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Autore: Cj Spencer    20/10/2024    1 recensioni
Volume 6 di "Napoleon of Another World!"
La guerra contro Eirinn è terminata, ora è il momento di ricostruire
Ma la pace non è destinata a durare.
L'Imperatore Ademar ha fatto la sua mossa, e presto Daemon si troverà a dover fare i conti con un avversario molto diverso da tutti quelli affrontati finora.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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EPILOGO

 

 

In vita mia non avevo mai contato niente.

Ero sempre stato il sottoposto di qualcuno, l’ultima ruota del carro che doveva solo obbedire senza mai dover dare gli ordini.

Prima avevo obbedito ai miei genitori, poi a mio fratello, poi, una volta entrato nell’esercito, ai miei ufficiali superiori.

Non era mai stato un problema; anzi, alle volte mi faceva sentire bene il pensiero di non avere sulle spalle il fardello di dover decidere per qualcun altro.

Un anno prima ero solo una recluta dell’esercito imperiale senza alcun avvenire, che poteva aspirare al massimo a raggiungere il congedo e ottenere un proprio pezzetto di terra in cui costruirsi una casa e una parvenza di vita.

Ma poi, da un momento all’altro, tutto era cambiato.

In un solo giorno, in quel fatidico campo senza nome, avevo visto sgretolarsi tutto ciò che credevo di sapere; lì avevo visto morire mio fratello, molti miei amici, ed ero stato testimone di un evento che dentro di me sapevo essere destinato a cambiare non solo la mia vita, ma quella di tutti noi.

Non avevo mai voluto rotture di scatole nella mia vita, anche perché mi era stato detto fin da piccolo che il destino di chi nasceva nelle mie condizioni era di avere sempre qualcuno al di sopra; e devo ammetterlo, per molto tempo come ho già detto la cosa mi era andata anche bene.

Eppure l’idea alla base della Rivoluzione secondo cui chiunque di noi poteva aspirare a raggiungere ogni traguardo che scegliesse di porsi, a prescindere da razza, status o ricchezza, non mi era sembrata così malvagia.

Non ero forte, né risoluto, e di certo non ero portato per il comando. Mi bastava il pensiero di poter fare la differenza, e poter dare il mio contributo alla causa.

Ma fin dal giorno successivo al mio ingresso nella Guardia Nazionale, ormai ribattezzata Grande Armata Rivoluzionaria, mi ero reso conto di avere dentro di me un fuoco di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza.

Era il fuoco del valore. Ora non combattevo più solo per salvarmi la vita, o perché un nobile che solo per un qualche supposto diritto divino comandava su di me mi diceva che dovevo farlo; ora combattevo per difendere e diffondere un ideale in cui avevo scelto di credere, e in nome del quale sarei stato felice di dare la mia vita.

Alle Bocche dei Giganti avevo avuto solo un ruolo di supporto occupandomi di mettere al sicuro i feriti, forse perché i nostri comandanti non a torto temevano che l’idea di trovarmi subito faccia a faccia contro i miei vecchi compagni potesse farmi esitare.

Durante il primo attacco a Grote Muren avevo visto il Generale Natuli sfilarmi la faretra di spalla e lanciarsi giù dalle mura trafiggendo un nemico dopo l’altro.

A Mistvale per la prima volta avevo combattuto fianco a fianco con i miei compagni, e il Generale Jack in persona mi aveva salvato la vita prendendo una lancia al mio posto.

Infine, ad Alois, avevo guidato un gruppo di miei compagni all’assalto della Tourelle, e anche se durante l’attacco ci avevo rimesso un dito avevo piantato personalmente la bandiera del Quarto Corpo in cima al colle. Ancora non so cosa mi diede il coraggio di commettere una simile avventatezza, io che mi ero sempre ritenuto un codardo che cercava solo di portare a casa la pelle.

Forse ero infiammato dagli ideali della Rivoluzione, e come molti altri sognavo di vederla trionfare ovunque mettendo fine a secoli di sfruttamento dei più deboli, fossero essi umani o mostri.

Mai avrei creduto di poter abbracciare un ideale con tanto tanto fervore, ma probabilmente era merito di Messer Daemon; ogni volta che lo ascoltavo aveva il potere di convincermi che non esistessero traguardi impossibili.

