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Autore: Akane    22/09/2009    2 recensioni
"Ho messo febbrile le mie mani sulla sua ferita, al petto, procurata chiaramente da un coltello, quindi ho premuto cercando di limitare l’emorragia ma il risultato è stato solo ritrovarmene io stesso pieno. Le mie dita, i miei palmi, i miei vestiti…
…del suo sangue… "
Don rimane ferito gravemente e Colby si trova ad affrontare dei momenti molto duri.
- Dalla puntata 20 della quinta stagione -
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Colby Granger, Don Eppes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Cose da loro'
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TITOLO: Tornare
AUTORE: Akane
SERIE: Numb3rs
GENERE: sentimentale, introspettivo, triste
TIPO: slash, spoiler
RATING: giallo/PG13
PARTI: one shot
PERSONAGGI: DonXColby
MODO: pov di Colby
AMBIENTAZIONE: quinta serie, puntata numero 20, se non erro. In questa puntata succede qualcosa di brutto a Don, purtroppo, e siccome io adoro quando succede qualcosa a lui perché sono sadica, ho subito approfittato!
DISCLAMAIRS: I personaggi non sono miei ma dell’autore che ne detiene ogni diritto….sig!
NOTE: Secondo me gli sceneggiatori di Numb3rs mi leggono nel pensiero… vabbè, stupidaggini a parte, non potevo non cogliere al volo quest’opportunità ghiotta visto che qua c’è davvero dello slash per tutti i gusti. Io ho colto questo ma naturalmente la stessa puntata la si può leggere in molte altre chiavi!
Vi avverto, qua Don non sta con Robin ma con Colby!
Questa fic potrebbe tranquillamente essere il seguito delle one shot che ho già fatto su sti due!
Spero vi piaccia.
Buona lettura. Baci Akane
DEDICHE: a tutti i fan di questa coppia o di questo telefilm.
RINGRAZIAMENTI: a chiunque leggerà e commenterà!

TORNARE

/Broken – Lifehouse/

Quando io e David siamo arrivati nella stanza in cui c’erano Don e Nikki per fare il punto sull’azione andata male, non avrei mai e poi mai immaginato di trovarmi quella scena.
Il gelo mi ha avvolto e non ho più capito niente nell’esatto istante in cui ho visto Nikki svenuta e Don ferito sanguinante che lento perdeva conoscenza.
Lì, fra le mie mani, davanti ai miei occhi… lui è scivolato via… ed io senza la minima idea di che diavolo fosse accaduto, visto che un solo istante prima parlava con me dandomi ordini tramite la trasmittente, sono rimasto impietrito a fissarlo incredulo.
L’ho solo potuto vedere lì, steso, ferito al petto, che cercava di respirare… e lento… lento chiudeva gli occhi senza la forza nemmeno di lamentarsi, senza la voce per parlare, senza più un solo senso che connetteva.
Mi sono inginocchiato e mentre David controllava Nikki chiamando entrambi a gran voce, io la mia non so proprio dove fosse sparita poiché non mi è uscita. Non mi è uscita proprio.
L’ho raggiunto, l’ho toccato tremando, temendo di sentire il suo battito spegnersi, la sua temperatura raffreddarsi. Il suo cuore batteva ancora ma la sua pelle impallidiva alla penombra della sera, in quella casa sconosciuta, e non manteneva un calore vitale accettabile.
Ricordo tutto come fosse ora.
Ho messo febbrile le mie mani sulla sua ferita, al petto, procurata chiaramente da un coltello, quindi ho premuto cercando di limitare l’emorragia ma il risultato è stato solo ritrovarmene io stesso pieno. Le mie dita, i miei palmi, i miei vestiti…
del suo sangue…
Non ho parlato. Non ci sono riuscito. Nel giro di un istante sono arrivati i rinforzi e l’ambulanza, l’hanno portato via e David è andato con l’altra ambulanza e con Nikki che si era svegliata.
Io sono rimasto lì. Lì per dirigere i lavori sulla scena, per dare ordini, per mandare avanti le cose nel caos più completo.
Lì fermo, senza riuscire a connettere, a muovermi e ad andare io stesso in ospedale.
Lì.
Non so per quanto ci sono rimasto, onestamente, poiché poi dopo un po’ che mi chiedevano ordini, ho detto bruscamente di seguire la prassi e di non rompermi i coglioni. Poi me ne sono andato.
Si, ho detto così o per lo meno credo.
Dopo un tempo indefinito mi sono ritrovato qua sotto la doccia, all’FBI.
La coscienza lenta torna, io chiudo gli occhi mentre l’acqua calda mi lava via il sangue, mi rivedo la scena mille e mille volte senza sapere da dove diavolo possa essere spuntato quel quinto uomo che non avrebbe dovuto esserci secondo i calcoli del piano di Charlie.
Non avrebbe dovuto eppure c’era e nessuno se ne era accorto. Nessuno.
Lui ha ferito Don e nessuno è riuscito a fermarlo.
Lui forse lo ha anche…
No. Non posso pensarci.
Non posso.
Quel bastardo era là all’insaputa di tutti e senza rifletterci un attimo l’ha ferito profondamente ed io non c’ero, non sono arrivato in tempo, ma come è vero che sono io, anche se fosse l’ultima cosa che faccio, prenderò quel pezzo di merda.
Qualunque cosa succeda.
Lo prenderò perché questa deve essere la sola cosa che mi farà andare avanti. La benzina. Il motore.
Perché se penso a Don in ospedale che stanno operando, io mi fermo.
E non posso.
Se mi fermo non riparto più.
Non posso permettermelo. Assolutamente.
Don richiede vendetta. Io gliela devo dare o sono finito.

