Capitolo 4
Bernhard si recò a grandi falcate al piano superiore, dopo aver salutato il duca e il marchese. Batté il pugno sulla porta della camera di sua figlia e non attese che questa gli desse il permesso per entrare. La trovò sdraiata sul letto a pancia in giù, i capelli sciolti che somigliavano a un mantello e lo stesso abito scuro ancora indosso. Vedendola in quello stato, la rabbia un pochino si placò. Sapeva che stava chiedendo moltissimo alla sua bambina, un sacrificio enorme, ma necessario per il suo – loro – bene.
“Bimba”, cominciò, ma la furia di Evie gli si riversò addosso alla stregua di una tempesta.
“Mi avete venduta al marchese, padre! Non provate almeno un po' di pena per me?” Si era voltata nella direzione dell'uomo, mettendosi a sedere al centro del letto. Il volto rigato dalle lacrime.
“Diventerai marchesa, lo capisci?” Bertus si sedette proprio vicino a lei, posandole una mano sulla sua. “Hans Van Assen è un uomo buono, semplice e anche un tantino sciocco. Potrai condurre la vita che vorrai: occuparti del giardino, della fioritura dei tulipani...”
“Credete che mi interessi diventare marchesa o duchessa o baronessa? Io ho già trovato l'uomo della mia vita! È Osman Demir!”
A quelle parole l'ira di Bertus tornò prepotente nel suo petto e non fu più in grado di tenerla a bada. Si alzò con uno scatto e la schiaffeggiò per la prima volta nella sua vita.
“Lo sapevo che non avrei mai dovuto accettare che andassi all'ambasciata turca! Schifoso! Che ti ha fatto? Ti ha drogata con tutte quelle spezie che usano solo loro!” L'afferrò per un braccio e la scosse, ma Evie non tornò a guardarlo in viso, ostinandosi a tenere il capo chinato di lato – la guancia colpita le pulsava – e i capelli a nasconderle il volto.
Adeline se ne stava nel corridoio con le mani congiunte sotto al mento a recitare le sue preghiere, affinché tutto finisse presto. Si sentiva in colpa, perché sapeva cosa stesse succedendo in quella casa, aveva capito che i tulipani bianchi erano un segnale, un invito rivolto alla padrona di recarsi al palazzo dell'Agha, e non aveva fatto nulla per evitarlo. Sarebbe bastato gettare via il fiore strada facendo, invece le era mancato il coraggio...
“E tu ti sei lasciata abbindolare da un uomo come quello lì? Sei più stupida di quanto credessi, Evelien Van Der Zee. Sei proprio figlia di tua madre!”
A quelle parole gli occhi di Evie si spalancarono, fu come ricevere un secondo schiaffo, al quale però questa volta reagì. Si alzò, spingendo suo padre all'indietro:
“Evidentemente ci innamoriamo degli uomini sbagliati!” Sbottò.
Bertus incassò il colpo, eppure rimase in piedi e continuò:
“Lo sai che è sposato? Lo sai che non potrete mai avere una famiglia vostra? Tra poco dovrà anche lasciare l'Olanda poiché la sua terza moglie sta per mettere al mondo il suo sesto figlio!”
Per Evie fu il colpo di grazia, quello definitivo. Tornò ad accasciarsi sul letto, trafitta da quelle parole come avrebbe fatto la lama di una spada che le fosse passata da parte a parte, al centro del petto.
“Tu sei disposta a diventare la sua quarta moglie ed entrare così a far parte del suo harem privato?”
“No-non è vero, non è possibile...” la voce di Evie era appena percettibile, continuava a guardare un punto indefinito davanti a sé mentre scuoteva il capo. Era un incubo, non c'era altra spiegazione.
“Sposerai il marchese Hans Van Assen la settimana prossima. La decisione è presa!” Concluse Bernhard, uscendo dalla stanza e lasciando sua figlia da sola, le cui grida di dolore e rabbia echeggiarono per la casa. Solo Adeline cercò di rincuorarla, facendosi un po' carico di quella sofferenza indicibile, abbracciandola e cullandola, sussurrandole parole di quiete, senza ottenere risultato alcuno.
Erano passate da poco le ventidue quando Evelien indossò il mantello, calandosi il cappuccio sul capo. Corse nella stalla imbragando il cavallo per legarlo al calesse e montarvi sopra, afferrando le redini per spronare l'animale a muoversi. Suo padre Bertus la rincorse e si affacciò nella scuderia un attimo prima che la carrozza vi uscisse con una certa fretta. La chiamò, la seguì per un breve tratto di strada, inzuppandosi i pantaloni di acqua piovana e fango, inutilmente: il crocchio scomparve all'orizzonnte, inghiottito dal buio della sera e dalle nubi bluastre, minacciose di tempesta.