La sera della battaglia era venuto a trovarmi in infermeria, stringendomi la mano e ringraziandomi per ciò che avevo fatto; aveva ringraziato me, un semplice soldato.

Poi mi aveva detto che come premio per la mia azione avrei potuto ottenere il congedo dall’esercito e chiedere qualunque cosa: un lavoro, della terra o una bottega.

Solo pochi mesi prima avrei accettato senza esitazioni. Invece avevo rifiutato rispettosamente, affermando di voler continuare a combattere per lui. Tale era il potere del suo carisma, capace di infondere coraggio anche al più inutile dei codardi.

«Gli uomini come te sono nati per guidare gli altri con il proprio esempio.» mi aveva quindi detto. «Se hai un talento, un talento qualsiasi, dimmelo. Ti prometto che lo metterò a buon uso.»

Se c’era una cosa, l’unica, di cui andavo fiero, era la mia capacità di imparare a maneggiare ogni genere di utensile o strumento in cui mi imbattevo; mi bastava un attimo, giusto il tempo di capire come funzionava, e subito riuscivo a sfruttarlo al meglio.

«È un’abilità più utile di quanto tu creda, che ti tornerà molto utile. Al momento giusto ti mostrerò come usarla al meglio.»

Alla fine la mia ferita mi impedì di prendere parte alla battaglia finale contro Faria, ma una volta preso il controllo di Eirinn e raggiunta la pace il mio sergente mi aveva detto che sarei stato ammesso alla nuova scuola ufficiali per imparare tutto su come guidare uomini armati dei nuovi fucili.

Da lì era stata tutta discesa, e prima di rendermene conto, al termine di un addestramento a tratti disumano, ero diventato Capitano; Messer Daemon in persona mi aveva messo tra le mani la bandiera della 4° Compagnia del Battaglione Mistvale del 4° Corpo.

Gli “Irredenti”. Era questo il nostro soprannome, visto che eravamo tutti vecchi legionari che avevano deciso di abbracciare gli ideali della Rivoluzione.

Ora avevo degli uomini al mio comando.

E mi ci era voluto poco per rendermi conto di essere in grado di guidarli in un modo che il vecchio me non si sarebbe mai aspettato.

Avevo imparato a comprendere i fucili così bene da sapere non solo come funzionassero e come prendermene cura, ma anche come sfruttarli al meglio in ogni situazione.

Mi sentivo invincibile.

Tutti ci sentivamo così.

E forse proprio per questo la sconfitta rovinosa che avevamo patito a Bedburg era stato un gran brutto colpo più dal punto di vista del morale che delle perdite effettive.

Non sono nella posizione di poter giudicare come mi comportai in quell’occasione, anche perché eravamo stati coinvolti solo marginalmente nello scontro.

All’opposto posso dire senza timore di risultare superbo che la condotta mia e dei miei compagni nella battaglia contro l’Armata Secondaria fu lodevole; dopo aver respinto con successo una carica di cavalleria noi e il nostro Battaglione eravamo riusciti non solo a resistere, ma persino ad organizzare un contrattacco, impegnando pesantemente il fianco nemico e aprendo così la strada all’assalto del resto della fanteria.

Una volta fuggiti da Bedburg io e la mia Compagnia ci eravamo ritrovati isolati, riuscendo attraverso lunghe marce notturne a ricongiungerci dopo quattro giorni al resto dell’esercito nei pressi di Arendt.

Eravamo talmente stanchi per la lunga marcia che Messer Daemon in persona ci aveva dato il permesso di piantare le tende e dormire fin quando non fossero arrivati nuovi ordini, ma sapevamo tutti molto bene che la prossima battaglia sarebbe stata quella decisiva.

E non fummo smentiti.

Prima iniziò a girare la voce che il nemico avesse lasciato Faria per venirci incontro, poi iniziarono ad arrivare gli ordini di prepararsi allo scontro.

Una mattina, mentre mangiavo qualcosa assieme ai miei tenenti, arrivò un ufficiale a cavallo.

«Chi è che comanda qui?»

«Io, Signore. Capitano…»

«Non me ne frega niente del tuo nome. Sei tu il comandante della 4° Compagnia del Battaglione Mistvale?»

«Sì, Signore.»

«E i tuoi uomini sono tutti qui?»

«Sì, Signore.»

«Gaia onnipotente, è peggio di quanto pensassi. D’accordo, raccogliete le vostre cose e venite con me.»

