, parliamo di quel bastardo che abbiamo messo dietro le sbarre oggi,” propose, riportando il discorso su un argomento sicuro.
 
“Avete chiuso un caso?” chiese Oswald, interessandosi alla conversazione.
 
“Sì, di un tizio che rapinava i negozi di biancheria, uccideva le commesse donne e si dileguava. Ci sono voluti tre giorni per trovarlo,” rispose Jim.
 
“Temo di averne sentito parlare,” disse Oswald, picchiettando nervosamente con il bastone sul pavimento.
 
“A quanto pare la sua ex ragazza lavorava in un negozio di quel tipo.”
 
“Adesso marcirà in prigione per un bel po’,” aggiunse Harvey.
 
“A te come sono andate le cose? So che sei stato molto impegnato in questi giorni,” gli chiese Jim, e Oswald sembrò sorpreso che se ne interessasse con Harvey presente.
 
Certo, se avesse risposto lo avrebbe fatto ponderando le sue parole, ma a Jim interessava davvero parlare con lui, visto che non si vedevano da un po’.
 
“Ho… avuto un po’ di questioni da sistemare, ma è tutto risolto ormai. Oggi sono stato al club fino all’orario di apertura, a controllare i conti e a fare dei provini, e poi sono andato a dare le medicine a mio padre. A proposito, ti saluta,” tagliò corto, ma sembrava tutto a posto ed era proprio ciò che Jim sperava di sentire.
 
“La prossima volta non rifiuterò il suo invito a cena,” gli assicurò il detective, che in effetti non vedeva Elijah dalla sera del compleanno di Grace.
 
“Oh ma non preoccuparti, eri impegnato al lavoro e lui è molto comprensivo,” gli assicurò, con un sorriso sincero.
 
“Siete così legati che vai regolarmente a cena da suo padre?” chiese Harvey, ricordando a entrambi della sua presenza.
 
“È una lunga storia, ma sì,” rispose Jim.
 
“Allora è una cosa seria…” osservò, spostando lo sguardo dall’uno all’altro.
 
Il timer del forno suonò e Jim si alzò prima di Oswald, facendogli segno di restare seduto.
 
“Potevo occuparmene io,” gli disse, mentre si armava di presina per tirare fuori la teglia.
 
“Hai lavorato tutto il giorno anche tu, riposati.”
 
Oswald gli sorrise e portò alle labbra la sua tazza di tè.
 
“Vieni a sederti qui, Harvey,” lo chiamò Jim, mettendo la pizza in un piatto e posandolo al centro del tavolo.
 
Il suo amico obbedì, anche se gli si leggeva in faccia che avrebbe preferito diversamente. Si sedette accanto a Jim, lontano da Oswald, e stappò un’altra birra per sé.
 
“Io temo di dover andare, il mio tè è finito,” dichiarò con una punta di imbarazzo nella voce, alzandosi in piedi.
 
Dalla sua espressione Jim capì che sarebbe stato inutile tentare di fargli cambiare idea, che era rimasto più che aveva potuto e adesso era stanco. Quindi non disse niente, se non che lo avrebbe accompagnato alla porta.
 
Una volta aperta, però, uscì con lui e se la chiuse alle spalle. Gli si avvicinò e lo spinse delicatamente contro il muro, dopodiché seguì l’istinto che aveva trattenuto fino a quel momento e lo baciò.
 
Oswald gemette per la sorpresa e subito si aggrappò alla sua schiena con la mano sinistra, per tenerlo vicino a sé. Schiuse le labbra e così le loro lingue si incontrarono, in un bacio che li lasciò senza fiato e insoddisfatti.
 
“Mi dispiace per stasera, e per il comportamento di Harvey. Mi farò perdonare,” gli assicurò Jim, sperando che non ci fosse rimasto troppo male.
 
“Non è necessario,” gli rispose, accennando un sorriso stanco. “Devo ammettere che mi aspettavo una reazione peggiore.”
 
“Anche io,” disse Jim, dopodiché si avvicinò per dargli un altro bacio, questa volta delicato e durato un istante. “Ci vediamo domani?”
 
“Sì, molto volentieri,” accettò, e Jim si spostò per lasciarlo libero di andare.
 
Quando tornò dentro, Harvey gli rivolse un’occhiata eloquente.
 
“Che c’è?”
 
“Non ho detto niente. Piuttosto, sono foto di famiglia queste?” gli chiese, e Jim si avvicinò perché in effetti non le aveva ancora guardate.
 
Ce n’era una con tutti i Van Dahl, Oswald compreso e Jim al suo fianco. Un’altra ritraeva loro due con Elijah, e una terza soltanto loro due. Il signor Van Dahl aveva insistito tanto perché le facessero, e col senno di poi Jim era molto felice di averle. Erano le uniche foto in cui lui era insieme a Oswald, ed erano persino venuti bene entrambi.
 
“Sì, scattate qualche giorno fa a una festa,” spiegò, prendendo quella con loro due da soli per guardarla meglio.
 
“Allora ce l’ha una figlia femmina…” osservò il suo amico, riferendosi alla foto che ritraeva tutti quanti loro.
 
“Già ma sembrerebbe pazza come sua madre, quindi stai bene con Scottie.”
 
Harvey alzò lo sguardo su di lui ed esitò per un istante prima di ribattere, ma alla fine lo fece.
 
“Perché, il figlio è meglio?”
 
“Harvey… non è pazzo. Lo hai visto anche tu stasera.”
 
“Rimane pur sempre un criminale, e come minimo è instabile.”
 
“Non posso negare che sia emotivo, ma è uno dei motivi per cui lo trovo adorabile.”
 
Harvey corrugò la fronte e storse appena le labbra, ma alla fine non commentò. E Jim ne fu molto felice.
 
 
 
 
 
 
-FINE-
 
 
Fine?
 
Per ora.



Spazio di quella che scrive

La storia finisce qui, ma la serie continua. Come avrete notato, ci sono ancora delle questioni in sospeso... Quindi a presto!
   
 
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