Via dei fiori 21
Il condominio è rimasto lo stesso, ritto contro il cielo e docile nell’abbraccio dell’edera e degli altri fiori che ne adornano i balconcini: soltanto le persiane di una finestra sono chiuse, e non tradiscono più alcuna luce. Non dovrei esserne sorpreso, eppure la vista è una morsa inesprimibile attorno al cuore.
Sulla nuca, sento che lo sguardo di Deola è fermo, ma non impaziente. Aspetta che io mi riprenda dall’improvviso tremore che mi ha assalito le gambe e che porti a termine il compito per cui siamo venutз fin qui. O meglio: per cui volevo venire fin qui, ma non ho avuto il coraggio di farlo da solo.
Nelle mani stringo un bouquet che lei stessa mi ha aiutato a comporre – rose gialle, crisantemi bianchi, gigli rosa che cominciavano poco a poco ad appassire –, avvolto in una bella carta chiara e in un nastro altrettanto delicato, e un biglietto tutto di mio pugno chiuso in una busta rossa come il sangue. Le lacrime mi hanno appannato gli occhiali ma non ne hanno scalfito il vivo colore, e spero che le parole che cela dentro di sé possano trasmettersi con la stessa veemenza con cui esso, sulle mie lenti, spicca su tutte le altre cose.
«Deò, – la chiamo a una certa, e non è diverso dal modo in cui, bambino, la pregavo di uscire dal suo nascondiglio, perché ormai era sera e il tempo dei giochi finito – io non ce la faccio».
Pochi, rapidi passi e mi è accanto come allora: riconosco l’ombra dei suoi anfibi infangati. La sua mano è gentile sulla mia spalla, scende lungo tutta la spina dorsale in carezze circolari, che mi distraggono abbastanza da riuscire a farmi prendere un nuovo ritmo di respiro.
«Non posso farlo io per te» mi dice, senza rimprovero, e lo so, lo so che ha ragione.
Deò ha sempre avuto ragione e occhi che sapevano vedere più in là, rapaci quasi, ma non maligni; occhi oscuri e notturni. O forse sono solo io che amo raccontarli ammantati di un’arte magica che non mi pertiene perché sono stato un uomo miope anche di fronte ai segnali che Santa, non riuscendo ad articolarli in parole, mi lanciava con le ciglia, le mani, il corpo intero.
Santa che non abitava più lì, dove prima era una giungla di verde e di fiori e ora resisteva soltanto la persiana che io e mio fratello le avevamo aggiustato, perché al tempo pericolante. Vorrei non averlo fatto allora per poter adesso spiare e capire.
Capire se almeno Cinto fosse rimasto in quell’appartamento o se, non resistendo al ricordo, avesse fatto le valigie e fosse tornato a casa, al Sud, o magari ancora fosse andato a vivere con lə suə ragazzə, nella comune di artistз squattrinatз e illusз di cui faceva parte. Capire se le cose che le appartenevano fossero rimaste al loro posto, intoccate e se ci fosse un mondo per andarle a recuperare e dividerle tra noi, come un’eredità; o se già nuovз inquilinз le avessero fatte proprie, o gettate al primo bidone buono senza curarsi della storia che raccontavano.
Al solo pensiero, l’ennesima lacrima mi segna il viso e la mano di Deò si infila nella tasca del mio cappotto per porgermi il fazzoletto. Le affido bouquet e biglietto e mi asciugo pianto e vergogna via dagli occhiali e da me.
«Non ha senso – sussurro – rimandare ancora, vero?»
Deola mi guarda e scuote il capo, con un sorriso che non riesco a decifrare.
«Non è una questione di senso, Corrado» risponde e di nuovo è sua la voce della ragione.