I miei soldati fecero appena in tempo a radunarsi e mettersi in riga prima che l’adunata risuonasse in tutto l’accampamento.

Al seguito dell’ufficiale io e gli altri ci arrampicammo su per il colle, mentre dalla zona brulla alla nostra sinistra iniziavano già ad udirsi le prime cannonate.

Alla fine prendemmo posto lungo un crinale coperto di alberi, a poca distanza da un sentiero che passava attraverso un piccolo avvallamento nelle rocce in direzione est-ovest.

«La nostra linea andrà da questo punto fino ai campi di vigne a sud-est. Il cuore dello schieramento è la collina appena fuori da questo bosco. Questo che voi occupate è il fianco destro. Il Comandante è stato molto chiaro. Nessun fronte deve cedere. Tutte le unità devono restare ferme sulla loro posizione senza muovere un passo. Dovete resistere. Fino all’ultimo uomo, se sarà necessario. Sono stato chiaro?»

«Sissignore.»

«Che Gaia sia con voi. Ne avrete bisogno.»

Appena l’ufficiale se ne fu andato chiamai a raccolta i miei sottoposti.

«Occuperemo questa piccola sporgenza. Formeremo tre linee, che dovranno essere il più compatte possibile. La terza linea resterà in appoggio senza sparare. Qualora una delle altre due dovesse dare segni di cedimento, la utilizzeremo per rafforzare il fronte e mantenere il controllo del terreno.»

«Abbiamo un’idea delle forze nemiche?» chiese Marko, il più fidato dei miei sergenti nonché caro amico

«Per ora entrambe le armate stanno ancora confluendo in questo punto, e quando saranno tutte qui il rapporto di forze sarà di tre a uno. Ma in questo momento la situazione è molto più sbilanciata. Almeno cinque a uno in favore del nemico.»

«Credete che attaccheranno in questo punto?»

«Vorrei che non fosse così, Aisha. Ma i fatti dicono il contrario. Se guardate a destra e a sinistra vedrete solo reparti di fucilieri. Lì ci sono i membri del Gael, laggiù invece i ragazzi del Wagram. È chiaro che il Comandante si aspetta un assalto massiccio proprio su questo fianco. Il che è plausibile. La foresta non è troppo fitta, offre riparo dall’artiglieria ma non ostacola eccessivamente le manovre. È probabile che l’esercito imperiale arriverà da quel sentiero laggiù, tra le rocce. Se notate, questo è il punto in cui il pendio è meno ripido, il che significa che molto probabilmente saremo noi a subire l’attacco frontale. Dovremo approfittare del momento in cui si stanno ancora organizzando per colpirli il più possibile con un fuoco d’infilata. Se chiudono la formazione e cominciano a salire sarà più difficile farli indietreggiare. Dite ai soldati di risparmiare le granate. Serviranno nel caso in cui il nemico si avvicini troppo. E devono stare bassi, il più bassi possibile. Approfittiamo del tempo che ci rimane per abbattere qualche albero, impilare rocce, scavare delle buche. Qualsiasi riparo contro le loro frecce andrà bene. Sasha, Luna.»

«Siamo qui.»

«Voi sarete i messaggeri. Sasha terrà i contatti con la parte destra, Luna con quella sinistra. Dovremo cercare di coordinare il più possibile i nostri sforzi con quelli degli altri reparti. Bruno, quanti proiettili abbiamo?»

«Più o meno una quarantina per uomo, più una piccola scorta d’emergenza.»

«Speriamo che basti. Ad ogni modo, avete sentito cos’hanno detto. Stavolta non c’è ritirata. Dietro di noi il colle dirada in una stretta pianura, e subito dietro c’è il lago. Se il nemico dilaga, l’intero esercito sarà intrappolato e chiuso in una sacca. E sta a noi impedirlo. Sono stato chiaro? Dobbiamo impedirlo.»

«Sissignore.»

«Molto bene. Ai vostri posti.»

I trenta minuti che seguirono furono i più lunghi della mia vita, e probabilmente non solo della mia, mentre in lontananza si sentiva sempre più vicino il fragore della battaglia.

Quasi subito fummo tagliati fuori dalle comunicazioni con il resto del fronte a causa dei combattimenti; l’ultima informazione che riuscimmo a ricevere prima di restare isolati fu che il nemico si era presentato con tre legioni, una delle quali era sicuramente diretta contro di noi.

