E dunque entrai. Non che avessi altra scelta, non c’era molto lì intorno, oltre a quell’enorme, edenico giardino bipartito dal sentiero nel quale camminavo, senza – lo confesso – avere memoria di come l’avevo imboccato. Dico giardino, ma è bene specificare che aveva più la fisionomia di un prato; un prato ben curato: si aveva la sensazione che ogni filo d’erba fosse chirurgicamente livellato con gli altri. Questo allineamento si percepiva grazie al suono costante, felice, del vento che passava. Non sibilava come sibila nei giardini comuni, non fischiava come fischia nei fiordi luminosi, non ruggiva come ruggisce nei tropici. Il vento mormorava, forse una storiella, perché l’erba si muoveva, si piegava, sorrideva e rideva.
Non ricordo che avesse né alberi né cespugli, certamente non aveva sterpi. I fiori, purtroppo, credo che il pitagorico giardiniere, che misurava la prateria col righello, avesse decapitato tutti; papà-fiori, mamme-fiori, figlie-fiori e figli-fiori non c’erano e così era voluto a sangue freddo. Si può nitidamente immaginare questa figura, con pesanti guanti verdi, camicia blu e bretelle color smeraldo (rese immonde dal fango su cui la figura era solita inginocchiarsi), sorridere nell’atto di decollazione floreale.
Solo ai margini del ciottolato alcuni sassi, puliti e levigati, rompevano con la loro fila indiana la tela chartreuse; non so dire se fossero stati lavorati dallo stesso giardiniere o se da qualcun altro, forse ancora più annoiato del suo impiego: peggio di sfoltire il prato centimetro per centimetro c’è solo, immagino, lavare e scartavetrare sassi. Ripensando a quella distesa, così di getto, mi stupisco: non ho in memoria di nessun insetto arrampicarsi né sull’erba né sui ciottoli. Non ricordo nemmeno, a essere onesto, la terra dalla quale la natura germogliava e sulla quale la pavimentazione fu lastricata. Unicamente, ricordo il portone, che forse non aveva nessun edificio a reggerlo, ma certo era curioso. Di porte, porte grandi, porte piccole, porte mediocri, porticine e porticciole (note anche come porticciuole), in giro, se ne vedono, e pure parecchie! Ma un portone è una roba grossa, è un -one, è curioso. E dunque entrai.
«Avanti!»
«Io, in verità, non ho chiesto permesso. Non sapevo ci fosse qualcuno...»
«Allora torni indietro e chieda permesso.»
«Ma sarebbe inutile, ho già immesso il piede.»
«Allora venga avanti.»
«Solo se non s’offende.»
«Non m’offendo!»
«Guardi che se entro, e poi Lei si offende, il mio cuore non reggerebbe.»
«Sia mai! Tengo molto al Suo cuore, io; tengo al cuore di tutti! Entri, entri, che non m’offendo.»
«Sto entrando.»
«Bravo, bravo!»
«Sono dentro.»
«Si faccia coraggio, mi trova alla fine del corridoio.»
«Ma quale corridoio?»
«Quello davanti a Lei, è naturale!»
La voce che credei essere vicina, scopersi che si trovava alla fine di un corridoio così esteso, così largo da essere una galleria. E, in effetti, le pareti erano istoriate da altorilievi, bassorilievi e quadri e targhette. La storia umana era percorsa tramite volti famosi e ignoti, chi aveva agito chiaramente e chi, invece, si era mosso segretamente; tutti, nessuno escluso... forse persino io mi trovavo lì, da qualche parte. Più guardavo, più leggevo, più le decorazioni crescevano di numero e il soffitto si alzava e la galleria si allargava.
«Se vuole venire, Le consiglio di smettere di leggere e varcare la porta.»
«Ma quale porta?»
«Quella alla Sua destra, è naturale!»
«E quella a sinistra?»
«È da anni che non l’usiamo.»
«Perché?»
«Perché è da anni che non sbagliamo.»
«Non sbagliate cosa?»
«Non sbagliamo a invitare.»
«Ma io non sono stato realmente invitato. Sono entrato e basta. Debbo prendere la porta a sinistra?»