Avevo preparato i fiori e riassunto anni di sentimenti confusi in un foglietto per una persona che, probabilmente, non li avrebbe mai ricevuti: no, non era minimamente una questione di senso, ma di pace. Quella pace che ti fa molle il corpo e ovattati i sensi quando finalmente elabori il lutto e precede il tuo ritorno nel mondo di chi ancora vive. Forse da Santa non sarei mai stato in grado di separarmi, ma sentivo viscerale il bisogno di ricominciare a percorrere le strade, scaldarmi nel sole, decidere, anche, di me stesso e dei miei futuri giorni.
Mi faccio rendere i doni e abbozzo un primo, malcerto passo verso la soglia. Ne viene un altro, altrettanto malcerto, e un altro ancora che però non si arena e anzi quasi mi spinge a iniziare una corsa malsana che sarebbe certo finita con me nella polvere e con gli occhiali da rifare. Trattengo l’istinto, deglutendo a vuoto, e immagino sia poi così che si sentano lз equilibristз a misurare ogni respiro e millimetro per tutta la durata della loro passeggiata ad alta quota sulla corda.
«Vuoi che ti accompagni almeno fino alla porta?» mi chiede Deò, incrociando le braccia al seno e sporgendosi nella mia direzione.
Anche se odia ammetterlo, anche se io ho pochi anni in più di lei, ha un cuore di madre, con tutte le stesse meschinità e preoccupazioni.
Le faccio cenno di no e lo sfottò che io sono un bimbo grande ormai e so camminare da solo. La sento ridere, ma è così forzata e amara la sua risata che temo, sulla strada di casa, si trasformerà in rabbia e sarà bene per me non essere più la passiva cosa su cui tenterà di sfogarla. Soffre sempre in silenzio, Deò, e come Santa nega col riso l’evidenza. E tu non puoi fare altro che fingere di crederle, perché nel tempo che proverai a chiederle ancora cosa ci sia che non vada avrà già alzato un muro o cambiato discorso.
Ora che ho la porta a vetri davanti e i campanelli a fianco mi sovvengono altre similitudini tra loro, ancora più chiare mi diventano le differenze e nelle tempie mi rimbombano troppi, troppi episodi in cui non mi ero rivelato un buon osservatore ma soprattutto un buon amico. Maledicendomi a bassa voce cerco a lungo il bottone con scritto vicino «Giacinto Colonna – Santa Romano» ed esito soltanto un attimo prima di premerlo.
Come mi aspettavo, nessuna risposta. Mi piego per appoggiare sul tappeto all’ingresso il mazzo di fiori, ravvivarlo un po’ perché sembri il più bello e ordinato possibile, nasconderci il biglietto tra i petali in un gioco di vedo-non vedo, ma anche perché sono le mie gambe a chiedermi pietà per lo sforzo titanico che ho obbligato loro a fare.
E resto così, piegato per non so bene quanto tempo, tanto che non mi accorgo di Deò che inizia a urlare il mio nome e a corrermi incontro, rischiando di inciampare più volte negli anfibi slacciati, e dello sguardo di Cinto che, aperta la porta, si rivela pieno di lacrime fino a quando entrambз non mi sono addosso e il mio privato tentativo di rottura, di chiusura del lutto, si è trasformato in un abbraccio che quasi mi soffoca per il calore, e in un comune compianto.
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Santa, Amore:
rose gialle per chiunque, prima di me, ti abbia potuta abbracciare,
crisantemi bianchi e bifronti, per la morte di un amore e la purezza di un altro,
e gigli rosa per chiederti scusa, scusa per tutte le volte che non ti ho saputa capire.
Corrado.
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NDA: questa storia è una delle tre one-shot autoconclusive che avevo pensato per accompagnare un progetto più ambizioso. Purtroppo, anni fa è naufragato, ma ho deciso di riprenderlo tra le mani. I personaggi che qui compaiono e compariranno ancora potete per ora trovarli nella raccolta San Martino e altri frutti tardivi, aperta in occasione del Writober 2024.
Spero con tutto il cuore che vogliate bene a loro quanto io già faccio. Grazie di avere letto fino a qui!