Incapace di aspettare l'ora che avrebbe preceduto l'alba, Antonio Maria Ordelaffi aveva fatto sistemare l'artiglieria già in piena notte. Anche se aveva smesso di nevicare, e l'aria era talmente gelida che bastava solo respirare per sollevare nuvole di vapore anche troppo visibili, perfino col buio, perciò aveva dato ordine che i suoi tenessero degli stracci o dei baveri davanti al naso e alla bocca, in modo da ridurre quello spiacevole fenomeno.
Tutta quell'attenzione, però, non era stata sufficiente per evitare due cose: la prima, più ovvia, essere infine notati da chi ancora teneva il potere alla rocca e, la seconda, un improvviso peggioramento della salute di Antonio Maria stesso.
L'uomo, forse per la tensione, forse per le ore passate al freddo, in piedi e senza sonno, aveva cominciato ad avvertire dapprima un peso al petto, poi le gambe cedere, e infine un violentissimo mal di testa lo aveva piegato sulle ginocchia e, quando era tornato padrone di sé, non solo si era trovato disteso su una branda, ma aveva davanti a sé due uomini i cui volti ben riconosceva, ma che mai e poi mai avrebbero dovuto essere al suo campo: Bartolomeo Pansecchi e Luffo Numai.
“Che volete? Che ci fate qui? Non mi avete già detto tutto a inizio mese, quando v'ho chiesto se eravate pronti ad appoggiarmi?” chiese l'Ordelaffi, cercando di mettersi seduto, ma non riuscendo a far altro se non alzarsi appena sui gomiti.
“State tranquillo, non siamo qui per far del male, anzi.” lo calmò Pansecchi, che appariva molto preoccupato e concitato: “In questi giorni, vedendovi sul confine cittadino, abbiamo parlato molto con gli anziani e con la popolazione e siamo pronti ad appoggiarvi. Meglio voi che Roma o Firenze, o, peggio ancora, Venezia.”
Antonio Maria, perplesso, passò a guardare Luffo che, anziano e curvo, gli dava più fiducia rispetto a Bartolomeo.
“Siamo dell'idea che sia fondamentale appoggiarvi, ormai – disse Numai, con serietà – per scongiurare il rientro della Tigre voluto dal papa. Solo voi, in memoria di vostro padre Cecco, potrete riportare l'ordine e la prosperità a Forlì. Io ho servito per molti anni la vostra famiglia e so più di chiunque altro quanto gli Ordelaffi siano linfa vitale, per Forlì.”
“Badate che se mi state buggerando, io..!” provò a minacciare Antonio Maria, ma si trovò a tossire con tanta forza da farsi lacrimare perfino gli occhi.
“Venite al mio palazzo. Messer Pansecchi pagherà per voi ogni cura, e io, tenendovi sotto al mio tetto, vi fornirò non solo una protezione fisica, ma anche un modo per tornare a essere amato dalla popolazione tutta.” spiegò Luffo, accigliandosi: “Accettate. Non c'è motivo per non farlo.”
L'Ordelaffi avrebbe voluto rifiutare subito, ma la voce non usciva dalla sua gola. La voglia di trovarsi in un letto comodo, servito e riverito, sfamato e dissetato, con dei dottori che si prendessero cura di lui lo attirava come non mai. Tuttavia non poteva dimenticare che l'uomo che aveva davanti, per quanto potesse sembrare pacato e affidabile, era stato per anni un servo fedelissimo di Caterina Sforza, seppur all'ultimo le aveva voltato le spalle, permettendo perfino che Cesare Borja la tenesse prigioniera in casa sua.
Risoluto a rifiutare e a dire che avrebbe preso Forlì con le armi, ossia nell'unico modo in cui sarebbe stato davvero legittimato a comandare, Antonio Maria si schiarì la voce, ma, quando parlò, ciò che gli scivolò dalle labbra fu: “Va bene, accetto.”
Come se si fosse trattato di una coreografia già ben decisa, alle parole dell'Ordelaffi subito arrivarono accanto alla branda quattro uomini molto robusti e lo sistemarono su una lettiga.
“Portatelo a casa mia, come detto.” fece Numai, ai suoi manovali: “E non perdete mai la scorta armata. Mi raccomando.”
