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Autore: EmmaJTurner    11/09/2024    4 recensioni
Una nobildonna con un segreto in fuga da un matrimonio combinato; un soldato che ha giurato di dare la vita per proteggerla.
Un low fantasy mystery romance in un piccolo ducato tra i colli assolati del 1700.
Genere: Hurt/Comfort, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Spazio dell’Autrice

Mi è stato fatto notare che non ho pubblicato il primo capitolo senza nemmeno salutare… rimedio ora: ciao! Eccomi qui con una storia nuova di zecca con un sacco di cose difficili da scrivere (per me): sembra proprio che io abbia preso le cose che so scrivere meglio (piante, mostri, ambientazione naturale, personaggi sassy, POV unico) e abbia detto “Sai che c’è? Facciamo TUTTO IL CONTRARIO e vediamo cosa viene fuori!”.

Pessima idea? Probabile, sarete voi a dirmelo…

Quindi insomma, cosa ci sarà in questa storia? Senza dubbio, un romance — preparatevi a un sacco di sguardi, non detti, struggimenti e sospiri —, un mystery che in teoria doveva essere cozy e tranquillo, ma in realtà non lo so (in realtà io non so niente), sospettati, incidenti, tentati omicidi, una spolverata di sovrannaturale e un pizzico di avventura. Spero sempre che sia anche divertente, anche se qui i toni qui sono (sembra) meno scanzonati rispetto a Cercasi. 

Spero comunque che sia una piacevole lettura <3 
(Pronti ad un nuovo POV?)

Emma






 

Capitolo 2 - Seba 

La notizia dell’imminente spedizione al convento delle Silene fu un’interessante deviazione dalla routine di Sebastian. Dopo anni di sveglia, allenamenti, rancio, turno di guardia, infimo idromele in altrettanto infime taverne e troppe poche ore di riposo solo per ricominciare tutto daccapo il mattino seguente, ogni alterità dalla quotidianità diventava una distrazione bene accolta da lui e dalla maggior parte dei suoi commilitoni.

Quando poi si venne a sapere il motivo per cui avrebbero dovuto recarsi al convento, la curiosità cedette il posto allo stupore.

Scortare sua signoria, la duchessa Beatrice di Altoponte, a casa.

Sebastian aveva dovuto impegnarsi a controllare la sua espressione quando il capitano aveva fatto l’annuncio. Un mormorio stupito era serpeggiato tra i soldati. La duchessa Beatrice, a casa, dopo cinque anni di reclusione in convento? Perché? Perché ora?

Non è importante il perché, si costrinse a pensare mentre stringeva, con malcelato fervore, il sottopancia della sella al cavallo baio che gli era stato assegnato. Una volta caricato di borse, coperta, moschetto, spada, borraccia e cibo sufficiente, portò l’animale fuori dalle scuderie e montò in sella. 

Sei un soldato, si ricordò infastidito, e i soldati devono solo eseguire gli ordini.

Risentire quel nome, però, lo aveva scosso più di quanto gli piacesse ammettere. E, nonostante si ripetesse che non era affar suo e che ormai il passato era passato, non riuscì a evitare che la sua mente corresse a certe memorie inondate di sole su cui da molto tempo preferiva non indugiare.

***

“Come sarebbe, la duchessa non c’è?”.

Owen Ghilroi, capitano delle guardie del duca, si trovava in piedi nel piazzale davanti all’ingresso del convento e stava perdendo la pazienza. Seba lo vedeva dal modo in cui stringeva ritmicamente l’elsa della spada appesa al fianco.

Di fronte al militare, una suora con gli occhiali e il naso adunco si torceva le mani sudate. 

“È-è scappata, mio signore. Ieri notte”.

“Come è possibile? E cosa dovrei dire io, ora, a sua signoria? Che la figlia non si trova?”.

“M-mi dispiace, signore. L’abbiamo cercata dappertutto…”.

Il capitano inspirò così a fondo che Seba lo udì da due file di soldati più indietro.

“Ha preso un cavallo?”.

“N-no. Non abbiamo cavalli nelle stalle. Solo muli, e ci sono tutti”.

Ci fu una pausa. Seba sapeva che Owen, il suo capitano, stava cercando di mettere insieme la poca pazienza e le buone maniere che gli erano rimaste.

“D’accordo” concluse l’uomo a denti stretti. “Una donna sola, a piedi, nel bel mezzo del nulla. Non può essere andata lontano. Uomini! Al cancello”.

