EPILOGO
In vita mia non avevo mai contato niente.
Ero sempre stato
il sottoposto di qualcuno, l’ultima ruota del carro che doveva solo obbedire
senza mai dover dare gli ordini.
Prima avevo
obbedito ai miei genitori, poi a mio fratello, poi, una volta entrato
nell’esercito, ai miei ufficiali superiori.
Non era mai stato
un problema; anzi, alle volte mi faceva sentire bene il pensiero di non avere
sulle spalle il fardello di dover decidere per qualcun altro.
Un anno prima ero
solo una recluta dell’esercito imperiale senza alcun avvenire, che poteva
aspirare al massimo a raggiungere il congedo e ottenere un proprio pezzetto di
terra in cui costruirsi una casa e una parvenza di vita.
Ma poi, da un
momento all’altro, tutto era cambiato.
In un solo giorno,
in quel fatidico campo senza nome, avevo visto sgretolarsi tutto ciò che
credevo di sapere; lì avevo visto morire mio fratello, molti miei amici, ed ero
stato testimone di un evento che dentro di me sapevo essere destinato a
cambiare non solo la mia vita, ma quella di tutti noi.
Non avevo mai
voluto rotture di scatole nella mia vita, anche perché mi era stato detto fin
da piccolo che il destino di chi nasceva nelle mie condizioni era di avere
sempre qualcuno al di sopra; e devo ammetterlo, per molto tempo come ho già
detto la cosa mi era andata anche bene.
Eppure l’idea alla
base della Rivoluzione secondo cui chiunque di noi poteva aspirare a
raggiungere ogni traguardo che scegliesse di porsi, a prescindere da razza,
status o ricchezza, non mi era sembrata così malvagia.
Non ero forte, né
risoluto, e di certo non ero portato per il comando. Mi bastava il pensiero di
poter fare la differenza, e poter dare il mio contributo alla causa.
Ma fin dal giorno
successivo al mio ingresso nella Guardia Nazionale, ormai ribattezzata Grande
Armata Rivoluzionaria, mi ero reso conto di avere dentro di me un fuoco di cui
non sospettavo nemmeno l’esistenza.
Era il fuoco del
valore. Ora non combattevo più solo per salvarmi la vita, o perché un nobile
che solo per un qualche supposto diritto divino comandava su di me mi diceva
che dovevo farlo; ora combattevo per difendere e diffondere un ideale in cui
avevo scelto di credere, e in nome del quale sarei stato felice di dare la mia
vita.
Alle Bocche dei
Giganti avevo avuto solo un ruolo di supporto occupandomi di mettere al sicuro
i feriti, forse perché i nostri comandanti non a torto temevano che l’idea di
trovarmi subito faccia a faccia contro i miei vecchi compagni potesse farmi
esitare.
Durante il primo
attacco a Grote Muren avevo visto il Generale Natuli sfilarmi la faretra di
spalla e lanciarsi giù dalle mura trafiggendo un nemico dopo l’altro.
A Mistvale per la
prima volta avevo combattuto fianco a fianco con i miei compagni, e il Generale
Jack in persona mi aveva salvato la vita prendendo una lancia al mio posto.
Infine, ad Alois, avevo
guidato un gruppo di miei compagni all’assalto della Tourelle, e anche se
durante l’attacco ci avevo rimesso un dito avevo piantato personalmente la bandiera
del Quarto Corpo in cima al colle. Ancora non so cosa mi diede il coraggio di
commettere una simile avventatezza, io che mi ero sempre ritenuto un codardo
che cercava solo di portare a casa la pelle.
Forse ero
infiammato dagli ideali della Rivoluzione, e come molti altri sognavo di
vederla trionfare ovunque mettendo fine a secoli di sfruttamento dei più
deboli, fossero essi umani o mostri.
Mai avrei creduto
di poter abbracciare un ideale con tanto tanto fervore, ma probabilmente era
merito di Messer Daemon; ogni volta che lo ascoltavo aveva il potere di
convincermi che non esistessero traguardi impossibili.
La sera della
battaglia era venuto a trovarmi in infermeria, stringendomi la mano e
ringraziandomi per ciò che avevo fatto; aveva ringraziato me, un semplice
soldato.
Poi mi aveva detto
che come premio per la mia azione avrei potuto ottenere il congedo
dall’esercito e chiedere qualunque cosa: un lavoro, della terra o una bottega.