Mentre Antonio Maria veniva portato via, Luffo e Bartolomeo si incamminarono a loro volta, ma più lentamente, per scambiare due parole in santa pace. Al campo restava a comandare un uomo di fiducia dell'Ordelaffi, che si era accordato privatamente anche con Numai e Pansecchi per avere una paga aggiuntiva, se fosse riuscito a tenere tranquilli i soldati. L'operazione sembrava essere andata come i due forlivesi avevano sperato.
“Faremo capire al papa che Forlì non si vende e non si compra.” disse Bartolomeo, una volta terminati i discorsi di prammatica.
Stava attraversando la città, che in quei giorni sembrava immersa in una palude di inerzia e attesa, e Numai, anche durante quel breve tragitto, continuava a farsi distrarre da piccole scene, ormai quotidiane, che vedeva: un bambino che veniva rincorso per aver rubato qualcosa, due uomini che cercavano di sistemare una parete che ancora era pericolante per i danni subiti quattro anni prima durante l'assedio, una donna che chiedeva l'elemosina e si offriva per due soldi a chiunque le passasse davanti... Cos'era diventata, Forlì, una volta sconfitta la Tigre?
Andrea Bernardi, che ormai si faceva chiamare solo col suo soprannome, Novacula, magnificava sempre i grandi traguardi del governo borgiano, e fingeva di non vedere la povertà e la deriva sociale che li aveva travolti. Addirittura sembrava non voler vedere nemmeno il declino del potere di Cesare Borja, colui al quale si era svenduto in cambio di un po' di denaro, di una moglie e di un po' di attenzioni, in cambio, in fondo, di quelle cose che la Leonessa di Romagna non era mai stata abbastanza lungimirante da dargli...
“Sei proprio sicuro che morirà presto?” chiese Pansecchi, che, nel frattempo, aveva continuato a parlare, benché Numai non lo stesse più ascoltando.
Capendo in fretta il soggetto della domanda, comunque, l'uomo si accigliò e ribatté: “L'hai visto anche tu, e dicono che a tratti non fosse lucido nemmeno prima... Dubito che arriverà alla primavera...”
“E sei sempre dell'idea di fare in modo che la popolazione accetti Galeazzo Riario come nuovo signore? Potrebbe non essere facile... Fosse la Tigre, forse, ma il figlio...” valutò Bartolomeo, girando l'angolo per indirizzare i loro passi verso palazzo Numai.
“Se non riusciremo a far accettare il ragazzo – sospirò Luffo – faremo in modo che, almeno, Forlì sia indipendente e che resti amica di Madonna.”
Pansecchi annuì e schiuse le labbra per aggiungere qualcosa, ma il suo sguardo venne attratto dalla lettiga dell'Ordelaffi, che li precedeva, ma che ormai era in vista: “Intanto direi che a far accettare lui non avremo grossi problemi – disse, indicando le persone che si stavano avvicinando curiose al malato e, nel riconoscerlo, intonavano motti in suo favore – il leone verde non ruggisce più, ma a quanto pare piace ancora...”
Quell'accenno all'araldica degli Ordelaffi mise una certa tristezza a Numai che, non solo fece un parallelismo poco edificante tra l'immagine del leone rampante e il morente Antonio Maria, ma, soprattutto, si trovò a dirsi una volta di più che avrebbe preferito una vera Leonessa, a un misero e inutile leoncino sdentato.
Alla fine, come un tuono annunciato dal fulmine, la proposta ufficiale da parte del papa per far sposare Galeazzo Riario e Maria Giovanna Della Rovere era arrivata alla villa di Castello.
Caterina, messa alle strette dalle velate minacce del pontefice e dalla fretta perentoria della richiesta pontificia, sapeva di dover accettare e di doverlo fare presto, tuttavia aveva deciso di attendere almeno un paio di giorni, tanto per far passare Natale, prima di far partire una lettera ufficiale di accettazione.
Galeazzo, nel momento esatto in cui era stato informato del tutto, era rimasto in silenzio e aveva chiesto solo se il papa avesse indicato un tempo massimo, prima della celebrazione delle nozze, e la madre, a malincuore, aveva dovuto confermare che c'era, e che si trattava dell'inizio dell'anno.
“I Salviati sono stati comprensivi – disse Fortunati, a tavola, quella sera – hanno detto che per loro non è un problema venire qui la settimana prossima. Capiscono che il momento è delicato.”
“Anche settimana prossima potrebbe non andare bene... Con tutto quello che dobbiamo preparare...” soppesò la Tigre, deglutendo un pezzo di carne che, quel giorno, le pareva stopposa e indigesta.