I soldati fecero dietrofront e si avviarono all’uscita. I più giovani si lanciarono occhiate stupite. Qualcuno ridacchiò.

Seba inspirò. Era solo un ragazzino quando era stato assoldato come stalliere a palazzo; la duchessina doveva avere avuto un paio di anni in meno di lui, ma gli aveva fatto da subito una certa impressione. Soprattutto quando l’aveva beccata a rubare il cavallo del padre per fuggire tra i campi e evitare l’ennesima chiamata di un pretendente.

Non c’era da sorprendersi che avessero deciso di chiuderla in un convento. Con un carattere come quello, era già tanto che non avesse fatto scoppiare una guerra tra regni vicini.

Rievocò alla memoria il suo viso. Una ragazzina atletica, vestita riccamente, troppo abbronzata per il suo ceto sociale e con un cipiglio truce che la rendeva inavvicinabile. Seba non avrebbe mai osato rivolgerle la parola, se non fosse stato per quell’incidente nelle stalle. E di quello che era successo dopo.

Seba mantenne la sua espressione una maschera illeggibile. Nessuno avrebbe dovuto sapere. A dirla tutta, se ci teneva alla pelle, sarebbe stato meglio se se ne fosse dimenticato anche lui.

E poi comunque lei era stata spedita in convento, lui aveva completato il suo addestramento militare fino a essere assoldato tra i Falchi, e non si erano più rivisti. Non aveva più sentito parlare di lei fino a tre giorni prima, quando era stato informato dell’imminente spedizione di recupero presso il convento.

Ancora non riusciva a immaginare il motivo di quel viaggio così sbrigativo. Probabilmente qualcosa di grave. Forse uno dei lorsignori era malato e aveva desiderio di avere tutti i figli al suo capezzale.

La duchessa, però, non c’era. E il fatto che non si trovasse più presso il luogo a lei designato fu una sorpresa — nonché un indicibile problema — per tutti loro, militari e suore. 

Ma è davvero una sorpresa? si chiese mentre attendeva di venire assegnato ad una squadra di ricerca. Ripensando allo sguardo di fuoco della ragazzina che anni prima l’aveva minacciato dall’alto di un arcione di un cavallo troppo grande per lei, non riuscì a dirsi davvero sorpreso. Si sarebbe stupito del contrario, piuttosto. 

Prestò attenzione agli ordini abbaiati del capitano. Alcuni soldati sarebbero rimasti a perquisire ogni angolo del convento, altri a frugare tra le coltivazioni di grano e pannocchie delle colline circostanti. 

Seba venne assegnato a quest'ultimo gruppo. Fece un rigido cenno di assenso e risalì a cavallo.

***

Le ricerche della duchessa scomparsa durarono troppe, lunghe, noiosissime ore. I campi coltivati si estendevano a perdita d’occhio, fino al mare a ovest e fino alle montagne a est, e nulla sembrava muoversi tra di essi a parte grilli, corvi e sporadiche lepri.

Seba ripensò alle parole del capitano. “Una donna sola, a piedi, nel bel mezzo del nulla. Non può essere andata lontano”.

E aveva ragione, considerò. Non poteva essere andata lontano: dopotutto, da quel che dicevano le suore, era sparita solo da quella mattina. Però ormai galoppavano tra le colline da ore, sudando e stringendo gli occhi alla luce impietosa del sole del pomeriggio, e della duchessa nemmeno un’impronta.

“Non può essere andata lontano”; ma, a quanto pare, può essersi nascosta schifosamente bene.

Infine, venne sera. La frescura del tramonto fu accolta con sollievo dai soldati, che si ritrovarono per scambiarsi borracce d’acqua e attendere nuovi ordini. Il cielo si era già fatto di un lilla intenso quando i cavalieri tornarono a separarsi in quattro direzioni.

“Il buio potrebbe essere un alleato. La duchessa è una donna di rango e non è abituata a dormire all’addiaccio: potrebbe spaventarsi e decidere di consegnarsi da sola”. Così aveva detto il capitano. Di nuovo, Seba si sentì legittimato a dubitare.

Avevano a disposizione forse un’ultima ora per le ricerche: poi sarebbe stato troppo buio perché fosse utile continuare.

Seba spronò il cavallo in una nuova direzione. Verso ovest, stavolta. Cavalcò per quasi mezz’ora tra i campi bui, con le orecchie tese a cogliere ogni rumore che non fosse il frinire delle cicale.