Da qui è la rabbia a tenermi in piedi.
La rabbia e il risentimento che cresce di volta in volta sempre più.
Insofferente, iroso, brusco, secco e impaziente mi muovo nelle indagini finendo quasi per rompere intenzionalmente una mano al primo sospettato che catturo, fermato in tempo da David, sostituto super visore di Don che cerca di mantenere la calma e fare la cosa giusta.
La cosa giusta…
A tu per tu con lui, con quello che è sempre stato il mio collega di lavoro e amico a cui ho sempre confidato tutto, lo fisso contrariato e rabbioso, quindi mi ritrovo ad accusarlo duramente del fatto che Don me lo avrebbe permesso per casi simili d’emergenza.
Quello non era comunque un criminale qualunque, era implicato nell’aggressione al nostro capo. Non poteva rimanere impunito e zitto.
Ma David non mi ha permesso di fare ciò che era davvero giusto o che per lo meno mi avrebbe permesso di non impazzire!
Così mentre marco il fatto che Don avrebbe agito diversamente, David con gli occhi lucidi e ferito mi risponde che non è Don e che lui non c’è.
Se ne va e rimango a fissare il vuoto.
Insopportabile.
Insopportabile sensazione lacerante interiore. Vuole uscire, grida per essere liberata, per trovare sfogo ed io mi obbligo a trattenermi. O per lo meno cerco poiché me ne esco con certe cattiverie che forse sono peggio di un urlo potente.
Non volevo ferirlo ma è esattamente così.
Lui non è Don, dannazione; se lo fosse io starei con lui e non è così.
Io sono l’uomo di Don, non di David.
Le cose sono decisamente diverse!
E non è David che voglio, per quanto sia mio amico e mi trovi bene con lui.
È Don.
Don che non ho ancora avuto il coraggio di andare a trovare e che fino a che non sentirò la parola ‘fuori pericolo’ e ‘svegliato’, io non andrò a trovare.
Non ho la forza di vederlo addormentato in un lettino d’ospedale dove non si sa se si riprenderà o no.
Tutte le mie energie le devo concentrare sul trovare il suo aggressore e ammanettarlo.
È così.
Perché se abbasso la guardia poi non mi rialzo più.
E non voglio vedere un Don morente, l’immagine che voglio conservare nella mia mente è solo di un Don sveglio che sta bene.
L’averlo soccorso proprio coperto di sangue mi ha impresso dentro quanto di peggio non dimenticherò mai.
Non voglio più vederlo così.
Non ne ho la forza.
Non ce l’ho davvero.
Per questo con rabbia e insofferenza non perdo occasione per sfogare questo mio stato d’animo su chiunque io ritenga implicato in questa faccenda o su chi, per caso, mi sembra non adempia come si deve ai suoi doveri!
È dura per tutti ma nessuno ha idea di cosa sto passando perché nessuno è il compagno di Don.
Io si.
E non posso resistere a lungo.
Ti prego Don, riprenditi.

