Superata la Quaresima e la Pasqua, quando tutto fu accomodato com'era conveniente, una delegazione dei migliori giovani di Firenze prese la strada di Roma. Era il 27 d'aprile quando Giuliano de' Medici, scortato dai cognati Bernardo Rucellai e Guglielmo de' Pazzi, partì dal palazzo di via Larga alla testa di cinquanta cavalieri. Pareva di salutare una importante delegazione di ambasciatori più che un gruppo scelto di privati cittadini che si avviavano a concludere una faccenda privata; questo perché, a Firenze, ciò che riguardava la vita di un Medici non era mai del tutto privato, quantunque ci si sforzasse di ritenerlo tale.
Lorenzo raccomandò di scrivere di frequente, per essere a conoscenza sia dell'accoglienza riservata ai propri parenti nel corso del viaggio – cosa in cui non ebbe nulla da lamentarsi, poiché ogni città, grande o piccola, aprì le proprie porte con generoso entusiasmo ai nuovi venuti – sia dei tempi necessari per il rientro. Seppe così, il 21 maggio 1469, che la comitiva aveva ripreso il viaggio tre giorni prima, dopo una breve permanenza ospiti di palazzo Orsini in Roma.
Non potremmo significarvi a parole la festa ci fu facta dalli vostri Ursini e particolarmente dalla vostra Clarice, la quale si dimostra bella sì come Francesco ebbe a dire nelle lettere sue.
Così affermava la lettera di mano di Giuliano; non c'era verso che la sua attenzione non fosse attratta da quelle due righe. Cominciava a percepire il vincolo matrimoniale, ora che sua moglie era partita per raggiungerlo? O era forse un sentimento diverso quello che ultimamente gli toglieva il sonno?
Non voleva dire di esserle già affezionato; non voleva ammettere a se stesso che la sua vita sarebbe cambiata in qualche sua parte. Pure, doveva riconoscere di non essere indifferente alla fanciulla romana. Non era mai stato indifferente all'elemento femminile e aveva fatto sì che questo non mancasse mai: ora, però, questo elemento lo toccava molto più profondamente di qualsiasi altro legame.
L'abitudine a celare i propri affetti più sinceri, a mostrar sempre la faccia allegra, anche quand'era oberato da mille pensieri, non semplificava le cose. Aveva un'idea che gli frullava in testa da qualche giorno, ma non si risolveva a metterla in pratica.
Con la lettera ancora tra le mani, indeciso se riporla con le altre o se tenerla per sé, finì col portarsela dietro. Attraversò il palazzo a passo spedito, senza rallentare; quando sua madre se lo vide passare davanti, le venne spontaneo domandare: «Dove t'en vai?» Lui a malapena si voltò a risponderle. «Vo a fare un giro a torno, ma sarò costì per la cena.»
«Ma le faccende de...»
«Farò tutto, farò tutto.»
E si dileguò senza aggiungere altro. Quando uscì all'aperto sulla via, baciato dal caldo sole di maggio, Lorenzo alzò istintivamente gli occhi e prese un respiro incoraggiante. Poi, guardando in direzione dell'Arno, si accorse di non aver più dubbi. Sapeva perfettamente che la sua meta, quel giorno, sarebbe stata una nota osteria dalle parti di Santa Croce.
*
Linora si era svegliata bene. Aveva raccolto un bel gruzzolo la notte precedente, un gruzzolo che non avrebbe sperato; la bella stagione rendeva la città più movimentata, scaldava il sangue degli uomini e li spingeva da lei. Ora che l'afa non appesantiva ancora l'aria e la primavera faceva sbocciare i fiori e cantare i passerotti sui tetti, tutto era gaio, tutto era piacevole, anche le carezze di una donna come lei.
Linora era nata a Parma, figlia di una serva, senza padre. Finché era stata una bambina, la madre l'aveva tenuta con sé, ma quand'era cresciuta e si era fatta bella di forme, un uomo l'aveva notata, le aveva promesso un matrimonio senza dote e l'aveva portata via. Si erano sposati, ma era durato poco: lui infatti era morto, lasciandola sola in una città, Perugia, che non conosceva. Era ancora giovane e aveva fame. Aveva dovuto scegliere tra la sopravvivenza e l'onore.
