Perché si era cacciato in quel guaio?
I
tuoni, che in un primo momento lo avevano confortato, ora preoccupavano
Domenico. L'acqua cadeva a fitti e pesanti goccioloni e lui era stato tanto
stupido da ficcarsi in una grotta sotterranea per ripararsi. L'acqua colava
dalla fanghiglia attorno alla fessura da cui si era calato, scanalava la il
terriccio in piccoli rivoli e si fermava sulla pietra sotto i suoi piedi, lì
non poteva essere assorbita da nulla, scivolava e si espandeva nel pavimento e,
scontratasi contro tutte le pareti, iniziava ad accumularsi.
Se
il temporale non fosse finito presto, lui avrebbe rischiato di annegare.
Era
solo un pastorello, non meritava quella fine! Non voleva morire in quel buco
buio dove nessuno lo avrebbe mai ritrovato. Suo padre si sarebbe preoccupato
tantissimo nel non vederlo tornare alla locanda. Suo fratello Vitale avrebbe
girato per tutti i monti e le valli della zona per cercarlo, inutilmente. Non
avrebbero mai avuto una tomba su cui piangerlo.
Forse
era meglio così. Non avrebbero avuto la certezza della sua morte e avrebbero
potuto immaginarlo felice altrove. Oh, ma così si sarebbero sentiti in colpa,
credendo che fosse scappato perché infelice, oppure si sarebbero adirati con
lui per averli abbandonati. Eh, se solo si fosse confidato quel mattino, prima
di uscire. Aveva preferito tacere per fare una sorpresa, per evitare che
tentassero di trattenerlo.
Tante
leggende si raccontavano sul monte Valestra: mai recarsi lì da soli, bisognava
andare in gruppi e non separarsi per alcuna ragione, spettri e demoni lo infestavano.
Il Diavolo stesso aveva lì una sua residenza. Il Diavolo o il Mago Balista.
Forse entrambi, forse non erano tanto diversi.
Domenico
non aveva mai sentito storie precise su Balista. Alcuni lo definivano un
incantatore, altri un feroce brigante, tutti pronunciavano con terrore il suo
nome. Anzi, preferivano non pronunciarlo, convinti che anche il solo sussurro
di quelle sillabe potesse attirare sciagure.
"Non
dire quel nome!" lo aveva ammonito il prete, schiaffeggiandolo per
impedirgli di pronunciarlo per intero, quando aveva cercato notizie
"Altrimenti lo chiamerai. Il suo spirito inquieto, cacciato dal Paradiso e
dall'Inferno, ti raggiungerà e sarai la sua nuova vittima."
"Perché
pure l'Inferno lo ha cacciato?"
"La
sua crudeltà e le sue efferatezze furono tali da fargli guadagnare la stima del
Diavolo che lo considerò suo pari e non volle punirlo. Lasciò quindi lo spirito
del furfante libero di infestare il monte in cui fu sepolto e di dannare gli
incauti che vi si avventurano."
"Dev'essere
stato cattivissimo! Che cosa faceva?"
"Oh,
crimini tremendi. Scannava gente, incendiava ogni cosa."
"Ma
mi potete dire qualche fatto? Qualcosa di preciso?"
"Non
ti basta questo? Non c'è altro da sapere. Ora dì cinque Pater Noster e chiedi a Dio che ti protegga: pensare tanto a quel
mostro può attirare le sue attenzioni su di te!"
Era
sempre la solita storia: ogni volta che chiedeva più informazioni, che gli
raccontassero le malefatte di Balista, nessuno sapeva o voleva rispondergli.
Restavano sul generico, nemmeno un episodio dettagliato. A Domenico pareva
ridicolo che tutti temessero lo spettro di Balista, senza neppure ricordare che
cosa avesse compiuto di tanto atroce.
Forse
la colpa era dei secoli passati da quando il bandito era vissuto; lui non
conosceva molto la storia, però gli dicevano che Balista era vissuto lì prima
dell'avvento di Cristo, allora dovevano essere passati almeno 1500 anni.
Forse,
però, erano menzogne le leggende a cui credeva la gente, forse Balista non era
uno spirito malvagio.
Oh,
quanto si era sbagliato a pensar ciò! Aveva voluto aggrapparsi a quell'idea per
convincersi a salire da solo per quella montagna maledetta, quanto era stato
sciocco!
Dopo
ciò che aveva visto tra quei boschi, non poteva che dare ragione alla saggezza
popolare.
Oh,
perché aveva voluto far di testa propria, senza ascoltare gli anziani e il
prete?
L'acqua
si infiltrava nella tela dei suoi calzari. Si strinse la testa tra le mani,
maledicendo la propria avidità, lacrimando per la consapevolezza che presto
sarebbe morto.