Solo pochi mesi
prima avrei accettato senza esitazioni. Invece avevo rifiutato rispettosamente,
affermando di voler continuare a combattere per lui. Tale era il potere del suo
carisma, capace di infondere coraggio anche al più inutile dei codardi.
«Gli uomini come
te sono nati per guidare gli altri con il proprio esempio.» mi aveva quindi
detto. «Se hai un talento, un talento qualsiasi, dimmelo. Ti prometto che lo
metterò a buon uso.»
Se c’era una cosa,
l’unica, di cui andavo fiero, era la mia capacità di imparare a maneggiare ogni
genere di utensile o strumento in cui mi imbattevo; mi bastava un attimo,
giusto il tempo di capire come funzionava, e subito riuscivo a sfruttarlo al
meglio.
«È un’abilità più
utile di quanto tu creda, che ti tornerà molto utile. Al momento giusto ti
mostrerò come usarla al meglio.»
Alla fine la mia
ferita mi impedì di prendere parte alla battaglia finale contro Faria, ma una
volta preso il controllo di Eirinn e raggiunta la pace il mio sergente mi aveva
detto che sarei stato ammesso alla nuova scuola ufficiali per imparare tutto su
come guidare uomini armati dei nuovi fucili.
Da lì era stata
tutta discesa, e prima di rendermene conto, al termine di un addestramento a
tratti disumano, ero diventato Capitano; Messer Daemon in persona mi aveva
messo tra le mani la bandiera della 4° Compagnia del Battaglione Mistvale del
4° Corpo.
Gli “Irredenti”.
Era questo il nostro soprannome, visto che eravamo tutti vecchi legionari che
avevano deciso di abbracciare gli ideali della Rivoluzione.
Ora avevo degli
uomini al mio comando.
E mi ci era voluto
poco per rendermi conto di essere in grado di guidarli in un modo che il
vecchio me non si sarebbe mai aspettato.
Avevo imparato a
comprendere i fucili così bene da sapere non solo come funzionassero e come
prendermene cura, ma anche come sfruttarli al meglio in ogni situazione.
Mi sentivo
invincibile.
Tutti ci sentivamo
così.
E forse proprio
per questo la sconfitta rovinosa che avevamo patito a Bedburg era stato un gran
brutto colpo più dal punto di vista del morale che delle perdite effettive.
Non sono nella
posizione di poter giudicare come mi comportai in quell’occasione, anche perché
eravamo stati coinvolti solo marginalmente nello scontro.
All’opposto posso
dire senza timore di risultare superbo che la condotta mia e dei miei compagni
nella battaglia contro l’Armata Secondaria fu lodevole; dopo aver respinto con
successo una carica di cavalleria noi e il nostro Battaglione eravamo riusciti
non solo a resistere, ma persino ad organizzare un contrattacco, impegnando
pesantemente il fianco nemico e aprendo così la strada all’assalto del resto
della fanteria.
Una volta fuggiti
da Bedburg io e la mia Compagnia ci eravamo ritrovati isolati, riuscendo
attraverso lunghe marce notturne a ricongiungerci dopo quattro giorni al resto
dell’esercito nei pressi di Arendt.
Eravamo talmente
stanchi per la lunga marcia che Messer Daemon in persona ci aveva dato il
permesso di piantare le tende e dormire fin quando non fossero arrivati nuovi
ordini, ma sapevamo tutti molto bene che la prossima battaglia sarebbe stata
quella decisiva.
E non fummo
smentiti.
Prima iniziò a
girare la voce che il nemico avesse lasciato Faria per venirci incontro, poi
iniziarono ad arrivare gli ordini di prepararsi allo scontro.
Una mattina,
mentre mangiavo qualcosa assieme ai miei tenenti, arrivò un ufficiale a
cavallo.
«Chi è che comanda
qui?»
«Io, Signore.
Capitano…»
«Non me ne frega
niente del tuo nome. Sei tu il comandante della 4° Compagnia del Battaglione
Mistvale?»
«Sì, Signore.»
«E i tuoi uomini
sono tutti qui?»
«Sì, Signore.»
«Gaia onnipotente,
è peggio di quanto pensassi. D’accordo, raccogliete le vostre cose e venite con
me.»
I miei soldati
fecero appena in tempo a radunarsi e mettersi in riga prima che l’adunata
risuonasse in tutto l’accampamento.
Al seguito
dell’ufficiale io e gli altri ci arrampicammo su per il colle, mentre dalla
zona brulla alla nostra sinistra iniziavano già ad udirsi le prime cannonate.