La vita da prostituta non si distingue per la stabilità: se non si hanno protettori la necessità di trasferirsi altrove ricorre periodicamente. Da Perugia Linora era andata ad Arezzo, da Arezzo a Siena, poi a Pisa, quindi a Firenze. A portarcela era stato un mercante che era in affari con la famiglia che finanziava l'osteria, si era trovata bene, la mancia dei clienti bastava a coprire le spese non incluse nell'affitto dell'alloggio.
Stiracchiandosi sorniona sul materasso sfatto, Linora sentì rumore di passi maschili sulle scale. In genere erano pochi i clienti che si presentavano da lei di giorno, da un lato perché molti erano impegnati nel lavoro, dall'altro perché la folla nelle strade li avrebbe visti. Si sollevò piano, sentendo i lunghi capelli a onde giù per le spalle e la schiena; una lieve carezza che non aveva nulla a che vedere con il tocco avaro degli uomini. Aprì gli occhi e rimirò lo squallore della camera. I suoi vestiti erano abbandonati a terra, attorno il fango rappreso nelle fughe tra le mattonelle di cotto, un odore stantio sospeso nell'aria cupa delle tende tirate a chiudere l'unica finestra. Non correva un filo di brezza nella stanza perché la porta era serrata e Linora, sgranchendosi il collo, pensò che per prima cosa avrebbe arieggiato un po', poi sarebbe scesa a racimolare qualcosa da mangiare. Appena mise i piedi in terra si accorse della patina di polvere e sabbia che velava il pavimento, ma non se ne preoccupò. Nemmeno per i vestiti, che avevano passato la notte lì invece che appesi all'asta che pendeva dal soffitto vicino alla parete alla sua destra. Li scosse, notando nella poca luce che filtrava dalle tende una pioggerella dorata che si disperdeva tutt'intorno. Non li indossò, non così sporchi com'erano. Si diresse verso la finestra, la liberò dall'impaccio del tendame e si sporse, completamente nuda, per sbattere gli indumenti e lasciarli a respirare stesi su una cordicella tesa tra due palazzine adiacenti. Non le importava che, da sotto, la vedessero.
Altri passi per il corridoio, forse gli stessi di un momento prima, più concitati, come all'affannata ricerca di qualcuno in particolare. Non fece in tempo a voltarsi verso la porta che questa si spalancò e Lorenzo de' Medici apparve tra gli stipiti impugnando un fiaschetto di vino in una mano e due coppe di bronzo nell'altra.
Per Lorenzo, che si trovò di fronte una scena cui non era preparato, non a quell'ora, non con quella disposizione d'animo con cui era arrivato, fu un bagno freddo e subito dopo bollente. Gli mancò la voce, sebbene fino a un minuto prima fosse pronto a salutare l'amica con tutto l'entusiasmo suo proprio.
«Vostra Magnificenza, messer Lorenzo, venite!»
Dovette invitarlo perché potesse muovere un passo oltre la soglia e, appena entrato, Lorenzo si diede un'occhiata sospettosa in giro, pensando di aver interrotto un incontro. Siccome trovò la stanza vuota, con il piede si aiutò a serrare di nuovo l'uscio e si avviò verso il tavolaccio di legno sistemato dirimpetto al letto per poggiarvi quanto aveva portato su dalla locanda che macinava guadagni al piano inferiore.
«Buongiorno, Lirona, v'ho portato da bere», disse, posando una delle due coppe. Avendo le mani occupate, stappò il fiaschetto con i denti, quindi versò il vino, tanto forte che sembrava quasi nero, e lo porse alla donna. Questa, muovendosi studiatamente, lo raggiunse, prese la coppa e ne bevve un sorso facendo in modo che qualche goccia le scivolasse sul mento e le gocciolasse sul seno. Lorenzo deglutì e cercò di non farci caso, ma, mentre versava la propria dose di bevanda, si accorse di tremare sensibilmente. Ciò non sfuggì nemmeno a Linora, che di rimando si leccò le labbra e se le morse prima di inspirare profondamente.
Sapeva che spesso gli uomini nutrono desideri contrastanti dentro di sé, e che ciò può suscitare timidezza, indecisione. Non era abituata, però, a vedere simili sintomi in un giovanotto come Lorenzo: mai l'aveva trovato esitante, che fosse dentro o fuori dal letto, e ugualmente le sue colleghe ne lodavano la testarda sicurezza con cui esigeva quanto intendeva ottenere. Nei suoi occhi, ora, leggeva una sorta di sospetto verso di lei e ne era spaventata.