In realtà, sapendo che Galeazzo sarebbe partito nel giro di pochi giorni, la disturbava pensare di sprecarne uno correndo dietro ai Salviati e ai loro figli. Non capiva che fretta ci fosse di organizzare quell'incontro, anche se era stata lei per prima a volerlo. Le cose le sfuggivano di mano come acqua piovana e nessuno sembrava in grado di capire quanto bisogno avesse di ridurre i motivi esterni di nervosismo.
“Posso provare a dirglielo, ma...” fece il piovano, guardando la Tigre con la coda dell'occhio: “Non mi sembrerebbe corretto.”
“Devo concentrarmi su di lui – disse quindi Caterina, indicando il figlio quintogenito, che sedeva alla sua destra – non ho tempo per gli ospiti.”
“Ma al matrimonio manca ancora un po' di tempo...” obiettò Francesco.
La tavolata restò per qualche istante in perfetto silenzio. Baccino, i figli della Sforza, frate Lauro e lo stesso Fortunati si resero conto che la Leonessa stava per ruggire con una forza che non le era propria da tempo, ormai.
“Ma che accidenti dici? Quale tempo?!” sbottò la donna, guardando l'amante in cagnesco: “Una manciata di giorni, una settimana o poco più, prima di lasciarlo partire, ti sembra tanto tempo?!”
“Il papa ha scritto che lo vuole a Roma per l'inizio dell'anno...” si difese il piovano, pallido: “E da qui a marzo passano tre mesi...”
In quel momento la milanese capì e, perdendo ogni aggressività, si fece stanca, tanto da abbandonare il mento sulla mano, come se avesse bisogno di essere sorretta per poter andare avanti nel discorso: “Quando ti renderai conto che non sono tutti fiorentini? Solo per voi l'anno inizia a marzo. Nel resto del mondo, le persone normali, festeggiano il primo gennaio l'arrivo dell'anno nuovo. E il primo gennaio è tra dieci giorni mal contati.”
Mentre la Tigre e Fortunati continuavano ad accapigliarsi sulla questione del Capodanno, Galeazzo sentiva un groviglio nel petto che gli impediva di mangiare e perfino di bere. Già il fatto che parlassero di lui come se non fosse presente lo faceva sentire estraniato dalla realtà, ma il ragionare sul fatto che davvero nel giro di un paio di settimane avrebbe dovuto lasciare la sua quotidianità, così faticosamente ricostruita dopo anni, per immergersi in un mondo che praticamente non conosceva, lo faceva sentire come racchiuso in una bolla di irrealtà.
“Stai bene?” la voce di Bernardino, che lui ormai, come tutti eccetto la madre, chiamava Carlo, riscosse Galeazzo dal suo isolamento.
“Sì.” mentì.
“Sei bianco come un lenzuolo.” ribatté il Feo, sussurrando abbastanza da non essere sentito da nessun altro, anche grazie ai toni della madre e del piovano, che si erano alzati ancora.
“Solo... Non ho fame.” concluse il Riario, accigliandosi.
Il fratello minore lo fissò a lungo. Sapeva bene quale fosse il motivo di quel viso scavato e dei silenzi protratti di quei giorni, ma siccome l'altro era molto restio a parlargliene, Bernardino aveva deciso di non affrontare più l'argomento. Quando gli era sembrato innocuo, lo aveva preso un po' in giro, vantandosi della sua maggior esperienza in fatto di donne, malgrado la sua giovane età, ma poi aveva avuto la maturità necessaria per capire quando fermarsi.
“Anzi, se vuoi, finiscila pure tu.” fece il Riario, indicandogli la carne ancora intonsa nel piatto.
Il Feo non se lo fece ripetere e, osservato solo da frate Lauro che gli scoccò la solita occhiata di biasimo condita dal suo proverbiale sorrisetto serafico, si servì in abbondanza.
“Andrà tutto bene, vedrai.” disse, comunque, rivolgendosi a Galeazzo, non riuscendo a trattenersi, desideroso di risollevargli il morale: “Brutta non deve essere, e vedrai che ti piacerà. E comunque, se sei così nervoso, se vuoi, prima puoi farti portare da Scipione a Firenze... Conosce tutti i bordelli migliori, ormai... Mi ha detto che c'è una che...”
“Basta.” soffiò il Riario, deglutendo un paio di volte: “Basta.”