Avevamo appena finito di approntare qualche barricata e avevamo piantato a terra la nostra bandiera, quando la vedetta appostata su un albero vicino lanciò un urlo.

«Arrivano!»

«Ai posti, pronti a sparare!»

In terreni così impervi l’approccio adottato dai comandanti imperiali era solitamente quello di spezzettare le legioni in tanti manipoli che potessero muoversi più facilmente; ogni manipolo era composto al massimo da duecento soldati, quasi sempre raggruppati a seconda del grado e del ruolo che ricoprivano.

Per primi arrivarono tre manipoli di lancieri, che disponendosi lungo il sentiero e formando un muro di scudi nei punti più esposti fornirono copertura ai due manipoli di arcieri subito dietro.

Essendo il punto più esposto del sentiero al di là della nostra portata non potemmo fare nulla, lasciando il compito di ostacolare la manovra ai nostri compagni della Terza Armata. Gli imperiali subirono perdite importanti, ma riuscirono comunque a portare un buon numero di arcieri al sicuro dietro le rocce davanti a noi, da dove iniziarono a tirare nugoli di frecce.

Lo scopo di noi fucilieri era di muoverci rapidamente, pertanto non avevamo né scudi né armatura; per poterci difendere eravamo soliti costruire in pochi minuti barriere di rami o muri di punte, e grazie anche alla protezione offerta dagli alberi i dardi nemici non ci fecero molto male.

A quel primo arrivo di nemici ne seguì un altro, composto stavolta interamente da manipoli di lancieri e schermagliatori, che iniziarono ad avanzare verso di noi spalleggiati dai loro compagni.

Il primo attacco lo respingemmo senza grossi problemi, e così pure il secondo ed il terzo.

Ogni soldato sparava in media due colpi e mezzo al minuto, e anche se i nemici usavano scudi e armature i nostri proiettili erano abbastanza potenti da riuscire comunque a bucare le loro protezioni.

Tuttavia, per quanti imperiali abbattessimo, loro continuavano ad attaccare, ricevendo sempre nuovi rinforzi con cui compensare le perdite.

La quarta ondata arrivò ad appena quaranta metri da noi, ma alla fine dovette comunque arretrare oltre la portata dei nostri fucili in attesa che arrivassero nuovi rinforzi.

«Cessate il fuoco! Stanno ripiegando!»

Quella pausa serviva anche a noi, e i miei compagni furono ben felici di poter rifiatare; io ne approfittai per inviare un messaggero a vedere come stava procedendo la battaglia, e nel mentre chiesi informazioni sullo stato degli altri reparti.

«Il Wagram ha subito due assalti, ma ha respinto il nemico senza particolari problemi.»

«Il Gael prende di mira tutti quelli che arrivano dal sentiero, e per ora non ha subito nessun tentativo di assalto.»

«È come temevo. Si stanno concentrando qui. Parlate coi comandanti del Wagram, del Gael e anche dell’Alois. Chiedete se possono mandarci qualche rinforzo, o almeno delle munizioni.»

«Capitano, arrivano!»

«Maledizione, tutti ai vostri posti!»

Anche gli imperiali si erano riorganizzati, ricevendo rinforzi e rimpinguando i manipoli. Il quinto attacco servì a saggiare il terreno, al sesto dovetti cominciare a ordinare di risparmiare colpi.

Il crinale davanti a noi era letteralmente invaso di corpi, e durante le brevi pause tra un assalto e l’altro ne approfittavamo per recuperare qualche scudo, portarlo nelle nostre linee e trasformarlo in una barriera.

«Capitano, brutte notizie. Il Wagram non ha niente da inviarci.»

«Anche il Gael ha risposto picche. Da qualche minuto il nemico sta tentando di sfondare anche lì.»

«Capitano, forse dovremmo ripiegare più in alto. Stavolta sono arrivati molto vicini.»

«Non possiamo rompere la linea. Se gli altri restano fermi noi dobbiamo fare lo stesso, altrimenti il nemico prenderà i nostri compagni sui fianchi. Rafforziamo il fronte. Voglio tutta la riserva. Anche i feriti, se riescono a malapena a tenere il fucile in mano devono restare al loro posto.»

«Eccoli che ritornano!»