«Ma come! Le ho detto Avanti! o no?»
«L’ha fatto.»
«Allora prenda la porta a destra.»
Con un solo passo mi ritrovai davanti al mio interlocutore. In realtà, più che davanti a lui, fui davanti a un libro cremisi, avente tutta l’aria di essere antico, di abnormi dimensioni, inciso di paffuti fiori tubolari. Il volume aveva due piccole ali rosa, una per lato, magre e un po’ raggrinzite; di colpo, le ali sbatterono e il libro si chiuse. Le ali del libro avevano ottenuto una vita tutta loro, staccata dal tomo, e applaudirono una volta di gioia, sotto il sorriso di un uomo non proprio giovane. Felice anche negli occhi, il vecchietto mi guardava, non so se volesse studiarmi o se aspettasse un saluto da parte mia, ma io rimasi zitto.
«Ahem.»
«Ha segnato la pagina prima di chiudere il libro?»
«No, caro signore, non avevo un segnalibro.»
«E allora come farà a ricordarsi a che passo si è interrotto?»
«Ohibò! beh, immagino che lo ricomincerò da capo.»
«Ma se fa così per tutti i libri, non ne finirà mai nessuno. Inoltre, si annoierà a leggere quello che già conosce.» «Oh, non si preoccupi di quello! Il libro cangia sempre.»
«Cangia sempre?»
«Caro signore, presti attenzione! Il libro, sì, cangia sempre.»
«Ah!, intende dire che le sue interpretazioni mutano!»
«No, le mie interpretazioni non mutano, né cangiano; è il libro che cangia. Vede, ieri riguardava una donna. Una cara donna, eppure triste e sola, che bussò a una porta (la donna era abituata a portoni, ma le porte sono robe straordinarie, sono -orte, e quindi curiose) –»
«Naturale.»
«Naturale. Questa donna, dunque, bussò alla porta e un giovane baldanzoso l’aperse l’entrata. Capitò in una bellissima galleria, ma non si interessava d’arte, quindi prese subito, d’intuito, la porta alla sua destra.»
«E poi?»
«E poi smisi di leggere.»
«Perché?»
«Avevo visite.»
«Mi dispiace.»
«Lei è molto gentile; ma vede, io leggo sempre prima che abbia ospiti.»
«Così si interrompe sempre sul più bello! Non le dà fastidio?»
«Al contrario. Il più bello è quello che leggo prima che arrivino visite. Non credo negli epiloghi.»
«Brutta storia gli epiloghi, rovinano sempre il divertimento.»
«Esattamente, caro signore! Ha decisamente ragione!»
«Al rogo gli epiloghi!»
«Al rogo gli ep– no, no, no. Cosa stiamo dicendo? Al rogo un bel niente, basta non leggerli.»
«Lei è molto saggio, signor...?»
«Pietro.»
«Mi compiaccio di conoscerLa, signor Pietro. Io sono... in verità, io sono...»
«Non si sforzi! So già chi è Lei.»
«Lo sa?»
«Certo che lo so! Come ha detto Lei, io sono molto saggio.»
«Che sollievo, signor Pietro! Le confesso che mi sono scordato il mio nome.»
«Può capitare.»
«Non è che mi direbbe il mio nome, allora?»
«Non so se è pronto.»
«Pronto per cosa?»
«Ma pronto per ricordarselo!»
«Ha ragione, è meglio attendere che mi riprenda. Mi sento un po’ frastornato.»
«Allora le farebbe bene una tazza di tè!»
«Qui? In una biblioteca?»
«Non sia sciocco, non si beve il tè in una biblioteca. Per questo siamo in cucina.»
«Siamo in una cucina?»
«È giusto, così Le posso dare la tazza di tè. Appena ricordo dove ho messo la caffettiera.»
«Signor Pietro, forse intendeva dire teiera: “Appena ricordo dove ho messo la teiera”.»
«Aveva ragione poc’anzi, è proprio frastornato. Sembra che abbia battuto la testa. Non si è mai visto qualcuno preparare il tè con la teiera! Ci vuole la caffettiera.»
«E per il caffè?»
«Il pentolino per il latte.»