Un movimento colse la sua attenzione. Una lepre, probabilmente.

Decise comunque di controllare. Tirò piano le briglie e percorse il margine di un campo di grano, risalendo il sentiero argilloso che lo delimitava fino a raggiungere una fila di alberi di ciliegio. Gli zoccoli risuonavano sordi sulla terra indurita della stagione estiva.

Si fermò sotto il primo albero. Le cicale, nascoste tra le fronde, frinivano insistenti.

Nulla si muoveva. Le spighe di grano erano immobili nella frescura della notte. Nessuna lepre in vista.

Seba fece schioccare la lingua per indicare al cavallo a fare dietrofront, quando udì un lievissimo frusciare di tessuto.

Aguzzò la vista e vide qualcosa simile a un fagotto tra le radici dell’ultimo ciliegio. Con un lieve colpo di talloni invitò il cavallo a proseguire.

Eccola lì. Affossata in una buca tra le radici e infagottata in un mantello da viaggio che la rendeva praticamente invisibile contro il terreno riarso, dormiva la duchessa Beatrice.

Nonostante il buio quasi completo, Seba era certo che fosse lei: anche nel sonno aveva lo stesso cipiglio imbronciato di quando era bambina.

Che fare, ora, dunque? Non voleva fare rumore e rischiare di spaventarla. Allo stesso tempo, in qualche modo doveva pur svegliarla per portarla via da lì.

Si lambiccò per qualche minuto nell’incertezza mentre le cicale, imperturbate, continuavano il loro canto d’amore.

“Milady” tentò sottovoce. 

Si ricordava di lui? Avrebbe detto qualcosa? In ogni caso, decise, sarebbe stato saggio mantenere le adeguate distanze.

La donna non si mosse. 

Seba si schiarì la voce. “Mia signora”.

Niente da fare. Sentendosi ingiustamente a disagio — stava eseguendo un’operazione militare di recupero, non avrebbe dovuto esserci nessun disagio — Seba scese dall’arcione, si avvicinò al fagotto addormentato e si chinò verso la duchessa. Così da vicino riusciva a distinguerne i lineamenti del viso parzialmente celati dal mantello e dai capelli.

Era bella come ricordava.

Scacciò subito quel pensiero e allungò una mano per scuoterle gentilmente una spalla. “Milady”.

La duchessa sussultò, aprì gli occhi e lanciò un urlo.

“Va tutto bene, mia signora” si affrettò a dire Seba. “Vi stavamo cercando. Siamo…”.

“So chi sei tu” lo interruppe lei.

Seba serrò la mandibola e non lasciò trapelare alcuna emozione. “I vostri genitori vi stanno cercando. Siamo qui per riportarvi a casa” la informò con la voce più autoritaria che riuscì a imbastire.

“Lo so. È esattamente il motivo per cui mi trovo a dormire sulla nuda terra invece che in un letto”.

A questo, Seba non trovò una risposta. Era fastidiosamente turbato e stava combattendo con tutto sé stesso per non darlo a vedere.

“Sono qui per scortarvi a casa” si limitò a ribadire.

La duchessa, stretta nel suo mantello, lo stava fissando con circospezione. 

“Sei un Falco” dichiarò. 

Nonostante il buio, doveva aver notato gli spallacci con le ali. 

Seba mantenne un tono neutro. “Sì. Assunto al servizio della vostra famiglia”.

“Da quanto tempo?”

“Due anni”.

“Mmh”.

Seguì un silenzio carico di non detti. Per un istante sembrò che la duchessa volesse aggiungere altro, poi si adombrò e tornò a ritrarsi, chinando il capo.

“Non voglio tornare a casa” mormorò.

Seba si accigliò. In quelle parole non c’era l’ostinazione focosa che ricordava; c’era, più che altro, rassegnazione. Nonostante il buio, cercò di interpretare i pensieri nascosti dietro quegli occhi verdi. Perché non voleva tornare? Cosa l’aveva spinta a fuggire dal convento?

“Ho degli ordini da eseguire”.

Si guardarono per un lungo momento. Nel buio tutto intorno, le cicale frinivano con grande dedizione.

Non vedendo vie d’uscita, Seba decise di fare appello al buon senso. Con voce rassicurante, iniziò: “Mia signora. Non potete restare qui a nascondervi, né continuare e camminare per ore senza cibo né acqua. Non so cosa vi abbia spinto a lasciare il convento e non sono nella posizione di chiedervi di alcunché rispetto alle vostre motivazioni; ma sono incaricato di occuparmi della vostra sicurezza e non me ne andrò senza di voi. Quindi vi prego, tornate con me. Tutto il resto si risolverà”.