«Pronti a sparare!»

Stavolta il nemico si era fatto furbo; al settimo attacco i legionari avanzarono non più in formazione ma in ordine sparso, tentando si risalire il più velocemente possibile.

Anche gli arcieri iniziarono ad avanzare, spesso nascondendosi dietro i loro compagni più corazzati o dietro agli alberi, raggiungendo in più occasioni la posizione ideale per poterci colpire facilmente.

Con fatica respingemmo anche il settimo e l’ottavo attacco, ma il numero dei caduti iniziò a salire in maniera preoccupante, e io dovetti ordinare di restringere la larghezza della linea per non lasciare buchi.

«Stiamo rimanendo a secco, Capitano. A qualcuno sono rimasti solo tre o quattro colpi.»

«Distribuite tutte le munizioni che ci rimangono.»

«Capitano! Gravi notizie, Signore! Il nemico ha aperto una breccia tra noi e il centro!»

«Cosa!? Hanno sfondato?»

«Ancora no, Signore. Messer Daemon ha mandato un piccolo gruppo di guerrieri, e per il momento li hanno fermati. La piccola Sapi li sta tenendo a bada quasi da sola. Quella peste è una forza della natura.»

«Non possiamo assolutamente cedere. Neanche lei potrà fermare il nemico se dovessero riuscire a passare anche da qui.»

«Capitano! Eccoli che ritornano!»

Al nono assalto capii che la situazione stava diventando drammatica quando il mio attendente mi disse di essere rimasto senza più un colpo con cui ricaricare le mie pistole, mentre per respingere il decimo dovemmo dare fondo a quasi tutte le nostre granate.

«Per Gaia e per Belion, non finiscono mai!»

Anche da destra e da sinistra sentivamo sparare sempre meno, segno che anche gli altri reparti ormai erano quasi a secco.

La cosa peggiore era non poter dare e ricevere notizie dal resto del fronte; nel mezzo della battaglia avevo provato a mandare uno dei miei messaggeri a richiedere ordini, ma dopo un’ora non era ancora tornato, ed io ormai ero a corto di soluzioni.

I casi erano due, o restavamo asserragliati sperando che i nemici si arrendessero prima che restassimo senza munizioni, o tentavamo di fare qualcosa di davvero molto stupido.

Scelsi la seconda opzione.

«Prepariamoci a caricare.» dissi dopo aver convocato tutti i miei sottoposti.

«Capitano, ma sei serio!?»

«Non abbiamo altra scelta. Stiamo finendo i colpi. Possiamo respingerli altre due volte, forse tre, ma poi ci raggiungeranno.»

«Loro hanno gli scudi e le corazze, noi abbiamo solo le baionette. Anche sfruttando lo slancio, come possiamo pensare di sopraffarli nel corpo a corpo?»

«Hanno tentato di salire questo pendio dieci volte dopo aver marciato per giorni. Saranno esausti, e ne approfitteremo. E poi siamo stati legionari anche noi. Sappiamo come combattono, cosa che loro non possono dire di noi.»

«E come facciamo con i nostri ordini? Ci è stato detto di non lasciare questa posizione per nessun motivo. Il rischio è di creare un buco nella linea.»

«Ha ragione. Se la manovra fallisce e il nemico non si ritira gli avremo servito la vittoria su un piatto d’argento.»

«Non ci rimane altra scelta. Adesso o dopo, resterebbe comunque l’unica cosa da fare. Serreremo le fila il più possibile. All’inizio li lasceremo avanzare. Se non ci vedono sparare penseranno che siamo rimasti senza munizioni e si metteranno a correre, scollandosi e stancandosi ancora di più. Quando saranno un po’ più vicini caricheremo tutti insieme. Tutto chiaro?»

«… Sissignore.»

«Sissignore.»

«Sissignore.»

«Bene. Prepariamoci.»

Al comando dei sottufficiali tutti i miei uomini si portarono spalla contro spalla, le baionette inastate e i corpi pronti a scattare.

«Eccoli che arrivano.»

«Lasciateli avanzare… ancora un po’… Adesso! Trombettiere!»

«4° Compagnia Mistvale, carica!»

Non so davvero cosa mi convinse a fare una cosa del genere.

Io ero un codardo, lo sapevano tutti.

Ma nel momento stesso in cui sentii il tamburo dietro di me fui il primo a lanciarmi giù dal pendio come se avessi avuto il fuoco dentro.