«E per il latte?»
«Il pentolino per il sugo.»
«E per il sugo?»
«Il cucchiaio.»
«E la teiera, allora?»
«Ma la teiera rimane a guardare!»
Batterono un colpo al portone e sentii l’ospite invitare il Bussante ad entrare. Dal fatto che il signor Pietro non aveva dato indicazioni per raggiungerci, credetti che il Bussante fosse una conoscenza avvezza a presentarsi. Percepii la luce della biblioteca-cucina opacizzarsi e mi trovai dirimpetto un alto e scheletrico straniero, che, appena scorse una sedia, lasso, vi si accasciò.
«Avete già ospiti, vedo.»
(«Ma tu sei sempre benvenuto!»)
«E il signore è...?»
(«Stranamente, non lo ricorda.»)
«Non lo ricorda, dite?»
«Non lo ricordo.»
«Curioso.»
(«Curioso per davvero!»)
«Cosa è curioso?»
«Che Lei non si ricordi chi è.»
«Non mi dica che Lei, invece, si ricorda sempre tutto di sé!»
«Ebbene, non solo ricordo tutto di me, ma ricordo tutti coloro che sono stato.»
«Non credo di seguirLa.»
«Certo che non mi segue, sono seduto. Non si è mai visto uno seguire qualcuno immobile, perché dovrebbe incominciare Lei?»
(«Porta pazienza, credo che il nostro amico abbia battuto la testa. È un po’ frastornato: pensa, insiste che il tè si faccia con la teiera.»)
«Ah, ha proprio battuto la testa. Lo sa chiunque che il tè si fa con la padella.»
«Con la padella?!»
«Ma certo, caro signore, con la padella. Ma dunque, c’è del tè?»
(«Appena trovo la padella.»)
«E allora il pesce?»
«Il pesce cosa?»
«Se usa la padella per il tè, come cucina il pesce?»
«Ma con la caffettiera, naturalmente!»
«E il caffè?»
«Con il pentolino per il latte.»
«E il latte?»
«Con il pentolino per il sugo.»
«Oh, insomma! Cosa intendeva prima?»
«Prima quando?»
«Quando ha ammesso che ricorda tutti coloro che è stato.»
«Vede, caro amico, io ho questa dannazione, di non essere mai chi sono per conto mio. Assumo le sembianze dell’ultimo che ho visitato, cosicché nessuno, quando mi vede, mi riconosca. Chi si aspetta di incontrarmi, presto o tardi, fallirà nell’additarmi: “Identificati”, “Quel che cerchi è qua”, “No, ma va, non può essere, la tua figura è diversa da quella che ho immaginato”, “Lascia che i miei atti ti disviano dal tuo pensiero errato.”. Così io posso essere vecchio, posso essere fanciullo, posso essere un uomo, una donna, un giovane o un infante. Posso persino essere cane o gatto o pesce. Chi sono, mi chiedi? Sono l’ultimo volto d’un’infelice era.»
«Ieri chi ha visitato?»
«Un giovane grafomane. Persona motivata, ma troppo confusa – e sfortunata.»
«Ma non ha giovani aspetti, ha forse già visitato qualcuno, oggi?»
«Giovani aspetti, dice? Debbo averli dimenticati.»
(«È una spiegazione più che ragionevole.»)
«Ma allora, domani chi visiterà?»
«Perbacco! Di solito non guardo che il giorno stesso. Prendo l’agenda e scopriamo assieme; domani, dunque, domani... ma che giorno è domani?»
(«Il giorno che segue a oggi.»)
«Ma certo, ma certo! Grazie! Dunque, dunque, dunque... domani... domani mi aspettano una madre con un bambino, un tucano, un cervo e un orso polare.»
«Tutti in un solo giorno? in luoghi così distanti? non sono un po’ troppi?» «Qualcuno dovrà pur andare da loro.»
«Nessuno può aiutarti?»
«Loro non si aspettano altri né altre che me.»