La vide deglutire, gli occhi enormi nell’oscurità sempre più fitta. 

Sembra una cerbiatta spaventata, pensò con una vena pietosa.

Non riusciva a capire cosa stesse macchinando. Voleva ancora fuggire? O stava cedendo e accettando la realtà dei fatti, ovvero che scappare era inutile?

Seba si alzò, si sfilò il guanto da equitazione e porse una mano alla cerbiatta impaurita. La duchessa fissò quella mano per molti secondi prima di decidersi ad accettarla.

Lui la tirò in piedi con decisa gentilezza, ma lei inciampò sulle radici del ciliegio e finì per cadergli addosso. Seba la sostenne per la vita con l’altro braccio mentre il profumo dei suoi capelli gli riempiva le narici. Sapone e olio di rosmarino.

La scostò da sé con decisione.

Recuperò il cavallo per le briglie e indugiò un istante su come procedere. Si voltò verso la duchessa che lo stava fissando con espressione strana. 

“So cavalcare” disse lei.

“Lo so”. 

Seba infilò un piede nella staffa e si issò in sella con un unico movimento.

Lei lo stava ancora guardando. “Temevi che avrei potuto derubarti del cavallo, se fossi salita per prima?”.

Seba sapeva che quello era un terreno estremamente scivoloso in cui avventurarsi. 

“Assolutamente no, milady” mentì. “È solo più agevole così”.

Liberò la staffa e le porse di nuovo la mano. La duchessa la afferrò e si lasciò sollevare. Seba la adagiò di traverso davanti a sé; una posizione scomoda, ma non c’erano alternative: le gonne della tunica che indossava erano inadatte alla monta classica. Beatrice rimase rigida e silenziosa mentre lui la circondava con le braccia per afferrare le redini. Le strattonò piano.

Quando il cavallo fece il primo passo in avanti, la donna ondeggiò e, priva di appigli, gli finì di nuovo addosso. Seba non si mosse mentre la duchessa gli artigliava il farsetto nel tentativo di mantenere tra loro una distanza consona. La lasciò fare finché non si arrese all’evidenza e si aggrappò a lui mentre il cavallo sobbalzava spedito tra i campi bui.

Non parlarono per tutto il viaggio. Seba non aveva idea di cosa lei stesse pensando. 

“So chi sei tu” aveva detto. Quindi si ricordava di lui. Male, molto male. Ma non era riuscito a leggere tra le righe. Era un’accusa? Una semplice constatazione?

Non erano affari suoi, decise. Non sarebbe stato lui a rievocare quello che era accaduto. Dimenticare era la scelta più saggia, e sperò che anche lei fosse dello stesso parere.

Si obbligò a pensare a qualunque cosa che non fosse la morbidezza dei capelli che gli sfioravano ritmicamente il mento e la gola, o alle dita che lo stringevano sotto il mantello all’altezza del torace. Ogni tanto, un accenno di sapone alla lavanda gli arrivava sotto il naso, insieme al lieve odore di paglia e rosmarino.

Poco dopo avvistarono le luci del convento. Solo allora la duchessa ruppe il silenzio. 

“Così vicino” mormorò costernata. “Non sarei mai riuscita a scappare”.

A Seba non piacque quel tono afflitto. Scappare, poi, era una particolare scelta di lessico che lasciava poco all’interpretazione.

Attento contemporaneamente alle asperità del sentiero e al dolce peso che aveva addosso, cercò qualcosa di ragionevole da dire.

Non lo trovò.

La duchessa non parlò oltre. Ormai erano arrivati sotto le mura del convento, ombre imponenti contro il cielo stellato.

Seba tirò piano le redini e il cavallo rallentò.

“Siamo arrivati. State bene?”.

La donna mormorò un impercettibile assenso. Seba seppe per certo che stava mentendo. 

Era stato troppo brusco con lei? Si accorse di essere stato così preoccupato di mostrarsi perfettamente composto e indifferente che non le aveva nemmeno offerto un sorso d’acqua della sua borraccia. Valutò se farlo ora, ma erano arrivati. Troppo tardi per fare il gentiluomo.

Senza aggiungere altro, entrarono nel cancello aperto del convento.

   
 
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