Evie guidò spedita fino alla residenza dell'ambasciata ottomana. Non avrebbe vissuto un minuto di più senza conoscere la verità riguardo alle confessioni che le aveva rivelato suo padre poche ore addietro.
Osman,
Shirin
sposato con tre mogli e circa sei figli?
No, era una bugia – doveva essere una bugia – che Bertus le aveva proferito solo per convincerla a sposare quel vecchiardo del marchese Van Hassen.
Lasciò la carrozza proprio davanti la rampa di scale, così in pendenza che ottenebrava la visuale dell'ingresso del palazzo. Le luci erano accese e per la prima volta, osservando la costruzione con il riverbero soffuso delle lampade, Evie fu percorsa da un brivido di terrore. Improvvisamente, quella casa che per giorni l'aveva accolta con amore, donandole un senso di protezione quasi materno, adesso sembrava volerla cacciare via, allontanarla, quasi che non fosse più la benvenuta.
Si fece coraggio e salì un gradino alla volta, teneno i lembi dell'abito lungo sollevati. Giunta in cima, non trovò il suo bel Osman a tenderle una mano, ma un paio di guardie che le ordinarono di fermarsi.
“Sono Evelien Van Der Zee e ho urgente bisogno di parlare con Vostra Grazia Efendi.”
“Mademoiselle, temo dovrete fare richiesta per poter incontrare Sua Grazia.” Rispose una delle due sentinelle, quando il portone d'ingresso si aprì e il maggiordomo li raggiunse con un ombrello aperto, sotto al quale riparò se stesso e la giovane ospite dalla pioggia che aveva ripreso a cadere.
“Mademoiselle!” Era meravigliato. “Sua Signoria l'aspettava questo pomeriggio.” Disse, facendo cenno alle guardie di potersi allontanare, quindi la guidò verso l'interno del palazzo.
“Ho avuto un contrattempo, messere. Posso vedere Vostra Grazia? Avrei urgente bisogno di parlargli.”
“Lo trovate nella serra, mademoiselle.”
Evie percorse il corridoio che portava alla sera e di nuovo quella sensazione di essere nel posto sbagliato le contorse le viscere in una morsa. Non vi badò e proseguì il suo cammino. Quando giunse nel giardino, rischiarato dalla luce artificiale e con i bellissimi tulipani colorati e vispi, di Osman non c'era traccia. Ma non si lasciò scoraggiare, poiché sapeva perfettamente dove si trovasse l'uomo che stava cercando: nel bugigattolo, a compiacersi del suo esperimento riuscito.
La porticciola era socchiusa, ma la luce giallognola della lampada a olio vibrava contro le pareti a ridosso delle teche. Evie la sospinse e quella cigolò sui cardini. Per un attimo il cuore le fece un balzo in gola: eccolo lì, l'amore della sua vita.
Come avrebbe potuto amare un altro alla stessa maniera?
Desiderarlo con la stessa passione travolgente e sempre inappagata?
Permettere che qualcun altro all'infuori di lui sfiorasse le sue membra nude e ardenti di bramosia?
Osman Demir si voltò indietro e non parve meravigliato di trovarsela di fronte, a quell'ora tarda, quando le signorine per bene non dovrebbero andare in giro da sole. Era troppo preso dal suo fiore.
“Non lo trovate bellissimo?” Le chiese, facendosi di lato per mostrarle la campana di vetro che proteggeva un esemplare più unico che raro di Semper Augustus.
Ma Evie non lo guardò neppure, il fiore, tenendo gli occhi grigi fissi sulla figura curva del diplomatico turco. Il bastone era adagiato al muro, perciò lui si puntellava con entrambi i palmi sulla superficie piana del tavolo di legno.
“È vero che siete sposato, Osman?”
A quella domanda schietta, diretta, l'uomo distolse l'attenzione dal tulipano e si girò a guardarla. L'espressione imperscrutabile alla quale seguì un sospiro. Sapeva che prima o poi sarebbe accaduto, era solo questione di tempo. Anzi, si era già stupito che quella conversazione non avesse avuto luogo prima.
“Sì”, ammise, senza neanche tentare di accampare scuse. “È così, mia dolce Evie.”
“Non chiamatemi mia dolce Evie!” Sbraitò lei, sull'orlo di una crisi isterica, le lacrime ripresero a scendere copiosa agli angoli degli occhi. Credeva di averle esaurite, invece erano di nuovo lì, a solcarle il volto. “Vi siete preso gioco di me!”