Avrei voluto portare avanti la conversazione, ma, ex abrupto, fummo interrotti dalla rumorosa del signor Pietro in beneficio della padella da tè. Qualche bonario improperio di secca frustrazione venne seguito da quello che ebbe tutta l’aria di essere uno raptus d’ira, in pieno contrasto – mi venne da osservare silenziosamente – con l’immagine placida che del signor Pietro mi ero eretto.
«Guarda che ora è!, lascia stare la padella e il tè, vecchio mio, ché già mi attendono.»
«Era un amico Suo?»
«Non meno di quanto lo sia Lei.»
«Tra voi due, mi consenta di protestare, però, usate il tu. È per forza più intimo di me.»
«Se chiama rosa una rosa rimane una rosa. La rosa rimane rosa anche se La chiama tulipano o fango. Lei rimane Lei anche nel caso in cui io La chiami Tu, o Voi, o Io. Di conseguenza, che Lei sia Lei, o Tu, o Voi, o Io, e per il fatto che io possa essere Io, o Voi, o Tu, o Lei, pur rimanendo sempre me stesso, il rapporto tra Io-Lei, Io-Tu, Io-Voi, Io-Io, sarà lo stesso che sarebbe se il rapporto fosse tra Io-Lei; Voi-Lei, Tu-Lei o Lei- Lei, o uguale a Io-Io...»
«Non serve continuare, ritengo di aver afferrato il concetto.»
«Peccato, mi stavo divertendo, sa? Che peccato davvero.»
«Ho avuto modo di notarlo.»
«Cosa Le piglia? Mi sembra scocciato.»
«Tutti questi sofismi, tutti questi Lei-Io-Voi-pronomi-e-cosi, ma alla fine della fiera la verità è una sola.»
«Qual è?»
«Che io sarò io, ma chi sono io? E nel frattempo, l’amico Suo, se ne va in giro a essere tutti, ma non se stesso. Oppure dentro è se stesso, ma fuori è tutti. Ho il sospetto, signor Pietro, che il Suo amico si sia rubato anche me.»
«Non sia sciocco! L’amico mio non ruba. Prende in prestito per qualche ora, non di più. È poi, cos’è un simulacro davanti all’estro?»
«Ma il simulacro è tutto, signor Pietro! Siamo o non siamo fatti a Sua immagine e somiglianza?»
«Ah, è teologo, Lei? Bene, bene. Un erudito, fa piacere conversare con chi si informa. Io, però, non sono dello stesso avviso. A Sua immagine e somiglianza. Lei pare sicuro che Egli sia fisicamente come noialtri, ma quello che è il nostro corpo non è altro che un ponte, perché Egli si dovrebbe curare dei ponti e non di chi ci passa sopra? Non è forse la nostra inclinazione buona, gioconda, misericordiosa, caritatevole, passionale? Non è forse Egli nel gesto della mano protesa e non nelle dita? Non è forse Egli l’amore che muove il sole e le altre stelle? L’amore, caro signore, non ha un volto, non ha confini. Chi Lei è batte chi Lei appare, Lei sarà premiato per come si comporta e non per come si presenta. Senza nome è qui, lo sarebbe anche senza corpo, ma non senza spirito. Che il mio amico abbia avuto, anche solo per un momento, La sua fisicità, non implica che sia diventato più Lei di Lei; o peggio, che sia diventato il vero Lei.»
«Toc-toc.»
(«Chi va là?»)
«Da quello che ho sentito finora, sono certamente una diversa da voi.»
(«Quand’è così... avanti!»)
«Ma questa casa è un albergo.»
(«Macché, è una casa.»)
«È molto che origlia, signorina?»
«Signora.»
«È sposata?»
«Sono costantemente moglie e vedova di tutti.»
«Non so se farLe le felicitazioni o le condoglianze...»
(«Perché non entrambe?»)
«Andrà bene nessuna delle due, è così da sempre. Io mi innamoro di ogni essere vivente, ci convolo a nozze, ma soprattutto una specie non ama sempre me di ricambio. Alle volte, mi lasciano prima di quanto avrei voluto. Si può anche dire che mi sono infedeli.»
«Le sono infedeli? Ma è terribile!»
«Sì, è terribile, ma non vanno molto lontani. Preferiscono mio fratello a me, in un certo senso, rimangono in famiglia. Dalla padella sul fuoco presumo che è stato qui.»