«Come posso servirvi quest'oggi?» domandò, e sorbì di nuovo del vino per fargli compagnia mentre lui stesso beveva. Lorenzo abbandonò la coppa sulla tavola, abbassò la testa e distolse lo sguardo dal suo corpo, benché lo facesse con evidente dispiacere.
«Oggi...» balbettò, altro evento più unico che raro, dato che pochi altri, alla sua età, erano in grado di parlare bene come lui. «Oggi sono venuto a imparare da voi.»
«Imparare? C'è qualcosa che ancora non conoscete? Credevo avessimo esplorato ogni segreto dell'amore...»
«Tutti, meno uno.»
Come la contraddisse, con quello sguardo penetrante che era in grado di far tremare un cuore di ghiaccio, Linora si sentì sopraffare dal suo fascino. Fu lei, stavolta, ad ammutolire di fronte a lui, a farsi da parte quando Lorenzo volle superarla per raggiungere il letto. Lei non poté fare altro che stargli dietro, rapita da quel suo modo di dire e non dire.
«Linora,» proseguì, dosando il tono di voce e il ritmo, «come saprai, presto mia moglie arriverà qui, a Firenze.»
L'intuito le suggerì che si trattasse di un eccesso di moralità, probabilmente instillato da Piero de' Medici nell'intento di disciplinare un figliolo incorreggibile. Rischiava dunque di perdere uno dei migliori e più rinomati clienti, un timore che non era da escludere del tutto solo in ragione della natura sensuale del ragazzo, perciò osò interromperlo: «Vostra Magnificenza sa quanti uomini sposati frequentano questa camera. Il matrimonio è il sepolcro della passione, come si dice, e sono certa che nessuno potrà rimproverarvi di trovare svago qui».
Lorenzo, voltandosi per sedersi sul materasso, la guardò mostrando grande comprensione. «Certo, certo, questo lo so», rispose. «E per la verità il mio cruccio è d'altra pasta che questa. Vedete... Quando per la prima volta conobbi una donna, m'era detto che avrei imparato a concupire con tutte le donne; e per lungo tempo m'è parso fosse proprio così. Son giorni, ormai, che sono convinto del contrario: perché io so come soddisfare una donna fatta, ma non una fanciulla vergine.»
«Dunque, è qui che avrei mancato d'insegnarvi», si illuminò Linora non appena comprese. Lorenzo, sebbene fosse scontato, annuì e sospirò.
La prostituta, rasserenata, sedette allora accanto a lui, gli accarezzò la schiena e insinuò la mano sinistra tra le sue ginocchia. «Vedete, ciò che una ragazza vergine, e massimamente una bigotta romana, non farà, è ciò che sto per fare io.»
E mentre diceva così, la sua mano risalì lungo la coscia e scomparve sotto il lembo della giornea che Lorenzo aveva indosso. «Non distrarre il tuo discepolo, Linora...» sussurrò lui, senza però sottrarsi al suo tocco sapiente.
«Una vergine romana non oserà quasi guardarvi. Voi dovrete condurre le danze, ma non ritengo sia questo a intimorirvi.»
«No, non è questo», convenne, reclinando il capo indietro ad occhi chiusi. «Ma m'accorgo di avere un temperamento troppo ardente per una fanciulla che non conosce le pratiche degli amanti e perciò ti chiedo: quando per la prima volta ti concedesti a un uomo, che cosa provasti?»
Linora lo imitò, chiudendo gli occhi e immergendosi in un mare di ricordi che, in breve tempo, la travolse. Antonio, questo il nome dell'uomo che l'aveva rapita a sua madre e alla sua città, l'aveva condotta in una locanda la prima notte della loro fuga. Era adulto, lui, aveva trent'anni, e lei era una ingenua quindicenne che poco o nulla sapeva di ciò che accade quando cala il buio e il fresco clima autunnale spinge a coricarsi vicini, nudi sotto una coperta troppo sottile. L'aveva tratta lì con tante promesse, ma senza rivelarle le sue vere intenzioni. Quando, al sicuro nell'oscurità, l'aveva toccata dove nessuno aveva mai osato spingersi, Linora era sobbalzata e aveva singhiozzato di paura, sentendosi subito rassicurare: sarebbe stato bello, le sarebbe piaciuto. L'unica cosa che doveva fare era starsene buona e non urlare.