Ora che ho ammanettato io stesso quel bastardo grazie all’aiuto prezioso di un Charlie che non smetterà mai di sentirsi in colpa, mentre tutti si muovono per andare in ospedale da Don, io sto seduto in macchina davanti all’edificio.
E aspetto.
Aspetto che mi dicano che si è svegliato e che sta meglio.
Aspetto che lui si riprenda.
Aspetto di entrare e vedermelo sveglio, sorridente a modo suo che mi guarda in quel modo penetrante che però nessuno coglie.
Aspetto di sentirmi meglio per il fatto che vendetta è stata fatta e che quel pezzo di merda ora è in prigione.
Aspetto ma non succede nulla.
Nessun sollievo, solo vuoto. Un vuoto portato dal fatto che ora nemmeno quella rabbia di prima mi tiene su.
Non ho nulla se non quest’attesa e dovrei sperare, a questo punto.
Sperare che vada tutto bene. Ma non sono mai stato uno che spera e non inizierò certo ora…
Sospiro appoggiando la testa indietro e chiudendo gli occhi. Sono stanco ma non è questo ciò che mi rimanda il mio fisico stressato.
Quel che sento ora è un bisogno di qualcosa che non arriva.
Non voglio rimanere senza.
Facciamo questo lavoro e lui è il super visore della squadra, è naturale che siamo in pericolo ogni giorno, che dobbiamo aspettarcelo e metterlo in previsione.
Spesso sono io quello che rimane fregato con tutti gli inseguimenti che mi becco, spesso invece è lui stesso, però forse era da tanto che non finiva così grave.
Così sospeso fra la vita e la morte.
Non lo so, non credo nemmeno sia una questione di abitudine.
Non ci si abitua mai a certe cose.
Quando la persona che ami rischia così tanto la sua vita, di volta in volta è solamente peggio, altro che meglio!
Non è mai meno dura ed io non potrò mai iniziare una giornata pensando che certamente io e lui ci rivedremo di notte a casa!
Non viviamo nemmeno insieme.
Siamo compagni ma non lo dimostriamo, entrambi troppo riservati su queste cose e così poco romantici, preferiamo un rapporto molto più libero e rilassato. Non sembriamo nemmeno fidanzati.
Siamo una coppia eppure non lo diamo a vedere ma non di proposito, è solo il nostro modo di stare insieme.
Non facciamo le cose che fanno gli altri.
Ci vediamo ogni mattina al solito bar a fare colazione insieme, questo si. Ma è tutto qua quello che ci concediamo. Spegniamo il cellulare per quei dieci minuti che mi offre il caffè e il cornetto e poi ci ributtiamo nella nostra caotica giornata piena di pericoli e stress.
Ci stiamo vicini da lontano, senza darci conforto a parole o gesti. Ci limitiamo ad esserci.
Tutto lì.
Spesso sono l’unico a non andare a casa di Charlie e di suo padre in quelle famose riunioni serali fra amici. Non è che non mi considero del gruppo, lo sono, ma sono più selvatico. A volte ho bisogno di staccare.
Stiamo insieme tutto il giorno, spesso anche la notte, non sono uno che sta appiccicato al proprio partner ventiquattro ore su ventiquattro.
Credo che anche per lui sia così e gli sta bene questo mio staccare, ogni tanto.
Ma questo non significa che quando è in pericolo o gli succede qualcosa, io stia meno male.
Anzi.
Non riesco a viverlo in modo decente.
Mi trattengo e mi tengo tutto dentro, non do libero sfogo alle mie preoccupazioni. Dopo aver stanato i vari possibili responsabili, mi fermo e aspetto un miracolo, che la cosa si risolva e che tutto torni come prima.
Non ho un gran coraggio riguardo certe cose.
Ed ora eccomi qua ad aspettare.
Aspettare che mi chiamino dicendomi che Don sta bene e che è fuori pericolo.
La sola idea di poterlo vedere con qualche tubo in gola e quel maledetto rumore cardiaco, mi fa stare male.
Voglio che tutto torni a posto.