“No! Questo mai!” Lui si mosse zoppicando per afferrarle il viso con tutte e due le mani. “Questo mai!” ripeté.
“Io mi fidavo di voi. Mi sono innamorata di voi. Vi avrei donato la mia verginità, pur non essendo marito e moglie. Mentre voi... voi non avete fatto altro che mentirmi, usarmi. Violarmi.”
“No, mia dolce, piccola, Evie” l'abbracciò d'impeto. Com
e avrebbe potuto farle capire quanto lei contasse per lui?
Cosa avrebbe potuto fare o dire per dimostrarglielo?
“Io vi ho amato dal primo momento che vi ho conosciuta alla residenza del duca De Wit.”
Lei non rispose, perciò lui proseguì.
“I vostri occhi argentati, i vostri capelli dello stesso colore del sole al tramonto, la vostra voce gorgogliante, fresca come l'acqua dello Janna.” Sciolse l'abbraccio per poterla guardare in volto. Con i polpastrelli le asciugò le lacrime e tentò di sorriderle. “Se avessi amato anche solo la metà di quanto vi ami una delle mie mogli, non avrei avuto bisogno di sposarne altre due”.
Erano parole importanti quelle che le stava dedicando, eppure lei non riusciva a percepirle. Si sentiva svuotata di ogni emozione, buona o negativa che fosse. Non provava più niente, né per lui, né per il Semper Augustus che era sbocciato in una delle tre teche (con le altre due l'esperimento era fallito).
“Tra una settimana mi sposo” disse Evie, il tono piatto.
Osman sbatté le palpebre un paio di volte, quasi avesse ricevuto uno schiaffo.
“Come dite?”
“Tra una settimana mi sposo. Diverrò la marchesa Van Hassen.”
“State mentendo, Evie?!”
“No”, concluse lei, facendo qualche passo verso la soglia d'ingresso. Rimase così, di spalle, senza il coraggio di voltarsi indietro e perdersi un'ultima volta nell'oscuro labirinto che gli occhi di lui rappresentavano per la propria anima.
“In un'altra vita saremmo potuti stare insieme e amarci come meritavamo. In questa non è stata possibile.” Le disse, rassegnato.
“Peccato che ne abbiamo una sola a disposizione, Vostra Grazia”.
Osman strinse i pugni, incassando il colpo.
“Che Allah vi protegga, mia dolce Evie”.
Evelien ridiscese le scale della rampa d'ingresso a due a due, calandosi il cappuccio del mantello sul capo e balzando alla guida del calesse, pronta a tornare a casa.
Pioveva a dirotto adesso, della pioggerellina lieve e leggera di poco prima neanche l'ombra. In lontananza si udì il rombo di un tuono, seguito dalla luce fulminea di un lampo.
La carrozza di Evie era l'unica per strada, una strada fangosa e piena di buche colme di acqua sporca. Le ruote ogni tanto sbandavano e il crocchio sobbalzava, ma lei neanche ci faceva caso: teneva le redini del cavallo con una sola mano, poiché quell'altra le serviva per togliersi le lacrime e la pioggia dal viso. Tuttavia, rendendosi conto di quanto fosse inutile sforzarsi di tenere il volto asciutto, smise dopo un po'.
Giunta a casa, entrò direttamente nella stalla, dove ad attenderla c'era suo padre Bertus, seduto sopra una botte carica di bulbi di tulipano, con la testa fra le mani. Aveva l'aria disperata, ma quando alzò lo sguardo e vide la figura di sua figlia scendere dalla carrozza corse nella sua direzione, afferrandola al volo prima un attimo prima che svenisse. L'aiutò a distendersi sulla paglia, sorreggendola con le braccia e ripulendole il viso sporco e bagnato con le maniche della sua camicia.
“Va tutto bene, bimba, sei a casa, con il tuo papà.”
“Padre”, lo richiamò Evie, le parole che stava per pronunciare bruciavano la gola simile a veleno. “Dite al marchese Van Hassen che accetto di sposarlo”.
Epilogo
La cerimonia non era stata particolarmente elaborata. In fondo, per Sua Grazia il marchese Hans Van Hassen erano seconde nozze quelle e, inoltre, Evelien Van Der Zee non si era rivelata una sposa troppo esigente.
Aveva indossato l'abito nuziale che era appartenuto a sua madre Mariella e aveva racconlto i capelli in un'acconciatura molto semplice, aiutata dall'inseparabile Adeline.