«Chi?»
«Mio fratello.»
«Il signore di prima è suo fratello?! Ladro di identità e per giunta giuda in seno alla famiglia!»
«Suvvia, suvvia. Che colpa ne ha lui se alcuni l’amano più di quanto amino me? L’unico difetto che mio fratello ha, e che proprio non riesco a togliergli, è di fare il tè con la padella.»
«Finalmente una che ragioni! Sono ore che insisto perché usino una teiera!»
«Una teiera? E a cosa Le serve una teiera?»
«Ma per il tè, è ovvio!»
«Ah, questa è bella, proprio bella! Lei, signore, è un maestro di scherzi! I giocondi sono quelli che più preferisco, bravo! Se solo non avesse... a ogni modo, Pietro, sia buono, butti via quell’acqua lì e faccia un vero tè: ci vuole lo spremiagrumi.»
«Ma è una congiura!»
(«Quousque tandem...»)
«Sì, sì, molto bene, signor Pietro. Ma, mi scusi, come si può preparare il tè con lo spremiagrumi? Come scalda l’acqua?»
«E perché mai dovrei scaldare qualcosa che posso già aver caldo? E poi, mi dica come si può non preparare il tè con lo spremiagrumi! Il succo delle erbe in qualche modo si deve pur ottenere.»
«Lo concedo. Ma allora, in che modo ottiene una spremuta?»
«Tramite un pentolino per il latte, mi pare ovvio.»
«E come prepara il latte?»
«Con la caffettiera.»
«E come prepara il caffè?»
«Con la padella.»
«E come prepara il pesce?»
«Col cucchiaio.»
«Ma, insomma, questa teiera?»
(«Io Gliel’ho già detto...»)
«Ma la teiera, sciocchino, rimane a guardare!»
Mi decisi solo allora di alzare lo sguardo verso la signora, la quale, intesi, era anche mia moglie. Forse il coraggio trovava fonte nella consapevolezza di non averla tradita con suo fratello, forse solo con l’altra moglie. Mi accorsi, però, che la signora, in effetti, non v’era. Mi trovai dirimpetto, invece, forte e corrusca, una croce molto sottile, dai confini incerti e sfavillanti. Sorpreso, sobbalzai.
«Moglie cara – voglio dire, gentile signora, non si allarmi: ha perso il suo corpo.»
«Il mio corpo, dice?»
«Ma sì, ma sì! Gambe, braccia, ventre, organi interni...»
«Per averlo perso, prima avrei dovuto possederlo, non crede?»
«Lei non... non possiede un corpo?»
«No, ne sono nata priva; in compenso, però, mio fratello è nato con tutti, compresi quelli che verranno. Io e lui, da quando esistiamo, e io prima di lui, condividiamo maledizioni e benedizioni. La mia sorte piaga la sua, e viceversa; tutto ciò che posso ottenere, in realtà, prima o poi gli concedo, quindi non mi affeziono. Se io avessi un corpo, esso sarebbe il mio sarcofago: prima o poi, egli verrebbe da me, e questa sarebbe la fine. Come il signor Pietro qui, io non credo più di tanto agli epiloghi, solo ai cominciamenti; perché mai dovrei segnare il mio destino? Io non sono che un’idea, un estro di speranza e vastità oltre la misura. Quando qualcosa si forma, io non lo riduco a una dimensione, ne diminuirei la bellezza. Voi siete corpo, siete corruttibile e indeciso – e per colmare il vostro vuoto cercate la pace in mio fratello, per il fatto che conosce i corpi, e non in me, per il fatto che conosco la sconfinatezza. Ciò che conta è immateriale: pertanto, io mi sposo con idee, ma sono vedova di corpi.»
«Io non capisco.»
«Perché Lei ha perso la Sua Idea, ma mantiene il Suo corpo. Quando ricorderà il Suo nome, forse, cogiterà meglio.»
E così si spense.
«Signor Pietro, se lo lasci dire: i suoi amici sono proprio strambi. Questo è tutti ma non se stesso, quella è nessuno, ma se stessa, però sposa tutti... mah! Bazzecole e bagattelle, fanfaluche e stramberie!»