Alla fine
prendemmo posto lungo un crinale coperto di alberi, a poca distanza da un
sentiero che passava attraverso un piccolo avvallamento nelle rocce in
direzione est-ovest.
«La nostra linea
andrà da questo punto fino ai campi di vigne a sud-est. Il cuore dello
schieramento è la collina appena fuori da questo bosco. Questo che voi occupate
è il fianco destro. Il Comandante è stato molto chiaro. Nessun fronte deve
cedere. Tutte le unità devono restare ferme sulla loro posizione senza muovere
un passo. Dovete resistere. Fino all’ultimo uomo, se sarà necessario. Sono
stato chiaro?»
«Sissignore.»
«Che Gaia sia con
voi. Ne avrete bisogno.»
Appena l’ufficiale
se ne fu andato chiamai a raccolta i miei sottoposti.
«Occuperemo questa
piccola sporgenza. Formeremo tre linee, che dovranno essere il più compatte
possibile. La terza linea resterà in appoggio senza sparare. Qualora una delle
altre due dovesse dare segni di cedimento, la utilizzeremo per rafforzare il
fronte e mantenere il controllo del terreno.»
«Abbiamo un’idea
delle forze nemiche?» chiese Marko, il più fidato dei miei sergenti nonché caro
amico
«Per ora entrambe
le armate stanno ancora confluendo in questo punto, e quando saranno tutte qui
il rapporto di forze sarà di tre a uno. Ma in questo momento la situazione è
molto più sbilanciata. Almeno cinque a uno in favore del nemico.»
«Credete che
attaccheranno in questo punto?»
«Vorrei che non fosse
così, Aisha. Ma i fatti dicono il contrario. Se guardate a destra e a sinistra
vedrete solo reparti di fucilieri. Lì ci sono i membri del Gael, laggiù invece
i ragazzi del Wagram. È chiaro che il Comandante si aspetta un assalto
massiccio proprio su questo fianco. Il che è plausibile. La foresta non è
troppo fitta, offre riparo dall’artiglieria ma non ostacola eccessivamente le
manovre. È probabile che l’esercito imperiale arriverà da quel sentiero laggiù,
tra le rocce. Se notate, questo è il punto in cui il pendio è meno ripido, il
che significa che molto probabilmente saremo noi a subire l’attacco frontale.
Dovremo approfittare del momento in cui si stanno ancora organizzando per
colpirli il più possibile con un fuoco d’infilata. Se chiudono la formazione e
cominciano a salire sarà più difficile farli indietreggiare. Dite ai soldati di
risparmiare le granate. Serviranno nel caso in cui il nemico si avvicini
troppo. E devono stare bassi, il più bassi possibile. Approfittiamo del tempo
che ci rimane per abbattere qualche albero, impilare rocce, scavare delle
buche. Qualsiasi riparo contro le loro frecce andrà bene. Sasha, Luna.»
«Siamo qui.»
«Voi sarete i
messaggeri. Sasha terrà i contatti con la parte destra, Luna con quella
sinistra. Dovremo cercare di coordinare il più possibile i nostri sforzi con
quelli degli altri reparti. Bruno, quanti proiettili abbiamo?»
«Più o meno una
quarantina per uomo, più una piccola scorta d’emergenza.»
«Speriamo che
basti. Ad ogni modo, avete sentito cos’hanno detto. Stavolta non c’è ritirata.
Dietro di noi il colle dirada in una stretta pianura, e subito dietro c’è il
lago. Se il nemico dilaga, l’intero esercito sarà intrappolato e chiuso in una
sacca. E sta a noi impedirlo. Sono stato chiaro? Dobbiamo impedirlo.»
«Sissignore.»
«Molto bene. Ai
vostri posti.»
I trenta minuti
che seguirono furono i più lunghi della mia vita, e probabilmente non solo
della mia, mentre in lontananza si sentiva sempre più vicino il fragore della
battaglia.
Quasi subito fummo
tagliati fuori dalle comunicazioni con il resto del fronte a causa dei
combattimenti; l’ultima informazione che riuscimmo a ricevere prima di restare
isolati fu che il nemico si era presentato con tre legioni, una delle quali era
sicuramente diretta contro di noi.
Avevamo appena
finito di approntare qualche barricata e avevamo piantato a terra la nostra
bandiera, quando la vedetta appostata su un albero vicino lanciò un urlo.
