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Autore: Bruhduck    14/09/2024    0 recensioni
[Scritta per l'anniversario della morte di Dante. Un po' di Dante/Guido Cavalcanti :)]
Antonia Alighieri ha notato qualcosa riguardo a suo padre: c'è un giorno, ogni anno, alla fine di agosto, in cui l'uomo si racchiude nel silenzio e nella preghiera. La figlia ne domanda il motivo, il padre risponde. Lo spirito di un uomo che ancora non vuole lasciare questo mondo ascolta e osserva.
Un'altra presenza attende.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
- Questa storia fa parte della serie 'Echi da un altro tempo'
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Memorare, o piissima Virgo Maria,
a saeculo non esse auditum


Le parole fuoriuscivano dalle labbra del poeta in un mormorio sommesso e incessante.


quemquam ad tua currentem praesidia,
tua implorantem auxilia,


Il cielo sopra Ravenna si stava lentamente schiarendo, ma diverse nubi grigiastre erano ancora in agguato. Le piante erano scosse da un venticello freddo, le loro foglie si agitavano, sbattevano fra di loro, producendo così un costante fruscio: l’unico suono, insieme alla voce del poeta, in quel cortile altrimenti silenzioso.


tua petentem suffragia
esse derelictum.


L’aria colpiva la schiena dell’uomo, facendolo rabbrividire dal collo in giù e sventolando leggermente il mantello che lo copriva. Fu tentato di avvolgersi il busto con le braccia, di sistemare meglio gli abiti che indossava, ma non lo fece.
Pensò ai brividi che dovevano aver scosso quella persona, nei suoi giorni di sofferenza: nessun abbraccio li avrebbe scacciati, impossibile farli cessare con una coperta in più. Perciò si trattenne, mantenendo le mani giunte e continuando a pregare.


Ego, tali animatus confidentia,


Il ricordo della notte precedente era ancora ben impresso nella sua mente. Ogni volta che chiudeva gli occhi, lo rivedeva: lui, esattamente come lo ricordava, non era invecchiato di un giorno, a differenza sua.
In ginocchio di fronte all’altare della piccola chiesetta, in un angolo isolato nel cortile del monastero, tentava in ogni modo di scacciare quelle immagini che, da anni, lo tormentavano, giorno e notte. Ma era tutto inutile: più provava a dimenticare, più i lineamenti dell’uomo che gli era apparso per l’ennesima volta in sogno si facevano chiari, e le sue parole si mischiavano con quelle della preghiera che stava recitando.


“Mi stai ignorando da troppo tempo. Lo sai che prima o poi dovrai affrontarmi.” Aveva detto la figura nel suo sogno, la voce roca e profonda, indebolita dal male che lo aveva consumato nei suoi ultimi giorni. “Perché mi hai voltato le spalle?”


ad te, Virgo virginum, Mater, curro


“Perché te ne sei andato, chiudendo la porta, senza degnarmi nemmeno di un’ultima occhiata?”
Aveva fissato, senza dire una parola, il suo viso pallido e le labbra secche, le guance e gli occhi scavati dalla malattia, il bianco che si mischiava al nero nella sua chioma; il vigore di un tempo era ormai completamente appassito. 


ad te venio, coram te, gemens peccator, adsisto.


“Non mi hai sentito mentre ti chiamavo? Mentre ti supplicavo di tornare indietro?”


Noli, Mater Verbi, verba mea despicere,


“Non mi senti quando ti chiamo ogni notte?”


sed audi-

 

“Babbo.”

Una voce famigliare interruppe il silenzio e la sua preghiera, facendolo voltare in direzione di quel richiamo. Il poeta sorrise, osservando la figura avvolta da un candido abito che gli stava venendo incontro: sul viso pallido e dolce, adornato da una spruzzatina di lentiggini, albergava un sorriso luminoso, che ricambiava quello del padre, un velo celava i corti capelli castani. 
Una donna giovane e bella; senz’altro, in un’altra vita, non avrebbe avuto difficoltà a maritarsi. Peccato che, pensava spesso il poeta con rammarico, avesse avuto la sventura di nascere come sua figlia.