Bernardino si risolse a tacere davvero e si dedicò completamente alla carne che era arrivata inaspettatamente nel suo piatto, mentre Galeazzo, sudato come se fosse stato pieno luglio, provò a bere un po' di vino, ma dovette subito tossire per non farselo andare di traverso.
“E quindi smettila di pensare che tutto il mondo si regoli sulle folli usanze di Firenze!” concluse Caterina, con un tono talmente perentorio che, infine, la diatriba sul Capodanno venne chiusa.
Baccino, che era stato in silenzio per tutto il tempo, si schiarì la voce per dire qualcosa che andasse ad alleggerire il clima generale, specie in riguardo a Giovannino, che aveva seguito il mezzo litigio con il fiato sospeso, quasi fosse sconvolto nel sentire la madre parlare in qualche modo male di Firenze, che era stata la terra natia di suo padre. Appena provò a parlare, però, il cremonese dovette subito retrocedere, perché nella sala era entrata Creobola con passo svelto ed era andata, senza tante cerimonie, accanto alla Leonessa.
“Questo arriva da Forlì, il messaggero dice che dovete leggerlo subito, ma stare tranquilla, che seguiranno più avanti ulteriori spiegazioni.” disse la serva, porgendo alla Sforza un messaggio tutto stropicciato e inumidito dalla pioggia, o, meglio, dalla neve.
La donna l'aprì e lesse in fretta, per poi dire, con un filo di voce: “Antonio Maria Ordelaffi ha preso Forlì, la rocca gli si è arresa e presto sarà altrettanto con quella di Forlimpopoli.” si morse le labbra, e poi, con un'espressione che si sarebbe potuta definire di profondo disgusto e di rabbia, si alzò, grattando in terra con la sedia, lanciò il coltello sul tavolo, nel tentativo di incanalare da qualche parte la collera distruttiva che sentiva montare sempre di più, e poi disse, con la voce che iniziava a tremare: “Scusate.” e corse via.
L'improvviso congedo della Tigre lasciò tutti i presenti sorpresi, ma, soprattutto, preoccupati, e ognuno si trovò a reagire a modo suo. Giovannino si aggrappò a Bernardino, il volto corrucciato, sperando che il fratello maggiore potesse rassicurarlo, ma anche il Feo era teso, perché da tempo non vedeva la madre tanto turbata. Galeazzo, ancora preda della nausea per via della sua situazione personale, parve chiudersi ancor più in se stesso, mentre Sforzino restò immobile, intento a valutare cosa fosse meglio fare.
Frate Lauro, vedendo come né Baccino né Fortunati avessero mosso un muscolo, provò a dire: “E non credete che qualcuno dovrebbe andare a vedere come sta Madonna? Mi sembrava che stesse piangendo...”
Entrambi gli uomini, spronati da quelle parole, lasciarono la tavola nello stesso momento, a passo svelto, in direzione della stanza di Caterina, ma già quando furono a metà strada tutti e due rallentarono fino a fermarsi.
“Stava davvero piangendo?” chiese piano Francesco.
“Sì, o almeno... Anche a me è sembrato così.” confermò Baccino.
Il piovano deglutì un paio di volte, passandosi la mano sulla folta barba scura che stava lasciando crescere da qualche tempo. Sembrava combattuto, e alla fine, quando si arrese, i suoi occhi castani erano tristi, ma determinati.
“Vai tu da lei.” disse, senza guardare il cremonese: “La capisci meglio di me.”
Baccino da un lato si sentì orgoglioso di quella valutazione fatta dal fiorentino, ma dall'altro avrebbe preferito cedergli il posto, non sapendo cosa avrebbe trovato, una volta giunto dalla Sforza.
“Forse dovremmo lasciarla da sola...” provò a dire, vergognandosi appena della sua debolezza.
“Un tempo forse sì, ma adesso...” soppesò Fortunati e poi, con un sospiro, si offrì: “Se non te la senti, posso andare io... Ma credo che lei sarebbe più contenta di vedere te.”
Il cremonese non se lo fece ripetere, e, trovato il coraggio, riprese a camminare. Arrivato alla camera della Tigre, evitò di bussare e provò ad aprire la porta: se lei avesse voluto essere lasciata in pace, l'avrebbe di certo chiusa a chiave.
La trovò aperta. Con lentezza, entrò e si richiuse l'uscio alle spalle. La Leonessa era coricata prona sul letto, il volto nascosto nel cuscino, ma il sussultare delle sue spalle indicava che stava davvero piangendo.