«Arrivano!»
«Ai posti, pronti
a sparare!»
In terreni così
impervi l’approccio adottato dai comandanti imperiali era solitamente quello di
spezzettare le legioni in tanti manipoli che potessero muoversi più facilmente;
ogni manipolo era composto al massimo da duecento soldati, quasi sempre
raggruppati a seconda del grado e del ruolo che ricoprivano.
Per primi
arrivarono tre manipoli di lancieri, che disponendosi lungo il sentiero e
formando un muro di scudi nei punti più esposti fornirono copertura ai due
manipoli di arcieri subito dietro.
Essendo il punto
più esposto del sentiero al di là della nostra portata non potemmo fare nulla,
lasciando il compito di ostacolare la manovra ai nostri compagni della Terza
Armata. Gli imperiali subirono perdite importanti, ma riuscirono comunque a
portare un buon numero di arcieri al sicuro dietro le rocce davanti a noi, da
dove iniziarono a tirare nugoli di frecce.
Lo scopo di noi
fucilieri era di muoverci rapidamente, pertanto non avevamo né scudi né
armatura; per poterci difendere eravamo soliti costruire in pochi minuti
barriere di rami o muri di punte, e grazie anche alla protezione offerta dagli
alberi i dardi nemici non ci fecero molto male.
A quel primo
arrivo di nemici ne seguì un altro, composto stavolta interamente da manipoli
di lancieri e schermagliatori, che iniziarono ad avanzare verso di noi
spalleggiati dai loro compagni.
Il primo attacco
lo respingemmo senza grossi problemi, e così pure il secondo ed il terzo.
Ogni soldato
sparava in media due colpi e mezzo al minuto, e anche se i nemici usavano scudi
e armature i nostri proiettili erano abbastanza potenti da riuscire comunque a
bucare le loro protezioni.
Tuttavia, per
quanti imperiali abbattessimo, loro continuavano ad attaccare, ricevendo sempre
nuovi rinforzi con cui compensare le perdite.
La quarta ondata
arrivò ad appena quaranta metri da noi, ma alla fine dovette comunque arretrare
oltre la portata dei nostri fucili in attesa che arrivassero nuovi rinforzi.
«Cessate il fuoco!
Stanno ripiegando!»
Quella pausa
serviva anche a noi, e i miei compagni furono ben felici di poter rifiatare; io
ne approfittai per inviare un messaggero a vedere come stava procedendo la
battaglia, e nel mentre chiesi informazioni sullo stato degli altri reparti.
«Il Wagram ha
subito due assalti, ma ha respinto il nemico senza particolari problemi.»
«Il Gael prende di
mira tutti quelli che arrivano dal sentiero, e per ora non ha subito nessun
tentativo di assalto.»
«È come temevo. Si
stanno concentrando qui. Parlate coi comandanti del Wagram, del Gael e anche
dell’Alois. Chiedete se possono mandarci qualche rinforzo, o almeno delle
munizioni.»
«Capitano,
arrivano!»
«Maledizione,
tutti ai vostri posti!»
Anche gli
imperiali si erano riorganizzati, ricevendo rinforzi e rimpinguando i manipoli.
Il quinto attacco servì a saggiare il terreno, al sesto dovetti cominciare a
ordinare di risparmiare colpi.
Il crinale davanti
a noi era letteralmente invaso di corpi, e durante le brevi pause tra un
assalto e l’altro ne approfittavamo per recuperare qualche scudo, portarlo nelle
nostre linee e trasformarlo in una barriera.
«Capitano, brutte
notizie. Il Wagram non ha niente da inviarci.»
«Anche il Gael ha
risposto picche. Da qualche minuto il nemico sta tentando di sfondare anche
lì.»
«Capitano, forse
dovremmo ripiegare più in alto. Stavolta sono arrivati molto vicini.»
«Non possiamo
rompere la linea. Se gli altri restano fermi noi dobbiamo fare lo stesso,
altrimenti il nemico prenderà i nostri compagni sui fianchi. Rafforziamo il
fronte. Voglio tutta la riserva. Anche i feriti, se riescono a malapena a
tenere il fucile in mano devono restare al loro posto.»
«Eccoli che
ritornano!»
«Pronti a
sparare!»
Stavolta il nemico
si era fatto furbo; al settimo attacco i legionari avanzarono non più in
formazione ma in ordine sparso, tentando si risalire il più velocemente
possibile.