“Antonia.” L’uomo rispose al saluto, alzandosi a fatica. Mentre raddrizzava le ginocchia, barcollò lievemente, e la figlia si chinò prontamente in avanti, nel tentativo di sorreggerlo.
Lui sollevò una mano, ridacchiando per sminuire l’accaduto. “Suvvia, Antonia, non sono ancora così vecchio.” 
La donna gli sorrise, pur restando in allerta, le braccia leggermente sollevate.

“Scusa se ti ho fatto aspettare così a lungo, non era mia intenzione.” Disse lei dopo qualche istante, abbassando lo sguardo sul terreno. Stava per dire altro, ma il padre le posò delicatamente una mano sulla spalle.
“Non ti preoccupare, comprendo che gli uffici di una monaca possano essere impegnativi.”

Antonia annuì, lanciando una breve occhiata al piccolo altare al loro fianco. “Le mie compagne mi hanno detto che hai trascorso tutto il pomeriggio lì in ginocchio. Hai pregato.”
“Come un buon cristiano dovrebbe fare.” Il poeta tentò di cambiare argomento, e alzò un braccio verso il resto del cortile. “A questo proposito, avrei bisogno di sgranchirmi le gambe. Ti andrebbe una passeggiata?”

 

Percorsero più volte il chiostro e il porticato, mentre il venticello s’acquietava e i primi raggi di sole sbucavano tra le nubi, parlando del più e del meno: solitamente era il poeta a riempire il silenzio, come spesso accadeva durante le sue numerose visite al monastero in cui alloggiava la figlia; la vita di Antonia era statica e tranquilla, e non aveva molto di cui parlare. D’altra parte, il padre raccontava spesso di ambasciate e missioni diplomatiche, di questo o quell’altro avvenimento in città, dei componimenti di questo o quell’altro cortigiano.
Quel giorno, tuttavia, sembrava essere di poche parole.

Per quanto la figlia tentasse di comportarsi normalmente, il poeta ormai lo aveva compreso: c’era un dubbio in lei che tentava di liberarsi.
Decise infine di tacere per qualche momento, permettendole di porre la domanda in questione, se lo avesse voluto. E, come si aspettava, Antonia parlò: “Babbo, scusate se la mia domanda può essere inopportuna, ma… Ho notato una cosa.”

“Dimmi pure.”

“È da un po’ che ci faccio caso. C’è un giorno in particolare, e cade sempre qui, alla fine di agosto, in cui voi mi sembrate… Come dire, strano. Vi chiudete nel silenzio e nella preghiera per tutta la giornata. È per caso un giorno importante?”

Il poeta si trovò, suo malgrado, a sorridere.

“Molte sventure ci hanno impedito di stare insieme quanto avremmo dovuto. Eppure questo fatto non ti è sfuggito.” Allungò una mano per accarezzarle la testa coperta dal velo, un gesto di tenerezza che non compiva da quando lei era solo una bambina. “Sei una donna sveglia, Antonia. Brava, sei proprio mia figlia.”

Gli occhi di Antonia si illuminarono, e chinò il viso. “Una volta ho chiesto alla mamma, ma si è innervosita e ha fatto di tutto per cambiare argomento. Se è qualcosa che non devo sapere, io-”

“Mh, a Gemma non piace molto parlarne, e nemmeno a me.” Si bloccò all’improvviso, per poi sedersi sul muretto del porticato, facendo cenno alla figlia di accomodarsi accanto a lui. “Tuttavia, mi hai fatto una domanda e penso di doverti una risposta.”

Quando Antonia si fu sistemata, il poeta prese un profondo respiro. Era ora di confessarlo.

“Ebbene, Antonia, sappi che tuo padre ha peccato.”