«Ah! non sarà felice di sapere, allora, che pure Lei è amico mio.»
«Beh, ma questo che c’entra?»
«C’entra, c’entra; se i miei amici sono strambi, e Lei è amico mio... significa che Lei ha contratto una strambite acuta, caro signore.»
«Ed è grave, dottore?»
«Grave? Non si preoccupi, non è grave...»
«Bene, che sollievo.»
«È semplicemente gravissima!»
«No! Non me lo dica!»
«Gravissimissima!»
«Ah!»
«La più grave strambite acuta che io abbia mai prognosticato!»
«Ah, muoio! Io muoio!»
«La morte mi sembra uno sfogo un po’ estremo, però.»
«E la mia strambite?»
«Si rilassi! basterà una tazza di tè.»
«Una teiera, presto!»
«No, no, no. Niente teiera... la strambite peggiora... un tè buono si ricava esclusivamente da–»
«Da una pentola di ossa umane.»
«Come, prego?»
«No, dicevo, dal pentolino per il latte.»
«È sicuro di aver detto questo, signore?»
«Assolutamente sì.»
«Perché a me sembrava...»
«Le sembrava cosa? Mi sta forse dando del menzognero?»
(«Si vergogni, caro signore! Dare a lui del menzognero! A lui, poi!»)
«Ma io, in verità...»
«Sono offeso.»
(«È offeso!»)
«Umiliato.»
(«È umiliato!»)
«Come non sono mai stato!»
(«Come non è mai stato!»)
«Chiedo scusa.»
(«Chiede scusa!»)
«La perdono.»
«Molto obbligato, egregio...?»
«Catone Minore.»
«Lei deve avermi preso per uno sciocco! Catone Minore appartiene al I secolo a.C.! Ancora i tè non si bevevano! Perché si prende beffa di me, che Le ho fatto io? Palesi la Sua vera identità, la palesi, o io non risponderò di me stesso! L’avverto, ho una strambite acuta gravissimissima! La peggiore prognosticata!»
«Cosa pretende Lei di sapere! Non conosce il Suo nome eppure è convinto di smascherare il mio.»
«Ma Lei come lo sa?»
«Io sono qui per darLe il mio contributo.»
«Con tutto il rispetto, non La conosco.»
«Io Le ho detto il mio nome; mi conosce più di altri che mi hanno incontrato. In realtà, a ben vedere, sono io che non conosco Lei.»
«Lei mi sbigottisce.»
«C’è tempo per rimediare, altrove, però. È ora di andare.»
«Di andare dove?»
«Non mi dica che non l’ha capito.» «Non ho capito cosa?»
«Santi Numi, non l’ha capito!» «Capito cosa?!»
«Swedenborg.»
«Salute.»
«Grazie.»
(«Oh, no, caro signore, si intendeva altro. Qui si parla di teologia, di cui Lei ha già dimostrato d’essere informato. Lei ora fa parte di un mondo parallelo, Le aspetta una vita da teiera.»)
«Una vita da teiera?»
«Esattamente.»
«Come sarebbe a dire “una vita da teiera”?»
(«Lei rimarrà a guardare.»)
«No, no, no! No! Io voglio viverla, la vita! La voglio vivere, la voglio vivere! Datemela indietro, indietro, indietro vi dico! Lei si allontani! Non vengo con Lei, non ci vengo! Ho ancora speranza, se ne vada! Io voglio vivere! Voglio uscire da questo posto! Voglio correre, giocare, cadere! Voglio ammalarmi e voglio guarire! Voglio leggere e voglio scrivere! Voglio dormire e svegliarmi! Voglio accarezzare un animale e nuotare! Voglio... io voglio...»
(«Non lo capisce? per Lei è troppo tardi.»)
«È ora di andare.»
«Signor Pietro, prima di dipartirmi...» «Sì?»
«Sono pronto.»
«Pronto per cosa, caro signore?» «Pronto per il mio nome.»
«E a che Le serve? Non ci sono nomi là dove sta andando.»
Ero un uomo, e ora non sono che un’Idea.