Anche gli arcieri
iniziarono ad avanzare, spesso nascondendosi dietro i loro compagni più
corazzati o dietro agli alberi, raggiungendo in più occasioni la posizione
ideale per poterci colpire facilmente.
Con fatica
respingemmo anche il settimo e l’ottavo attacco, ma il numero dei caduti iniziò
a salire in maniera preoccupante, e io dovetti ordinare di restringere la
larghezza della linea per non lasciare buchi.
«Stiamo rimanendo
a secco, Capitano. A qualcuno sono rimasti solo tre o quattro colpi.»
«Distribuite tutte
le munizioni che ci rimangono.»
«Capitano! Gravi
notizie, Signore! Il nemico ha aperto una breccia tra noi e il centro!»
«Cosa!? Hanno
sfondato?»
«Ancora no,
Signore. Messer Daemon ha mandato un piccolo gruppo di guerrieri, e per il
momento li hanno fermati. La piccola Sapi li sta tenendo a bada quasi da sola.
Quella peste è una forza della natura.»
«Non possiamo
assolutamente cedere. Neanche lei potrà fermare il nemico se dovessero riuscire
a passare anche da qui.»
«Capitano! Eccoli
che ritornano!»
Al nono assalto
capii che la situazione stava diventando drammatica quando il mio attendente mi
disse di essere rimasto senza più un colpo con cui ricaricare le mie pistole,
mentre per respingere il decimo dovemmo dare fondo a quasi tutte le nostre
granate.
«Per Gaia e per
Belion, non finiscono mai!»
Anche da destra e
da sinistra sentivamo sparare sempre meno, segno che anche gli altri reparti
ormai erano quasi a secco.
La cosa peggiore
era non poter dare e ricevere notizie dal resto del fronte; nel mezzo della
battaglia avevo provato a mandare uno dei miei messaggeri a richiedere ordini,
ma dopo un’ora non era ancora tornato, ed io ormai ero a corto di soluzioni.
I casi erano due,
o restavamo asserragliati sperando che i nemici si arrendessero prima che
restassimo senza munizioni, o tentavamo di fare qualcosa di davvero molto
stupido.
Scelsi la seconda
opzione.
«Prepariamoci a
caricare.» dissi dopo aver convocato tutti i miei sottoposti.
«Capitano, ma sei
serio!?»
«Non abbiamo altra
scelta. Stiamo finendo i colpi. Possiamo respingerli altre due volte, forse
tre, ma poi ci raggiungeranno.»
«Loro hanno gli
scudi e le corazze, noi abbiamo solo le baionette. Anche sfruttando lo slancio,
come possiamo pensare di sopraffarli nel corpo a corpo?»
«Hanno tentato di
salire questo pendio dieci volte dopo aver marciato per giorni. Saranno
esausti, e ne approfitteremo. E poi siamo stati legionari anche noi. Sappiamo
come combattono, cosa che loro non possono dire di noi.»
«E come facciamo
con i nostri ordini? Ci è stato detto di non lasciare questa posizione per
nessun motivo. Il rischio è di creare un buco nella linea.»
«Ha ragione. Se la
manovra fallisce e il nemico non si ritira gli avremo servito la vittoria su un
piatto d’argento.»
«Non ci rimane
altra scelta. Adesso o dopo, resterebbe comunque l’unica cosa da fare.
Serreremo le fila il più possibile. All’inizio li lasceremo avanzare. Se non ci
vedono sparare penseranno che siamo rimasti senza munizioni e si metteranno a
correre, scollandosi e stancandosi ancora di più. Quando saranno un po’ più
vicini caricheremo tutti insieme. Tutto chiaro?»
«… Sissignore.»
«Sissignore.»
«Sissignore.»
«Bene.
Prepariamoci.»
Al comando dei
sottufficiali tutti i miei uomini si portarono spalla contro spalla, le
baionette inastate e i corpi pronti a scattare.
«Eccoli che
arrivano.»
«Lasciateli
avanzare… ancora un po’… Adesso! Trombettiere!»
«4° Compagnia
Mistvale, carica!»
Non so davvero
cosa mi convinse a fare una cosa del genere.
Io ero un codardo,
lo sapevano tutti.
Ma nel momento
stesso in cui sentii il tamburo dietro di me fui il primo a lanciarmi giù dal
pendio come se avessi avuto il fuoco dentro.