L'uomo si avvicinò pian piano, si sedette accanto a lei e, sperando di non commettere un errore madornale, le posò una mano sulla schiena, con fare protettivo.
“Fortunati ha avuto paura di me?” chiese Caterina, riconoscendo il tocco deciso, per quanto delicato, del suo amante.
“Ha solo pensato che avresti preferito me.” spiegò lui, con sincerità.
Con un colpo di tosse, la donna si liberò del cuscino, e si voltò verso il cremonese, fissandolo con gli occhi arrossati e gonfi: “E perché mai?”
“Forse crede che io e te ci capiamo meglio... Perché abbiamo affrontato assieme tante cose.” provò a dire lui.
La Tigre non commentò, asciugandosi il naso con il dorso della mano e poi, cedendo a un nuovo accesso di pianto e rabbia, esclamò: “Perché deve andare sempre tutto storto?”
In quel momento, la bellissima quarantenne lasciava il posto a una ragazzina spaventata e delusa dalla vita, scatenando in Baccino una sensazione incoercibile di tenerezza e voglia di difenderla dal mondo. Non era più solo la donna fiera e quasi insolente che aveva spaventato l'Italia intera, ma una donna ferita e che infine mostrava le sue fragilità. L'abbracciò, stringendola con forza, e si sentì meglio quando avvertì la Leonessa rilassarsi, poco per volta, tra le sue braccia.
Restarono così per minuti infiniti e poi fu lei a divincolarsi, per chiedere: “Accompagnerai mio figlio a Roma, vero? Me lo hai promesso.”
Non avrebbe voluto suonare tanto ansiosa, ma l'ultima volta che aveva confidato in un uomo per cui provava dei sentimenti importanti, era stata delusa e venduta al nemico, e non voleva commettere lo stesso errore ancora una volta.
“Sì. L'ho promesso.” confermò lui: “Io ho una parola sola. Lo sai.”
In tutta risposta, confortata dalla sicurezza di Baccino, Caterina lo baciò e poi gli chiese: “Allora stanotte resterai con me? Ci sono tante cose di cui dobbiamo parlare.”
L'uomo annuì e le restituì il bacio: “Tutto quello che Madonna comanda.”
“Giustinian sostiene che Venezia non ha fatto assolutamente nulla, a Imola.” disse Raffaele, osservando il papa togliersi i calzari e infilare le babbucce da camera che amava quasi più dello stesso scranno pontificio.
Giuliano, dopo qualche passo che gli fece tornare il sorriso, per via del dolore ai piedi che si alleviava sempre di più, guardò di traverso il cugino e borbottò: “Secondo quel maledetto lagunare Venezia non ha mira alcuna su Imola, tanto meno su Forlì o qualsiasi altra città romagnola... E pensa che io ci creda!”
“Io ho fatto presente che i fatti sono ben noti e che la Sacra Chiesa è molto risentita con il Doge per questi attacchi a Imola, benché siano stati infruttuosi – spiegò il Sansoni Riario, mentre il cugino si sedeva comodo su un'ottomana e si stropicciava gli occhi, stremato dopo quella giornata infinta – e lui in tutta risposta ha ribadito che c'è stato un malinteso, anzi, mi ha anche detto che se proprio vogliamo arrabbiarci con qualcuno, dobbiamo farlo con Antonio Maria Ordelaffi, che dicono abbia preso Forlì...”
“E non si rende nemmeno conto che se ce la prendessimo con l'Ordelaffi, ce la prenderemmo ancora e comunque con Venezia, visto che è il Doge a pagare per l'impresa di quel maledetto arruffapopoli?” fece, esasperato, il Della Rovere: “Comunque, quando stamattina mi ha chiesto un incontro, prima del Concistoro, gliel'ho negato, così non c'è nemmeno stato modo di parlarne...”
Raffaele annuì. Non trovava il sottrarsi una strategia risolutiva, ma almeno faceva prendere loro tempo. Cercare uno scontro aperto con i veneziani non sarebbe stata una mossa furba, ma non potevano nemmeno far finta di nulla. La via di mezzo era forse la strada più percorribile.
“E poi quei maledettissimi Cardinali spagnoli... Tutto il tempo a darmi il tormento per liberare il Borja...” riprese il papa, massaggiandosi le tempie.
Avrebbe voluto parlare di quelle cose solo con il suo Francesco, ma quella sera Alidosi era impegnato, in veste di ciambellano, in una noiosissima cena di rito, e dunque restava solo il Cardinale Sansoni Riario su cui riversare ogni suo malumore.