«Probabilmente la vostra fanciulla pensa di dover affrontare un terribile supplizio», rispose, eludendo di fatto la domanda; ma era la verità, era ciò che la Linora quindicenne avrebbe detto se le avessero posto la medesima domanda il mattino dopo la sua prima notte da donna. Antonio era sicuro di sé, l'aveva capito da come aveva mosso le sue mani su di lei; non sapeva spiegarsi il perché, ma il suo corpo godeva di qualcosa che la sua ragione rifiutava con disgusto.
"Oh, Linora, sta' buona, sta' buona", ripeteva, la voce sempre più bassa e cavernosa, finché non si era ridotta a una serie di ansiti strozzati. A quel punto l'aveva già svergognata e lei, tenendo fede all'ennesima promessa, stava zitta aspettando invano di condividere il suo piacere.
«E invero è un terribile supplizio ciò che le farete passare.»
Lorenzo, contrariato, le afferrò il polso sinistro richiamandola bruscamente indietro dal passato. «Che cosa dici? Supplizio? Non mi pare che a voi donne spiaccia poi così tanto.»
«Avete detto bene: alle donne non spiace. Ma ragionate di una piccola vergine che si vede sormontare da un uomo che non conosce, che a malapena comprende, un uomo che agisce per il proprio godimento e non per il suo. Siete venuto a chiedermi consiglio e questo vi sto dando», replicò nervosa, divincolandosi dalla sua presa e scostandosi, chiudendosi nelle spalle come una bambina. Lui rimase impietrito a guardarla, scoprendo a propria volta un lato nuovo in una donna che credeva non avesse nulla più da offrirgli.
«E dunque come posso addolcire il suo supplizio?» bisbigliò, accarezzandole la guancia a tardiva consolazione per un torto che non le aveva arrecato. Linora inspirò di nuovo prima di rituffarsi tra le onde della memoria che, placide, l'abbracciarono. Ricordava bene quella notte ed era sicura che ci potesse essere un modo migliore di cedere un bene tanto prezioso. Antonio gliel'aveva strappato senza chiederle il permesso e, benché in seguito lei avesse imparato ad apprezzarlo, quella notte lei l'aveva odiato.
«Non credo voi possiate ardire a tanta impresa, messere», gli confidò, senza nemmeno una punta di rancore nella voce. «Forse è la natura a volere che sia così, perché voi siete l'uomo, voi il marito, padrone e custode di vostra moglie. Ella deve sapere di appartenervi, e quale miglior modo di appropriarvi di lei che quando è inerme, senza altri ripari che la vostra condiscendenza?»
Lorenzo scosse la testa, come a scacciare idee tanto crudeli. Era questo l'amore per le donne? Era così che sua madre si era affezionata a suo padre? La Lucrezia che si prodigava al capezzale di un Piero sempre più debilitato dalla malattia subdola e ripugnante che lo affliggeva, era avvinta a lui non dall'amore ma dal ricatto? Aveva davanti agli occhi, come fosse stata lì, la donna che l'aveva messo al mondo, nutrito con latte e poesia, tirato uomo a forza di prudenza e spirito, e stentava a credere che lei, così tenace, così dotta, così raffinata potesse prestarsi a simili giochi.
«No, non voglio ammettere che sia così», protestò e, prendendola alla sprovvista, fece coricare Linora sotto di sé.
«Guardatevi, se non volete darmi retta», rise questa, vedendosi dare ragione non a parole, ma nei fatti. Lorenzo la sospinse verso i cuscini sovrastandola con la propria imponenza e, nel mentre, rispose: «No, mia cara, non voglio assecondarti, non stavolta. Come hai detto prima, conduco io le danze ora».
«Come se fossi nuova ai vostri modi, messere!»
«Fingi di non aver mai conosciuto uomo. Torna fanciulla pur tu, Linora, e insegnami cosa ti piace. Forse che non sarà un supplizio come mi pare sia stato la prima volta.»
Una lacrima le scivolò sulla guancia, il respiro le si mozzò nella gola. «Non si può tornar vergini, lo sapete bene quanto me.»
«E tu sai che non t'ho chiesto questo, cara mia, bensì di dirmi cosa ti sarebbe piaciuto, ora che non hai pudore di essere sincera con me.»