Caricammo
furiosamente, gridando come una massa di esaltati, come se niente potesse
spaventarci.
Ero talmente preso
dal pensiero di raggiungere il nemico il più velocemente possibile che non mi
accorsi neanche che di lì a qualche secondo anche tutti gli altri reparti, dopo
un attimo di smarrimento, seguirono il nostro esempio.
I legionari
imperiali sembravano non credere ai loro occhi alla vista di questa massa di
pazzi armati solo di baionette che si scagliavano contro di loro urlando a più
non posso. I primi li travolgemmo mentre erano ancora immobili, e così i
secondi e i terzi.
E prima che
arrivassimo anche solo a metà del pendio i nemici cominciarono a fuggire,
gettando le armi e gli scudi e pensando solo a salvarsi la vita.
Ci fermammo solo
una volta giunti ai margini del bosco, riacquistando il controllo e il
raziocinio mentre il fuoco nei nostri petti si spegneva così come era
scoppiato. E quando ci guardammo indietro, alle nostre spalle non c’erano altro
che armi abbandonate e soldati morti o feriti, sia amici che nemici.
Pochi minuti dopo,
mentre ormai sfiniti ritornavamo verso le nostre posizioni di partenza con più
di cinquanta prigionieri, udimmo in lontananza il segnale imperiale di
ritirata.
In qualche modo,
ce l’avevamo fatta.
Alla sera rientrammo al nostro
accampamento, per riposarci e fare il conto delle perdite.
Prima ancora di
diventare Capitano avevo fatto pace con l’idea che la morte faceva parte
dell’esistenza di un soldato, e che rendersi apparentemente insensibili alla
morte di un amico era l’unico modo per sopportare il dolore.
Nel corso di
quella sola battaglia avevo perso quasi cinquanta compagni, molti dei quali
erano miei amici prima che subalterni ai miei ordini.
Ma nonostante
tutto, gli altri erano felici.
Perché avevamo
vinto. Avevamo vinto proprio quando, a detta di chi aveva combattuto in altri settori
del fronte, tutto sembrava compromesso.
L’attacco
dell’Impero era stato molto più violento del previsto, e in più occasioni il
nemico era stato ad un passo dal guadagnare il vantaggio. Messer Daemon aveva
dovuto mettere in campo tutto il suo genio per riuscire a ribaltare la
situazione, e ora che l’intera Grande Armata era riunita, per la prima volta
dopo la sconfitta di Bedburg si respirava nell’aria un senso di speranza.
Quanto a me,
sapevo che era solo una questione di tempo, e nel momento in cui due membri
della Grande Guardia vennero a dirmi che Messer Daemon voleva parlare con me
quasi non ne fui sorpreso.
L’incontro avvenne
nella sua tenda; lui se ne stava seduto allo scranno davanti al tavolo, e
appena io fui entrato lui ordinò ai suoi collaboratori e consiglieri di
lasciarci soli.
Confesso che non
ho mai tremato tanto di paura come in quell’occasione.
Per prima cosa
volle sentire il mio rapporto sulla battaglia; e io glielo feci, senza cercare
di addolcire quelle che sapevo essere le mie responsabilità.
Ad ogni mia parola
il suo sguardo diventava sempre più cupo, e io sentivo sul mio collo l’alito
dei due energumeni alle mie spalle, unici testimoni di quella che poteva essere
la mia ultima notte di vita.
Quando ebbi finito
di parlare il mio cuore batteva così forte che pensavo mi sarebbe saltato fuori
dal petto.
«Avevate ricevuto
gli ordini sul fatto che era necessario mantenere la posizione a tutti i
costi?»
«Sì, signore. E
l’abbiamo fatto. Ma il nemico continuava ad incalzare, e noi stavamo esaurendo
le munizioni. Era solo una questione di tempo prima che riuscissero a
sopraffarci. Ho fatto richiesta più volte di rinforzi e munizioni, ma i reparti
a noi vicini erano provati tanto quanto noi. Ho persino provato a chiedere
direttive personalmente a voi, ma il mio messaggero non è mai tornato. Solo
dopo ho scoperto che era stato ucciso nel tentativo di raggiungervi, colpito da
un incantesimo mentre passava nei pressi del buco tra noi ed il centro.»
«Con il vostro
comportamento avete messo a rischio tutti noi, e peggio ancora avete finito per
trascinarvi dietro tutto il fianco. Non vi siete soffermato a pensare cosa
sarebbe potuto accadere se la vostra carica non avesse sortito l’effetto
sperato? Tutto quel settore sarebbe stato compromesso, e la battaglia sarebbe
stata sicuramente perduta.»