“E come se non bastasse, mia nipote Maria Giovanna non fa che dare spettacolo!” riprese, con più vigore, lo stomaco che iniziava a bruciare, come ogni volta in cui si arrabbiava: “Questa mattina era nei giardini col suo amante e dicono che lei gli dava il braccio!”
“Non potete arginarla in qualche modo?” chiese allora il Sansoni Riario, che, tuttavia, per primo non avrebbe saputo come fronteggiare la situazione.
Gli era bastato avere a che fare, anni prima, con la cugina Caterina Sforza per sapere di non essere in grado di rimettere in riga una giovane donna dal carattere deciso e a tratti aggressivo. Maria Giovanna sembrava una ragazza innocua, all'inizio, ma bastava parlarle cinque minuti per capire che il suo aspetto dimesso e il suo sguardo perso nascondevano una lince selvatica e pronta a graffiare. Era probabile che lasciarla libera di sfoggiare il proprio bell'amante fosse più prudente che non provare a separarla da lui: chissà che mai avrebbe potuto fare in quel caso...
“Nostra cugina non ha ancora mandato una risposta, vero?” chiese il papa, ormai accasciato su se stesso: “Risponderà, vero? Non ignorerà la mia richiesta, vero? Non sarà così... Così... Sciocca.”
“Ho buoni motivi per dire che secondo me risponderà e positivamente, ma sappiamo com'è fatta Madonna.” sospirò Raffaele: “Credo che stia aspettando a darci una risposta solo per far capire che, in fondo, comanda ancora lei... E poi sembra che il figlio non sia poi del tutto contrario all'idea...”
Il papa sporse in fuori le labbra. Voleva farsi convincere dalle parole del cugino, ma più ci pensava, più temeva che quella pazza furiosa della Tigre di Forlì fosse davvero pronta a incorrere nelle sue ire, pur di non vendere uno dei suoi cuccioli.
“Vedremo...” soffiò alla fine Giulio II: “Ora è meglio se entrambi andiamo a riposare... Ma se ci fossero notizie, di qualsiasi tipo, voglio saperle subito, intesi?”
Il Cardinale Sansoni Riario annuì e si avviò alla porta, dopo un breve: “Santa notte.”
Nel rientrare al suo palazzo, il savonese non poté fare a meno di concedersi una piccola deviazione. Era sera, ma non era tardi, e voleva vedere con i propri occhi l'entità dello scandalo che Maria Giovanna stava dando. In pochi parlavano apertamente di lei, perché la paura che il pontefice prendesse dei provvedimenti era altissima, ma tutti facevano allusioni di ogni sorta e sembrava che proprio intorno a quell'ora i due giovani fossero soliti passare del tempo assieme in una delle sale più intime degli appartamenti pontifici.
Lungo il percorso incrociò un paio di guardie, ma nessun altro. Alla fine, in prossimità di uno degli studioli, Raffaele sentì una voce che ben conosceva canticchiare qualcosa. La Della Rovere era intonata, ma faticava a raggiungere le note più alte, forse per via della sua voce bassa. Dopo un po', rimasta in silenzio per qualche istante, riprese a cantare e ridere allo stesso tempo e, avvicinandosi alla fonte della melodia, il Cardinale si rese conto che la giovane era passata a una canzonetta licenziosa degna di un lupanare.
Le risate maschili che le facevano eco erano per certo di Giovanni Andrea Bravo, così come le brevi incitazioni a continuare.
Raffaele fu sul punto di giungere fino da loro e riprenderli per la loro sfacciataggine, per il modo in cui sbandieravano la loro lussuria e la loro amoralità, per di più sotto al tetto del papa stesso...
Proprio all'ultimo, però, si sentì in difficoltà. Le voci dei due giovani lo mettevano a disagio, la loro complicità gli dava uno strano senso di inadeguatezza. Così, con passo silenzioso, tornò indietro e lasciò gli appartamenti pontifici senza fare nulla.
Una volta fuori, nella gelida notte dicembrina di Roma, il Cardinale Sansoni Riario guardò il cielo grigio di nuvole cariche – forse – di neve, e sperò con tutto se stesso che la Leonessa di Romagna accettasse di inviare a Roma Galeazzo e che Galeazzo fosse in grado di gestire una situazione che uomini più grandi e maturi di lui avrebbero rifiutato a priori.