Caricammo furiosamente, gridando come una massa di esaltati, come se niente potesse spaventarci.

Ero talmente preso dal pensiero di raggiungere il nemico il più velocemente possibile che non mi accorsi neanche che di lì a qualche secondo anche tutti gli altri reparti, dopo un attimo di smarrimento, seguirono il nostro esempio.

I legionari imperiali sembravano non credere ai loro occhi alla vista di questa massa di pazzi armati solo di baionette che si scagliavano contro di loro urlando a più non posso. I primi li travolgemmo mentre erano ancora immobili, e così i secondi e i terzi.

E prima che arrivassimo anche solo a metà del pendio i nemici cominciarono a fuggire, gettando le armi e gli scudi e pensando solo a salvarsi la vita.

Ci fermammo solo una volta giunti ai margini del bosco, riacquistando il controllo e il raziocinio mentre il fuoco nei nostri petti si spegneva così come era scoppiato. E quando ci guardammo indietro, alle nostre spalle non c’erano altro che armi abbandonate e soldati morti o feriti, sia amici che nemici.

Pochi minuti dopo, mentre ormai sfiniti ritornavamo verso le nostre posizioni di partenza con più di cinquanta prigionieri, udimmo in lontananza il segnale imperiale di ritirata.

In qualche modo, ce l’avevamo fatta.

 

Alla sera rientrammo al nostro accampamento, per riposarci e fare il conto delle perdite.

Prima ancora di diventare Capitano avevo fatto pace con l’idea che la morte faceva parte dell’esistenza di un soldato, e che rendersi apparentemente insensibili alla morte di un amico era l’unico modo per sopportare il dolore.

Nel corso di quella sola battaglia avevo perso quasi cinquanta compagni, molti dei quali erano miei amici prima che subalterni ai miei ordini.

Ma nonostante tutto, gli altri erano felici.

Perché avevamo vinto. Avevamo vinto proprio quando, a detta di chi aveva combattuto in altri settori del fronte, tutto sembrava compromesso.

L’attacco dell’Impero era stato molto più violento del previsto, e in più occasioni il nemico era stato ad un passo dal guadagnare il vantaggio. Messer Daemon aveva dovuto mettere in campo tutto il suo genio per riuscire a ribaltare la situazione, e ora che l’intera Grande Armata era riunita, per la prima volta dopo la sconfitta di Bedburg si respirava nell’aria un senso di speranza.

Quanto a me, sapevo che era solo una questione di tempo, e nel momento in cui due membri della Grande Guardia vennero a dirmi che Messer Daemon voleva parlare con me quasi non ne fui sorpreso.

L’incontro avvenne nella sua tenda; lui se ne stava seduto allo scranno davanti al tavolo, e appena io fui entrato lui ordinò ai suoi collaboratori e consiglieri di lasciarci soli.

Confesso che non ho mai tremato tanto di paura come in quell’occasione.

Per prima cosa volle sentire il mio rapporto sulla battaglia; e io glielo feci, senza cercare di addolcire quelle che sapevo essere le mie responsabilità.

Ad ogni mia parola il suo sguardo diventava sempre più cupo, e io sentivo sul mio collo l’alito dei due energumeni alle mie spalle, unici testimoni di quella che poteva essere la mia ultima notte di vita.

Quando ebbi finito di parlare il mio cuore batteva così forte che pensavo mi sarebbe saltato fuori dal petto.

«Avevate ricevuto gli ordini sul fatto che era necessario mantenere la posizione a tutti i costi?»

«Sì, signore. E l’abbiamo fatto. Ma il nemico continuava ad incalzare, e noi stavamo esaurendo le munizioni. Era solo una questione di tempo prima che riuscissero a sopraffarci. Ho fatto richiesta più volte di rinforzi e munizioni, ma i reparti a noi vicini erano provati tanto quanto noi. Ho persino provato a chiedere direttive personalmente a voi, ma il mio messaggero non è mai tornato. Solo dopo ho scoperto che era stato ucciso nel tentativo di raggiungervi, colpito da un incantesimo mentre passava nei pressi del buco tra noi ed il centro.»