Se prima le mie
gambe tremolavano, ora sembravano canne in balia di una tormenta.
«Signore, so di
aver trasgredito agli ordini, e me ne scuso profondamente. Aggiungo che se la
manovra fosse fallita, e per qualche miracolo io fossi riuscito a sopravvivere,
sarei tornato da voi solo per offrirvi la mia vita.»
Due secondi dopo i
suoi occhi erano ad un palmo di naso dai miei, e quello che vi vedevo dentro
non era per nulla rassicurante.
«La tua vita conta
per una! Quella di tutti qui conta per una, inclusa la mia! Potevamo perdere!
Tutto ciò che avevamo costruito con tanta fatica e con il sacrificio di tanti
nostri compagni sarebbe stato distrutto! Alla luce di tutto ciò, credi sul
serio che buttarti sulla tua spada sarebbe stato di una qualche utilità?»
Non sapevo se
restare immobile, tentare di rispondere o buttarmi ai suoi piedi implorando
clemenza.
«Io… mi dispiace,
Signore.»
Lui sembrò
calmarsi, sospirò e si strofinò il naso.
«I tuoi
sottufficiali erano d’accordo con la tua decisione?»
«Io… non ne sono
sicuro. All’inizio alcuni sembravano titubanti. Ma poi, alla fine… credo che
siano stati tutti d’accordo con me.»
Quando mi guardò
di nuovo negli occhi mi sentii di nuovo un bambino dispettoso mandato in punizione.
«Un’ultima
domanda. Fai finta che il nemico non fosse fuggito, e che il vostro attacco
fosse fallito. Saresti ancora convinto di aver fatto la cosa giusta?»
Avevo la
sensazione che mi sarei pentito delle mie parole a prescindere da cosa avessi
detto.
«Signore… io non
so cosa rispondere. Anzi, forse è più corretto dire che non sono in grado di
rispondere.»
«Cosa?»
«Non ci sono
certezze in guerra. Nessuno di noi può conoscere in anticipo le conseguenze
delle proprie azioni, soprattutto nel mezzo di una battaglia. Possiamo solo
analizzare la situazione, fare delle valutazioni, e prendere le decisioni in
base alle informazioni che abbiamo. Siete stato voi ad insegnarmelo con il
vostro esempio. In quel momento mi è sembrata la cosa giusta da fare.»
Se avessi detto al
me di un anno prima che un giorno avrei detto una cosa del genere in faccia a
Messer Daemon non ci avrebbe mai creduto.
Quanto al me di
quel momento, mi aspettavo solo che Messer Daemon da un momento all’altro
chiamasse i suoi due guardiani per farmi portare al patibolo.
Mi afferrò le
spalle e strappò via i gradi, poi mise una mano in tasca e mi colpì
violentemente al petto; quando la tolse, avevo una spilla appuntata alla
giacca.
«Congratulazioni.
Da questo momento siete Maggiore.»
Se non svenni lì
dove mi trovavo fu solo perché il mio cervello non riusciva ancora ad elaborare
quanto stava accadendo.
«Signore…!?»
«Il nemico ha
colpito duro lungo tutta la linea, ma è stato il vostro fianco a subire
l’attacco peggiore. Basilio è come un toro, carica chiunque gli sventoli un
drappo davanti. Più voi respingevate le sue offensive, più lui si intestardiva
a voler passare a tutti i costi da lì. Ha persino trascurato il varco che i
suoi uomini erano riusciti ad aprire al centro. Avrà pensato che fosse una trappola,
invece in quel punto eravamo davvero in difficoltà. Se non fosse stato per voi,
onestamente non so come sarebbe potuta andare a finire.»
Io quasi non lo
ascoltavo, perché ero troppo occupato a convincermi che non stavo sognando.
«Gli ordini sono importanti,
ma quello che voglio da un ufficiale è che si fidi del proprio istinto. Non me
ne faccio niente di un esercito di burattini senza cervello.»
Quindi fece una
cosa che avevo sentito dire non facesse quasi mai: volle stringermi la mano.
«Ben fatto,
Maggiore. Questa vittoria è prima di tutto vostra.»
«… Grazie,
Signore.»