Vide le labbra della figlia storcersi in una smorfia, la delusione si faceva strada nei suoi occhi. “Volete dire che le accuse-”

“No, no. Non sto parlando di quello: sai che mi sono sempre dichiarato innocente, perché è la verità.” La interruppe prontamente. “No… Io ho peccato più volte nella mia vita, ma, vedi, c’è qualcosa a cui penso spesso. Come… Come un peso che proprio non se ne vuole andare, non importa quanti anni passino, non importa quanto preghi. Lui è sempre lì.”

Chiuse gli occhi per un istante, e ciò fu sufficiente a far riapparire l’immagine dell’uomo: questa volta, il poeta giurò di aver visto la traccia di un sorriso, nella singola frazione di secondo in cui gli balenò di fronte. 

“Conosci bene Guido Cavalcanti.”

Antonia annuì. “Sì. Eravate amici.”

Un’altra immagine si manifestò, questa volta molto diversa: stringeva le redini del destriero su cui era montato, un bel venticello gli scuoteva i capelli; davanti a lui, in groppa a un bel cavallo nero, un uomo, uguale e allo stesso tempo così diverso da colui che lo perseguitava nei suoi sogni, lo guardava con quel suo sorriso che pareva più un ghigno scherzoso, le labbra si muovevano articolando parole di cui aveva dimenticato il suono.

“E sai anche perché abbiamo smesso di esserlo?”

“Immagino quando lui è morto. Di malaria, giusto?”

“Quindi non sai tutta la storia. Onestamente, non mi sorprende.” Avrebbe dovuto aspettarselo: Antonia era troppo piccola quando quell’avvenimento accadde; aveva trascorso praticamente tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza a contatto quasi esclusivamente con i parenti, per poi cominciare il percorso di iniziazione monastica: da quando lei aveva deciso di raggiungerlo in esilio, lui non aveva mai fatto parola del suo vecchio amico. Ed evidentemente, lo stesso avevano fatto gli altri Alighieri.

“Sì, hai detto bene: morì di malaria. Una malattia che contrasse a Sarzana, quando fu esiliato. Da me e dagli altri priori.”

La ragazza sussultò, voltandosi di scatto verso di lui. “Fosti tu? Non lo sapevo.”

“Morì questo stesso giorno di ventuno anni fa. 29 agosto, non potrei mai dimenticarlo.” Finalmente, il poeta aprì gli occhi. Il verde prato su cui stava cavalcando insieme all’altro uomo venne sostituito dal chiostro del monastero. “Ed ecco che ho risposto alla tua domanda: pregando per lui e per me stesso, ogni anno, mi illudo di poter alleggerire il peso che sento.”

Il silenzio dilagò tra i due: il poeta attese che Antonia commentasse, che dicesse qualcosa; ma sembrava che lei stesse aspettando altro da parte sua.

“Ma non funziona, sai? A volte lui torna.” Proseguì, portando gli occhi verso una pozzanghera di fronte a loro; una piccola porzione di cielo azzurro per cui le nubi si allargavano, si specchiava in essa. “Torna nei miei sogni, quando scrivo, e mi rimprovera. Mi biasima per ciò che ho fatto, per tutte le mie scelte, per quello che sono diventato. Vorrei zittirlo. Vorrei dirgli che, in fondo, lui non è mai stato migliore di me. Eppure, ogni volta, finisco per scusarmi, in lacrime. Lo prego di perdonarmi, dicendo che non avevo altra scelta. E lui… Lui non risponde, semplicemente mi fissa, come se mi stesse giudicando, proprio come faceva quando eravamo ancora insieme. A volte vorrei che dicesse altro, oltre ai semplici rimproveri. Ma non accade mai.”

Si voltò finalmente verso la figlia: vide pietà, nei suoi occhi. Pietà e, forse, anche un leggero disagio.

“Scusa, ho parlato di nuovo troppo. Non è opportuno che mi apra in questo modo.”

“No, va bene così.” La donna allargò le labbra in un leggero sorriso, alzando poi lo sguardo verso il cielo. “Eravate molto legati?”

