Consegna
Racconta il modo in cui si incontrano i due personaggi che hai inventato con l'esercizio 7.
Descrivi la situazione, l'interazione e quel che capita. Scegli il posto che vuoi a patto che l'incontro avvenga esattamente alle 15 di pomeriggio.
Devi scrivere una breve storia, e anche se hai a disposizione un bel po' di tempo, è meglio che lo organizzi. Scegli quanto dedicare alla scrittura: 10 minuti, 30 minuti o quanto ritieni utile. Scegli una misura: vuoi fare una drabble (100 parole), una flash (500 parole), una one-shot (500.1000)? Eviterei le storie a capitoli, anche se brevi: troppo difficili da gestire in così poco tempo. Ti suggerisco una-due cartelle di testo (una flash o una one-shot, quindi).
E ricorda di dedicare un po' di tempo anche a una prime revisione. Ovviamente puoi usare i consigli dell'esercizio scorso.
Scrivendo, infine, ricordati che disponi già di personaggi con caratteristiche definite: modificarle o ignorarle NON è permesso.
Tempo: 60 minuti
Skaze.
Radek impreca sempre in greco. Gli piace il suono; gli piace il modo in cui la parola gli stira le labbra e la lingua schiocca.
Gli piace meno quando tutti si girano a fissarlo, fra gli scaffali del supermercato o in metropolitana, un misto di curiosità e sospetto che diventano un’etichetta; non gli piace quando la gente fa un passo di lato, un sorriso tirato, un’occhiata di sufficienza. E qualcosa, giù, nello stomaco, si rimescola ancora. Come un piccolo tarlo che morde e morde.
Skaze si ripete, mentre Monteno continua la sua passeggiata indolente, la coda ritta e le impronte di inchiostro un arabesco per tutto il negozio.
Radek adora quel gatto, la sua indole anarchica e sorniona; ma ogni giorno combina un guaio. Di quelli con la g maiuscola. E lui ci finisce in mezzo. Quasi ci provasse un gusto sadico nel ficcarcelo e poi restarsene lì, acciambellato sopra una libreria, soffiandogli un adesso vediamo come te la cavi.
E adesso come me la cavo? si chiede infatti Radek, il foulard pieno di irriverenti zampate un nastro davanti agli occhi. E’ un bel foulard, di seta dai colori caldi dell’autunno. La ragazza lo aveva appoggiato su una pila di libri, e adesso lo guarda con una smorfia che Radek non riesce a decifrare. Anche se è bravo a decifrarle, le smorfie. Era il suo lavoro, una volta.
Una vita prima lo sfiora il pensiero, e poi ritorna a lei, a quegli occhi scuri e un po’ allungati e alle labbra corrucciate.
Belle. Un pensiero stupito, e inutile. E fuori luogo. Ma lo pensa. E lo dice.
“Le impronte del tuo gatto?”
“No. Le tue labbra”.
E lei smargina gli occhi, un ciuffo ad accarezzarle la guancia e una risata che sale lieve come il fruscio di una pagina. E Radek ride con lei: forse non mi manda subito al diavolo.
“Scusa” le dice alla fine. “Di solito non faccio così” e sente l’accento, il suo accento bosniaco, carezzare ogni parola come carezzasse lei, le spalle nude in quel pomeriggio ottobrino, con una luce di pietra che inizia a entrare di sbieco dalla finestra.
“Cioè non usi in gatto come tuo complice per abbordare le ragazze?”
È spigliata, e divertente. E gli risponde con leggerezza.
“Non volevo abbordarti” glissa, le mani un guizzo di imbarazzo.“E Monteno non è un complice. Assomiglia più a una calamità”.
“Monteno?”
“Mm” risponde appena, un’occhiata al gatto che sbadiglia tranquillo. “Era il nome di un cantautore. Nel mio paese. In Jugoslavia. Mi piace la voce.”
“Anche a me.”
“Lo conosci?”
“No” e lei sorride in un modo. Un modo così semplice, così banale, che Radek pensa sia bellissimo. “Parlavo della tua voce. Sai cantare?”
“Sì. Cioè. No” farfuglia, in contropiede. Quando accenna alla sua terra, tutti scappano. Lei invece gli si avvicina. Non ha fatto un passo, ma Radek è come se l’avesse vista muoversi: correre verso di lui e aprire le braccia. Come una folata di vento autunnale. Caldo e corposo. “Un po’. Perché?” chiede.
“Cantami qualcosa” lo invita lei, e si siede sul suo sgabello, dietro al bancone della cassa, con la naturalezza di chi si sente a casa.
“Sono stonato” tenta Radek.
“Non importa” lo rassicura lei.
“Conosco solo vecchie canzonette” prova ancora. E canzoni da soldato, ma non lo dice.
“Fa lo stesso” lo incalza ancora.
E allora Radek canta. Canta Zemlio moja, la voce che trema e un miscuglio di orgoglio e nostalgia in fondo allo stomaco, dietro gli occhi.
“È stato…” inizia lei, accarezzando la parola che ha in punta di lingua come sta facendo con il pelo di Monteno.
“Orribile” ridacchia Radek, una grattata distratta alle orecchie del felino venduto.
“Intenso” gli dice lei. E se ne restano così, senza parole importanti da dirsi, il mormorio di un gatto e lo sferragliare dei tram fuori dalla porta.
“Mi fai un tè?” gli chiede poi a bruciapelo, mentre si libera delle scarpe e si acciambella sullo sgabello come un acrobata esperto.
“Se sua signoria non desidera altro” ironizza Radek, una serenità che non ricordava da una vita. E mentre armeggia con tazze e bollitore, un profumo di malva e miele a riempire la piccola libreria, si volta appena sopra la spalla, l’accenno di sorriso che si allarga mentre si concede di accarezzare un pensiero che non ha ancora forma precisa.
“Radek” le sussurra, e il suo nome non gli è mai sembrato così suadente, mentre lei gioca con Monteno, il foulard macchiato sulle spalle da uccellino.
“Aiko” gli risponde, la tazza calda accolta come una promessa.