Mi aveva appena
offerto di prendere un caffè con lui, quando dall’esterno di una tenda giunsero
rumori di galoppo forsennato, seguiti subito dopo dal tonfo di un cavallo che
stramazzava sfinito sull’erba ed esclamazioni disperate.
«Fatemi passare!
Devo parlare subito col Comandante!»
Un attimo dopo un
esploratore letteralmente ricoperto di fango e terra entrò nella tenda con lo
sguardo di chi aveva visto la morte in faccia.
«Che succede?»
«Comandante! È
terribile!»
Il ponte sul fiume Jesi era una specie di
monumento eretto a memoria della ferrea volontà dell’Imperatore Ademar di
mettere fine a decenni di tensione e scaramucce con l’Unione.
Prima della firma
dei Trattati di Rhodes era solo un semplice ponte di legno, facile da abbattere
in caso di problemi. Ora invece si era trasformato in una superba costruzione
di marmo e pietra, larga e comoda, da cui transitavano senza sosta merci e
persone.
Naturalmente
nessuno da una parte e dall’altra del fiume era così ingenuo da pensare che di
colpo Maligrad e Mickarn andassero d’amore e d’accordo; ecco perché era stata
istituita la terra di nessuno, e perché due grandi fortezze svettassero alle
estremità opposte del ponte, perennemente presidiate.
Dopo la nascita
dello Stato Libero la fortezza a nord era stata occupata da una guarnigione
ribelle, e fatto salvo un primo momento di reciproca diffidenza la situazione
si era rapidamente normalizzata.
Non era raro che
le due guarnigioni organizzassero perfino rimpatriate o incontri amichevoli,
per scambiarsi prodotti e passare qualche ora di allegria bevendo assieme.
In base agli
accordi ogni sera alle otto entrambe le porte venivano sprangate, e fino
all’alba a nessuno era permesso di attraversare il ponte.
Quella notte, il
Tenente al comando della guarnigione dello Stato Libero venne svegliato da uno
dei piantoni subito dopo essere riuscito a prendere sonno.
«Che c’è?»
brontolò salendo in cima alla torre
«Scusi il disturbo
Signore, ma c’è qualcosa di strano. Dall’altra parte non hanno ancora acceso il
fuoco di segnalazione.»
«Forse sono solo
in ritardo.»
«Sono già passate
tre ore da quando abbiamo chiuso le porte. È abbastanza strano.»
Il Tenente guardò
nel cannocchiale. Dall’altra parte regnava l’oscurità più assoluta, e l’intera
fortezza era al buio. Non si vedevano nemmeno i lumi delle sentinelle che
pattugliavano le sponde.
«Non mi piace… tra
l’altro il portone è ancora aperto, e il ponte levatoio abbassato. Sembra quasi
che lì dentro non ci sia nessuno.»
«Che sia il caso
di svegliare i soldati, Signore?»
Era una decisione
grave e rischiosa, perché poteva essere interpretata in vari modi.
Prima di fare
qualcosa di avventato il Tenente volle seguire la procedura.
«Fate il segnale.»
Le sentinelle
gettarono quindi dei minerali speciali nel braciere del forte, la cui fiamma
assunse una colorazione azzurra, poi verde, e infine rossa.
In questi casi ci
si aspettava che l’altro forte rispondesse nello stesso modo, per indicare che
era tutto in ordine.
Ma non successe
nulla.
Prima di
risolversi a suonare la sveglia il Tenente volle dare un’ultima occhiata col
cannocchiale. In quel momento le nubi che coprivano le lune di diradarono
parzialmente, permettendogli di scorgere qualcosa alle spalle del forte.
«Ma che…»
Fu tutto quello
che ebbe il tempo di dire, perché un attimo dopo il cielo venne illuminato a
giorno dalla luce di centinaia, migliaia di frecce infuocate.
«Maledizione!
Posto di combattimento! Tutti ai…»
Un dardo lo
trafisse in piena fronte, e prima che i suoi uomini potessero anche solo capire
cosa stava succedendo la fortezza venne letteralmente spazzata via dai colpi di
decine di trabucchi che la ridussero in macerie in pochi minuti.
Non era un piccolo
gruppo di soldati quello che il Tenente aveva intravisto, ma il più grande
esercito che l’Unione avesse mai messo assieme da decenni a quella parte.
E al centro dello
schieramento, in sella ad un cavallo nero, stava il Presidente Medici, che
estrasse la spada e la puntò davanti a sé.
«Esercito
dell’Unione di Patria! Avanti!»