«Con il vostro comportamento avete messo a rischio tutti noi, e peggio ancora avete finito per trascinarvi dietro tutto il fianco. Non vi siete soffermato a pensare cosa sarebbe potuto accadere se la vostra carica non avesse sortito l’effetto sperato? Tutto quel settore sarebbe stato compromesso, e la battaglia sarebbe stata sicuramente perduta.»

Se prima le mie gambe tremolavano, ora sembravano canne in balia di una tormenta.

«Signore, so di aver trasgredito agli ordini, e me ne scuso profondamente. Aggiungo che se la manovra fosse fallita, e per qualche miracolo io fossi riuscito a sopravvivere, sarei tornato da voi solo per offrirvi la mia vita.»

Due secondi dopo i suoi occhi erano ad un palmo di naso dai miei, e quello che vi vedevo dentro non era per nulla rassicurante.

«La tua vita conta per una! Quella di tutti qui conta per una, inclusa la mia! Potevamo perdere! Tutto ciò che avevamo costruito con tanta fatica e con il sacrificio di tanti nostri compagni sarebbe stato distrutto! Alla luce di tutto ciò, credi sul serio che buttarti sulla tua spada sarebbe stato di una qualche utilità?»

Non sapevo se restare immobile, tentare di rispondere o buttarmi ai suoi piedi implorando clemenza.

«Io… mi dispiace, Signore.»

Lui sembrò calmarsi, sospirò e si strofinò il naso.

«I tuoi sottufficiali erano d’accordo con la tua decisione?»

«Io… non ne sono sicuro. All’inizio alcuni sembravano titubanti. Ma poi, alla fine… credo che siano stati tutti d’accordo con me.»

Quando mi guardò di nuovo negli occhi mi sentii di nuovo un bambino dispettoso mandato in punizione.

«Un’ultima domanda. Fai finta che il nemico non fosse fuggito, e che il vostro attacco fosse fallito. Saresti ancora convinto di aver fatto la cosa giusta?»

Avevo la sensazione che mi sarei pentito delle mie parole a prescindere da cosa avessi detto.

«Signore… io non so cosa rispondere. Anzi, forse è più corretto dire che non sono in grado di rispondere.»

«Cosa?»

«Non ci sono certezze in guerra. Nessuno di noi può conoscere in anticipo le conseguenze delle proprie azioni, soprattutto nel mezzo di una battaglia. Possiamo solo analizzare la situazione, fare delle valutazioni, e prendere le decisioni in base alle informazioni che abbiamo. Siete stato voi ad insegnarmelo con il vostro esempio. In quel momento mi è sembrata la cosa giusta da fare.»

Se avessi detto al me di un anno prima che un giorno avrei detto una cosa del genere in faccia a Messer Daemon non ci avrebbe mai creduto.

Quanto al me di quel momento, mi aspettavo solo che Messer Daemon da un momento all’altro chiamasse i suoi due guardiani per farmi portare al patibolo.

Mi afferrò le spalle e strappò via i gradi, poi mise una mano in tasca e mi colpì violentemente al petto; quando la tolse, avevo una spilla appuntata alla giacca.

«Congratulazioni. Da questo momento siete Maggiore.»

Se non svenni lì dove mi trovavo fu solo perché il mio cervello non riusciva ancora ad elaborare quanto stava accadendo.

«Signore…!?»

«Il nemico ha colpito duro lungo tutta la linea, ma è stato il vostro fianco a subire l’attacco peggiore. Basilio è come un toro, carica chiunque gli sventoli un drappo davanti. Più voi respingevate le sue offensive, più lui si intestardiva a voler passare a tutti i costi da lì. Ha persino trascurato il varco che i suoi uomini erano riusciti ad aprire al centro. Avrà pensato che fosse una trappola, invece in quel punto eravamo davvero in difficoltà. Se non fosse stato per voi, onestamente non so come sarebbe potuta andare a finire.»

Io quasi non lo ascoltavo, perché ero troppo occupato a convincermi che non stavo sognando.

«Gli ordini sono importanti, ma quello che voglio da un ufficiale è che si fidi del proprio istinto. Non me ne faccio niente di un esercito di burattini senza cervello.»

Quindi fece una cosa che avevo sentito dire non facesse quasi mai: volle stringermi la mano.

«Ben fatto, Maggiore. Questa vittoria è prima di tutto vostra.»

«… Grazie, Signore.»