Da quella notte funesta, non aveva più versato una lacrima. Aveva calzato una rigida maschera di indifferenza ed era andata avanti nella quotidianità, quasi che Osman Demir non fosse mai esistito.
Aveva anche smesso di piovere, finalmente gli ultimi strascichi invernali sembravano aver compreso che il loro tempo fosse giunto al termine e fosse arrivato il momento di lasciare spazio alla stagione della rinascita: la primavera.
Quella sera, infatti, il cielo era sgombro da ogni nube minacciosa che potesse minare la serenità. Le stelle brillavano in cielo, simili a centinaia e centinaia di puntini luminosi. Evie amava contarle, la rilassava, ed era ciò che stava facendo in quel momento, ma arrivata a un certo punto aveva perso il segno e ricominciare d'accapo sarebbe stata una perdita di tempo. Aveva un'ultima cosa da fare, prima di potersi rilassare, meglio non rimandare troppo o rischiava di perdere l'attimo.
Qualcuno bussò alla porta un paio di volte:
“Vostra Grazia, suo marito il marchese e i suoi ospiti l'attendono per il brindisi finale” urlò dall'altra parte dell'uscio una cameriera che era già passata a sollecitarla qualche minuto prima.
“Dite alle Vostre Signorie che li raggiungerò presto”.
Evie attese la risposta, ma questa non giunse, quindi poté respirare. Si allontanò dalla finestra spalacata per accomodarsi allo scrittoio, sulla cui superficie giaceva un foglio da lettera immacolato e un calamaio corredato di penna. Tuttavia, i suoi occhi rischiarati dal bel tempo si posarono sul portafiore che teneva di fronte, dentro il quale lei stessa aveva sistemato un Semper Augustus. Era stata Adeline a farglielo recapitare la sera precedente alle nozze, trovandolo nel cesto della spesa. Non c'era alcun biglietto ad accompagnarlo, né colui che l'aveva lasciato lì dentro si era palesato. Ma a Evelien non serviva alcuna spiegazione di chi e come quell'esemplare rarissimo di tulipano fosse finito tra le sue mani.
Lo osservò, sfiorando le corolle con le dita, delicatamente.
Era splendido!
Il bianco candido a un certo punto si tingeva di rosso, striature che ricordavano vagamente le vene nelle quali scorre il sangue.
“Marchesa” di nuovo quella voce a distoglierla dai pensieri. “State bene? Avete bisogno di una mano?”
“No, no. Scendo immediatamente!”
Doveva sbrigarsi, prima che fossero arrivati suo marito o suo padre a bussare alla porta per reclamare la sua presenza. La maggior parte degli invitati erano andati via, restavano gli amici più stretti, tra cui il duca Luke De Wit e sua moglie Anna, i parenti e suo padre Bertus.
Fece un respiro profondo, chiuse gli occhi per un attimo e poi li riaprì, intingendo la punta della penna nel calamaio, quindi cominciò a scrivere:
Quando ero bambina, mia madre soleva narrarmi la Leggenda dei Tulipani. Per me era un momento magico, intimo, solo nostro. La più efficace delle medicine.
Si sedeva sul mio letto, con indosso una camicia da notte di cotone bianco, lunga fino alle caviglie, e prendeva a spazzolarmi i capelli. Potevo osservare la sua faccia attraverso lo specchio che tenevo in mano e, nonostante un occhio fosse difettoso, io la trovavo bellissima.
Mi chiedeva sempre quale storia volessi ascoltare, nonostante sapesse che la mia preferita riguardava la nascita del fiore più bello del mondo: il Tulipano, il fiore sacro della religione musulmana poiché rappresenta il dio stesso.
La leggenda si apriva con la consueta formula delle fiabe:
“C'era una volta, in un Paese lontano lontano, fatto di fiori e d'incanti, un uomo e una donna che si amavano tanto.”
E io, nella mia testa di bambina, ripetevo i loro nomi prima ancora che li pronunciasse mia madre: il bellissimo Shirin e la giovane Fahrad.
Un giorno, Shirin si allontanò dal villaggio in cui vivevano e non fece più ritorno. Fahrad lo attese affacciata alla finestra della sua stanza, ma i giorni passavano e di lui neppure un segno. Così, una sera, decise di avventurarsi nel deserto, sperando di ritrovarlo. Ciò che invece trovò fu la morte. Vinta dalla stanchezza e dalla fatica, sopraffatta dal dolore per la perdita del suo amato Shirin, la giovane Fahrad si accasciò al suolo, iniziando a piangere. Le lacrime, mischiandosi con il sangue delle ferite, bagnarono il terreno sabbioso e, proprio in quel punto, fiorì un bellissimo Tulipano.