Il ricordo di una voce famigliare che chiamava il suo nome si fece strada in lui, un uomo che gli sorrideva e gli posava una mano guantata sulla spalla, con una delicatezza che nessuno avrebbe mai potuto immaginare, vedendo un uomo di quella stazza. L’Arno che scorreva placidamente sotto i loro piedi, le loro voci che si alzavano e si mescolavano fra di loro, unendosi alla cacofonia che caratterizzava il centro di Firenze.

I lunghi pomeriggi nello studio di Guido, gli scaffali colmi di libri che lui amava tanto prendere e sfogliare, i dorsi delle copertine su cui passava sempre le dita. Guido che gli lanciava un’occhiataccia, borbottando di non toccare, ma poi sorrideva, vedendolo così entusiasta. Era uno dei pochi a cui Guido permetteva di toccare i suoi preziosi volumi, di cui era tanto geloso.

Lui che scriveva una nuova poesia, Guido che la leggeva e prontamente la criticava, loro due che litigavano, che se ne dicevano di tutti i colori. E poi si guardavano, per qualche istante, in silenzio, lo sguardo offeso. Scoppiavano a ridere e si abbracciavano.
Il mantello che una sera d’autunno Guido gli aveva prestato; il tessuto morbido e caldo, il desiderio di affondarci dentro, in quel calore, e di non riemergere mai più.

Un palmo delicato che gli sfiorava la guancia, un paio di labbra che si avvicinavano pericolosamente alle sue. Lui che rimaneva immobile, senza far nulla per fermarle.

“Sì. Sì, lo eravamo.” 

“Vi sentite in colpa per la sua morte, ma voi non potevate di certo sapere che…”

“Non è solo questo, in realtà. Io…”

La nomina a priore, le ambizioni che finalmente prendevano forma, gli anni di sacrifici che venivano premiati. Poi arrivò la notizia della rissa al Battistero: una voce che prorompeva nella Torre della Castagna, svegliando i sei priori. I nomi dei responsabili, pronunciati uno per uno.
La riunione d’emergenza, la proposta dell’esilio. Un suo collega, non ricordava nemmeno quale, che faceva il nome di Cavalcanti. La sua mano che, all’ultimo momento, infilava un sassolino nero nell’anfora.

Lo sguardo pieno di rancore di Guido, la sera prima della partenza. Lo sguardo addolorato e moribondo, la sera prima della sua morte. 

“Facciamoci questa promessa: rivediamoci, un giorno, dall’altra parte.” Aveva detto quando era andato a fargli visita, sul letto di morte, dopo aver rinnegato tutto ciò che erano stati. E subito dopo averla pronunciata, quella promessa gli era sembrata così inconsistente. Avrebbe voluto dire altro, avrebbe dovuto dire altro.
Eppure qualcosa l’aveva spinto ad andarsene, chiudendosi la porta alle spalle senza voltarsi indietro. Ignorando l’ultimo, flebile richiamo di quello che era stato il suo primo amico.

“Io avrei voluto restare più tempo con lui, alla fine. Avrei voluto dirgli delle parole che non ho mai avuto il coraggio di pronunciare, avrei voluto risolvere questioni tra noi che erano rimaste in sospeso da troppo tempo. Ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto, e adesso non c’è più modo di tornare indietro.”

Le lacrime che minacciavano di fuoriuscire dai suoi occhi arrossati si arrestarono improvvisamente, quando un paio di piccole mani afferrarono le sue, tremanti.

“Non si può tornare indietro, è vero. Si può solo andare avanti.” Disse dolcemente Antonia, cercando il suo sguardo. “Dall’altra parte, quando vi rincontrerete… Sarà allora che potrete risolvere tutto ciò che avete lasciato in sospeso.”

Dante incrociò gli occhi della figlia, la quale strinse ancora di più le sue mani nelle proprie. Si scambiarono un sorriso, e non ci fu bisogno commentare oltre.

 

“E il poema? Come sta procedendo?” Chiese Antonia, quando ormai il cielo si stava scurendo, lasciando lentamente spazio alla sera. 