Mi aveva appena offerto di prendere un caffè con lui, quando dall’esterno di una tenda giunsero rumori di galoppo forsennato, seguiti subito dopo dal tonfo di un cavallo che stramazzava sfinito sull’erba ed esclamazioni disperate.

«Fatemi passare! Devo parlare subito col Comandante!»

Un attimo dopo un esploratore letteralmente ricoperto di fango e terra entrò nella tenda con lo sguardo di chi aveva visto la morte in faccia.

«Che succede?»

«Comandante! È terribile!»

 

Il ponte sul fiume Jesi era una specie di monumento eretto a memoria della ferrea volontà dell’Imperatore Ademar di mettere fine a decenni di tensione e scaramucce con l’Unione.

Prima della firma dei Trattati di Rhodes era solo un semplice ponte di legno, facile da abbattere in caso di problemi. Ora invece si era trasformato in una superba costruzione di marmo e pietra, larga e comoda, da cui transitavano senza sosta merci e persone.

Naturalmente nessuno da una parte e dall’altra del fiume era così ingenuo da pensare che di colpo Maligrad e Mickarn andassero d’amore e d’accordo; ecco perché era stata istituita la terra di nessuno, e perché due grandi fortezze svettassero alle estremità opposte del ponte, perennemente presidiate.

Dopo la nascita dello Stato Libero la fortezza a nord era stata occupata da una guarnigione ribelle, e fatto salvo un primo momento di reciproca diffidenza la situazione si era rapidamente normalizzata.

Non era raro che le due guarnigioni organizzassero perfino rimpatriate o incontri amichevoli, per scambiarsi prodotti e passare qualche ora di allegria bevendo assieme.

In base agli accordi ogni sera alle otto entrambe le porte venivano sprangate, e fino all’alba a nessuno era permesso di attraversare il ponte.

Quella notte, il Tenente al comando della guarnigione dello Stato Libero venne svegliato da uno dei piantoni subito dopo essere riuscito a prendere sonno.

«Che c’è?» brontolò salendo in cima alla torre

«Scusi il disturbo Signore, ma c’è qualcosa di strano. Dall’altra parte non hanno ancora acceso il fuoco di segnalazione.»

«Forse sono solo in ritardo.»

«Sono già passate tre ore da quando abbiamo chiuso le porte. È abbastanza strano.»

Il Tenente guardò nel cannocchiale. Dall’altra parte regnava l’oscurità più assoluta, e l’intera fortezza era al buio. Non si vedevano nemmeno i lumi delle sentinelle che pattugliavano le sponde.

«Non mi piace… tra l’altro il portone è ancora aperto, e il ponte levatoio abbassato. Sembra quasi che lì dentro non ci sia nessuno.»

«Che sia il caso di svegliare i soldati, Signore?»

Era una decisione grave e rischiosa, perché poteva essere interpretata in vari modi.

Prima di fare qualcosa di avventato il Tenente volle seguire la procedura.

«Fate il segnale.»

Le sentinelle gettarono quindi dei minerali speciali nel braciere del forte, la cui fiamma assunse una colorazione azzurra, poi verde, e infine rossa.

In questi casi ci si aspettava che l’altro forte rispondesse nello stesso modo, per indicare che era tutto in ordine.

Ma non successe nulla.

Prima di risolversi a suonare la sveglia il Tenente volle dare un’ultima occhiata col cannocchiale. In quel momento le nubi che coprivano le lune di diradarono parzialmente, permettendogli di scorgere qualcosa alle spalle del forte.

«Ma che…»

Fu tutto quello che ebbe il tempo di dire, perché un attimo dopo il cielo venne illuminato a giorno dalla luce di centinaia, migliaia di frecce infuocate.

«Maledizione! Posto di combattimento! Tutti ai…»

Un dardo lo trafisse in piena fronte, e prima che i suoi uomini potessero anche solo capire cosa stava succedendo la fortezza venne letteralmente spazzata via dai colpi di decine di trabucchi che la ridussero in macerie in pochi minuti.

Non era un piccolo gruppo di soldati quello che il Tenente aveva intravisto, ma il più grande esercito che l’Unione avesse mai messo assieme da decenni a quella parte.

E al centro dello schieramento, in sella ad un cavallo nero, stava il Presidente Medici, che estrasse la spada e la puntò davanti a sé.

«Esercito dell’Unione di Patria! Avanti!»

 

   
 
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