Sebbene conoscessi alla perfezione la fine della vicenda, ogni volta speravo che mutasse e la tragedia si trasformasse in un lieto fine.
Per anni ho fantasticato sui volti dei due giovani amanti, identificandomi in Fahrad e innamorandomi perdutamente di Shirin.
Mi sono illusa che le leggende potessero cambiare, invece ho imparato che le storie, per quanto tristi, non cambiano mai.
Restano fedeli a se stesse...
Evelien si alzò in piedi, la poltrona scivolò con uno stridio sulle mattonelle. Non rilesse ciò che aveva scritto, né vi appose una firma o il destinatario: quelle parole, messe nero su bianco, erano rivolte a tutti coloro che l'avevano conosciuta. Non voleva essere un rimprovero per suo padre, il quale aveva forse avuto le sue responsabilità in quella vicenda, ma la fanciulla comprendeva il suo punto di vista. In fondo, restava pur sempre il suo genitore e la terra non può volere male all'albero.
Lasciò scivolare il Semper Augustus dal portafiore e lo annusò, quindi si issò sul davanzale della finestra facendo leva con un braccio solo. Addosso aveva ancora l'abito nuziale.
Rimase lì sopra per una manciata di minuti, socchiudendo gli occhi e inspirando a fondo l'odore dolciastro che si alzava dai campi nelle serate terse come quella lì. Tenendo il Semper Augustus stretto al centro del petto, si sospinse in avanti, lasciandosi cadere nel vuoto.
Il salto durò appena qualche secondo, il tempo di ripensare agli occhi nerissimi di Osman Demir che la scrutavano dal fondo del labirinto.
Il tonfo non fu particolarmente rumoroso, ma abbastanza violento da richiamare l'attenzione delle persone nella sala ricevimenti al primo piano. Qualcuno si affacciò alla balaustra del terrazzo, attirato da quel colpo basso echeggiato nella notte placida. Urlò, e in men che non si dica anche tutti gli altri accorsero fuori per vedere cosa stesse succedendo.
I primi ad avvicinarsi al corpo inerme di Evelien furono suo marito il marchese Van Hassen e il duca De Wit. Entrambi rimasero a fissare l'orrendo spettacolo che si dipanava ai loro piedi senza la forza d'animo di reagire, di fare qualcosa, qualsiasi cosa, anche solo togliersi il giustacuore per coprire il cadavere.
Ben presto, alle loro spalle, giunse Bernhard. Luke De Wit ebbe almeno la prontezza di fermarlo per le spalle, ma quello quasi lo scaraventò via, inginocchiandosi al fianco della figlia, sollevandole il torso per tenerla stretta a sé. Una pozza di sangue rosso vivo andava espandendosi sotto di lei, risaltando contro il candore dell'abito da sposa e la sua pelle bianca. Tra le dita stringeva ancora il Semper Augustus.
Bertus la cullò avanti e indietro, chiamandola e baciandola sulla testa.
“Evie, bimba mia. Evie...” andò avanti così per diversi minuti, il suo canto funebre, simile a una litania, si diffuse tutto intorno, dove regnava un silenzio innaturale.
“È colpa mia, Evie. Evie, bimba mia...”
Luke De Wit cercò tirarlo via, dicendogli che non c'era più nulla che potesse fare per lei.
“Bimba mia, è colpa mia... Evie.”
“Bertus, venite, lasciate che spostino il corpo.” Continuò il duca, mentre il marchese era ancora sotto shock, incapace anche solo di pensare.
D'un tratto Bernhard Van Der Zee adocchiò la pistola che il duca De Wit teneva rinfoderata nella fondina allacciata intorno alla vita. Fu un attimo, l'afferrò e se la portò alla tempia. Quello era il suo contrappasso, la giusta punizione per tutto il male che aveva causato a chi invece gli aveva voluto bene. Il biglietto di sola andata che gli avrebbe spalancato le porte dell'Averno.
Il rimbombo dello sparo echeggiò nell'aria immobile, ponendo fine al canto lugubre di un padre afflitto dal dolore.
Così moriva anche l'ultimo discendente dei Van Der Zee, coloro che erano venuti dal mare.
Diversi chilometri a ovest, un galeone salpava dalla banchina numero due, diretto a Istanbul: capitale dell'Impero Ottomano. Laggiù, una nuova vita stava venendo al Mondo proprio in quegli istanti e suo padre, sorreggendosi al bastone d'avorio sul ponte del veliero, teneva lo sguardo fisso oltre l'orizzonte, il volto austero e il cuore infranto.
Fine