“Procede.” Rispose il padre. “Sono poco convinto sugli ultimi canti… Oh, se devo essere onesto non sarò mai davvero convinto del tutto, temo. Ad ogni modo, non c’è fretta, posso sempre dare qualche ultima aggiustatina una volta tornato da Venezia.”

“Ah, giusto, la partenza è domani.”

“Non che abbia molta voglia, ma non posso fare altrimenti.” Fece spallucce, mentre si avvicinava alla figlia e le afferrava i lati del viso, per posarle un bacio delicato sulla fronte.

“Ci vediamo quando torno, mia cara.”

“Fa buon viaggio!” I due si separarono proprio mentre il cielo ricominciava ad annuvolarsi.

Quella notte Guido tornò a fargli visita, proprio come si aspettava. Tuttavia, il sogno era diverso dalle altre volte: l’uomo non parlava, limitandosi invece a squadrarlo in silenzio, con un’espressione indecifrabile in viso. E, alle sue spalle, un’ombra scura, informe, le cui fattezze erano impossibili da distinguere, li osservava entrambi, anch’essa senza proferir parola.

 

 

Mentre entrava in lacrime nel palazzo dei Da Polenta, Antonia aveva già versato tutte le lacrime che aveva, e non le rimaneva altro che singhiozzare a vuoto, gli occhi secchi e arrossati, borbottando tra sé frammenti sconnessi di preghiere. 

Oltrepassò in fretta messer Guido da Polenta e i suoi famigliari, senza degnarli di uno sguardo o di una parola. Ci avrebbe pensato più tardi a fare gli onori al padrone di casa, in quel momento proprio non era in vena.

Appena vide la robusta figura di Jacopo, permise a sé stessa di lasciarsi andare, di abbandonarsi alla debolezza che aveva ormai avvolto completamente il suo corpo, gettandosi tra le braccia del fratello.
Lui la afferrò e la strinse, carezzandole piano la testa, proprio come quando erano bambini e lei ogni notte piangeva, domandando dove fosse finito il loro papà.

“Babbo?” Chiese sottovoce. Jacopo indicò con un cenno del capo la stanza adiacente, quella che doveva essere la camera funeraria. 

Antonia si prese tutto il tempo necessario per entrare, per osservare gradualmente la scena, affinché non risultasse troppo dura per il suo cuore: prima udì i gemiti sommessi della madre, poi vide la sua schiena che sussultava, in preda agli isterici singhiozzi, mentre la mano gentile di Pietro la percorreva delicatamente, in un vano tentativo di consolazione. Vide poi il letto su cui era disteso il corpo, che man mano si faceva più chiaro. 

Trattenne il respiro quando, infine, vide il viso bianco e immobile, la pelle rinsecchita per quella malattia che si era portata via suo padre così in fretta e tanto all’improvviso. Malaria.
Le sue gambe cedettero.

 

Solo verso sera, Antonia fu in grado di potersi prendere qualche momento di intimità con il padre: per tutto il giorno, famigliari, nobili, letterati, amici, avevano affollato la camera mortuaria allestita per l’illustre defunto, e per lei non c’era stato un solo attimo di risposo, tra strette di mani e condoglianze.
Finalmente sola e nel silenzio completo, la donna si avvicinò al corpo del padre. Pose una mano sulle sue, giunte all’altezza del petto, e rimase semplicemente a osservarlo.

Avrebbe potuto pensare a qualsiasi altra cosa guardando quel volto dormiente, eppure, per qualche ragione sconosciuta persino a lei, la sua mente tornò alla conversazione avuta solo un paio di settimane prima.
Pensò a Guido Cavalcanti, quell’uomo di cui lei non conservava alcun ricordo, ma che era stato così caro a suo padre. Pensò al rammarico di suo padre, al senso di colpa che aveva dovuto sopportare in tutti quegli anni. E sorrise.

Forse quei due si trovavano insieme, in quel momento. Forse, finalmente, si sarebbero nuovamente parlati.

   
 
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