Oh, io non credo in nessun Dio né nella divina provvidenza ma ammetto che in certi momenti mi trovo assurdamente a guardare il cielo, quando mi arrivano certe notizie.
Questo è uno di quei casi.
Come se potesse esistere qualcuno che ascolta queste specie di preghiere che faccio inconsciamente, mentre entro e mi avvio consapevole che lui è sveglio, fuori pericolo e che non c’è nessuno con lui al momento, li alzo, i miei occhi. In alto. Al cielo scuro dove non si vedono le stelle a causa delle troppe luci della città.
Non so cosa significhi, lo faccio e basta.
Quindi trovandomi a trattenere il fiato, percorro in fretta i corridoi andando diretto alla sua stanza.
L’ansia mi cresce veloce e mi ritrovo con dei tamburi in gola, quindi dopo aver quasi corso mi fermo davanti alla sua camera.
Lo vedo con la testa girata dall’altra parte. Forse dorme.
David mi ha detto che è fuori pericolo e che è sveglio, però i dottori hanno mandato tutti via per farlo riposare.
So che faranno storie vedendomi qua, ma non fa nulla.
Non me ne potrebbe fregare di meno.
Prendo un respiro profondo, mi raddrizzo e mi faccio forza.
Non avrà la migliore delle sue facce, ma sicuramente meglio di ieri notte, quando l’ho soccorso in quelle condizioni.
Ed ora devo cancellarla quell’immagine atroce.
Lavare via davvero il suo sangue dalle mie mani.
Varco la soglia e rimango in silenzio mentre aggiro il letto e l’affianco rimanendo in piedi. Fermo, l’accarezzo con lo sguardo facendo attenzione a non disturbarlo.
Ha un viso segnato, stanco e senza forze ma si vede che si sta riprendendo e che da ora le cose andranno meglio.
Si vede che sta solo riposando.
Ricordo quando sono stato io sulla linea della morte, è stata la sua presenza accanto a me a farmi trovare la volontà di tornare.
Altrimenti non mi sarei svegliato.
Là si sta bene.
Non si sente nulla.
Però mi è parso come una specie di ordine, quello che ho sentito provenire dalla sua sola presenza.
Come se mi ordinasse di svegliarmi.
Non volevo deluderlo.
Il resto è confuso.
Non ha più tubi che gli escono dalla bocca e il suono del suo cuore non dà più molto fastidio. È molto più calmo del mio.
Solo dopo alcuni istanti di contemplazione, mi rendo conto che i miei muscoli, specie quelli del viso, si sono rilassati e sento un espressione dolce e formarsi insieme ai respiri che tornano regolari. Anche i miei battiti mi danno tregua e così mi siedo senza staccargli gli occhi di dosso.
Starei anche tutta la notte, ora, a guardarlo dormire perché so che non sta più male, che non sta morendo. Che sta relativamente bene.
Dopo una tempesta allucinante trovo la forza di riprendermi e non crollare più.
Ce l’ho fatta.
Ho superato anche questo ma in realtà solo grazie a lui.
La verità è questa.
Io da solo forse sarei ancora in macchina in preda all’angoscia e al panico più neri.
Lui ha lottato da solo per la vita, si è ripreso, si è svegliato e sempre tutto da solo. Non certo grazie a me e al mio sostegno.
Quando io sono stato per morire Don mi ha sostenuto, io non ci sono riuscito questa volta.
Non è stata la mia presenza a riportarlo di qua ma quel che conta è che sia tornato.
- Sei qua… - Mormora con voce impastata, si ode appena ma mi piego e lo scruto attentamente. Tiene gli occhi chiusi per un po’ ma le sue labbra si increspano in un sorriso appena accennato che mi riscalda di già.
Lo fa raramente ma mi piace un sacco…
Non gli chiedo come abbia fatto a sentirmi perché so come funziona. Anche se non si è coscienti si percepiscono le presenze di chi ci affianca.
E poi il suo istinto non è come quello di uno comune...
- Si. – Sussurro a mia volta con voce roca e appena udibile.
Allora sembra si sforzi un po’ ma apre gli occhi. I suoi castani si posano sui miei chiari e rimaniamo ad osservarci a questa breve distanza senza dirci nulla, solo probabilmente a pensare a quanto abbiamo temuto di non vederci più.
Io lo penso.
Però ora sono qua e lo sto guardando.
È tornato da me con la sua sola volontà.
- Volevo venire prima ma non ce l’ho fatta. Non reggevo l’idea di guardarti in quelle condizioni… - Inizio debolmente cercando di giustificarmi. La voce mi si spezza e lui muove a fatica la mano cercando la mia. Sembra abbia compiuto un impresa insopportabile.
So come ci si sente.
L’aiuto e gliela stringo evitandogli inutili sforzi. Non è una cosa da noi, ma del resto l’aver visto la morte in faccia cambia un po' le persone.
È così che io e lui ci siamo messi insieme.
Quando mi sono svegliato dalla mia quasi morte.
- Lo so. – Mormora allora con un aria leggermente dolce, per i suoi canoni. Forse solo un misto fra la stanchezza e la comprensione.
Oh, io lo so che lui è uno dei pochi che mi capisce subito…
Alimento il mio sorriso che funge da ringraziamento, quindi mi piego su di lui, sul suo viso stanco e pallido, lo scruto a fondo e aggiungo in una specie di soffio:
- Grazie di essere tornato da me. – Allora anche lui risponde nel mio stesso modo, un sussurro appena che mi fa venire i brividi:
- Grazie di essere venuto. – Nulla di più, nulla di sdolcinato, di esagerato e di impossibile.
Cose da noi.
Come lo diremmo ed anzi forse solo appena ammorbiditi.
Non ci siamo mai detti che ci amiamo ma lo sappiamo.
Non serve dirlo.
Ci impacciamo e basta.
Però ogni volta che ci baciamo ce lo sussurriamo senza bisogno di parole.
Così ora.
Annullo la breve distanza che era rimasta e poso le labbra sulle sue. Non approfondisco, non mi sembra il caso. Solo un tocco leggero fra di noi che gli fa accelerare un battito facendomi sorridere.
È così che funziona fra noi.
Non è un segreto ma solo una cosa nostra.
Non serve che si capisca che stiamo insieme, che qualcuno lo sappia e che facciamo cose eclatanti poco da noi.
Stiamo insieme e basta.
Cos’altro conta, se riusciamo sempre a tornare l’uno dall’altro?

FINE
   
 
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