"Perché
vuoi morire?"
No,
no, no! Di nuovo quella dannata voce. Lo aveva seguito fin là dentro: non
poteva nascondersi.
"Accoglimi
e vivremo."
"Sta
zitto!" strillò Domenico, buttando fuori tanto fiato da vuotare i polmoni.
Le gambe non lo ressero e cadde in ginocchio. Un paio di grossi respiri e la
lucidità tornò, mentre le mani e gli arti formicolavano e il cuore pulsava
fragoroso.
"Lasciami
in pace, ti prego." piagnucolò, premendo sempre più forte i polpastrelli
contro la testa "Farò ciò che vuoi, lo giuro, ma lasciami andare."
"Accoglimi,
allora."
"No,
stammi lontano."
Artigli
gelidi gli penetrarono nel petto e si ritrassero con furia.
Domenico
si tastò il busto: il bisello ruvido era ancora intatto, asciutto se non per
qualche goccia di pioggia. Non era stato ferito.
Il
sollievo durò poco: era ancora bloccato lì, in balia di uno spettro. Dannata la
sua imprudenza!
Era
stato un rischio necessario, però, non lo aveva fatto per sfizio o cupidigia.
Lui
si era inerpicato sul monte Valestra solo nella speranza di trovare anche lui
un po' d'oro e migliorare la vita della sua famiglia. Suo padre era un oste e
non poteva far studiare lui e i suoi fratelli. Alessandro, il minore, ci teneva
tanto a laurearsi in Legge, quando sarebbe stato grande, e si sforzava per
imparare a leggere e scrivere; andava ogni giorno alla pieve per aiutare il
parroco a tenere in ordine o a fare altri lavoretti, in cambio di lezioni e di
istruzione che sarebbe costata parecchie monete da un vero maestro.
A
Domenico non era mai interessato, lui badava alle capre, ma non sopportava di
vedere la famiglia negli stenti e il fratellino soffrire per quel sogno
all'apparenza irrealizzabile. Inoltre, c'erano sempre un sacco di prepotenti
sia all'osteria, sia al mercato di Carpineti; alzavano la voce e le mani col popolazzo, facevano i gradassi ma poi, non appena si
presentava un nobile o un ricco, si ammansivano come agnellini.
Gli
uomini coi soldi erano sempre trattati bene e con rispetto. Se un poveraccio
picchiava un altro che lo aveva insultato, era un attaccabrighe; se lo faceva
un ricco, invece, aveva difeso il proprio onore. Gli stessi complimenti erano
considerati dalle fanciulle fastidiosi se detti da un povero, un onore se
pronunciati da un ricco; i contadini che offrivano loro un paio d'uova in
cambio di compagnia erano vili che attentavano al loro onore, mentre le monete
d'argento dei signorotti erano un dono d'amore. Un povero che non conosceva a
memoria le preghiere in latino era un blasfemo, un ricco che le ignorava era
solo oberato di lavoro. Come se spezzarsi la schiena sui campi o in una bottega
non fosse altrettanto impegnativo!
Insomma,
essere ricchi era un gran vantaggio e lui era stufo di essere povero e chinare
la testa. Sarebbero stati gli altri a piegarsi e a guardarlo con deferenza.
La
settimana prima, sulla piazza del mercato, un cantastorie aveva raccontato una
leggenda che lui non aveva mai udito prima. L'uomo giurava che si trattasse di
una storia vera, verissima!
Tre
secoli prima, un modesto pastore stava pascolando le sue bestie ai piedi del
monte Valestra come spesso faceva, ma quel giorno una delle capre si era
allontanata. Era salita su per l'altura, attraverso il bosco. Il pastore si era
messo a cercarla, la chiamava a gran voce e alla fine l'aveva trovata in una
radura. L'aveva presa in braccio e, voltandosi, si era ritrovato davanti un
uomo con una tunica lunga, lunga, una barba fino al petto e un cappello a
punta: il Mago Balista.
Il
pastore si era spaventato ma Balista l'aveva condotto con sé nella grotta dove
nascondeva tutte le sue ricchezze: mucchi e mucchi di oro, vasi d'argento,
statuette, gioielli, pietre preziose. Gli aveva consentito di portarsi via
tutto l'oro che stava in una mano. Poi si erano sentiti tuoni e il Mago aveva
esortato il pastore ad andarsene, poiché lui stesso doveva ripararsi. Era come
se Balista temesse i fulmini.
Il
fortunato pastore era tornato a valle portando nel proprio palmo una
grandissima quantità d'oro. La sua famiglia era diventata benestante ed era
riuscita ad investire bene quella ricchezza, acquistando più bestiame,
dedicandosi al commercio ed era diventata una famiglia importante e che nulla
aveva da invidiare ai nobili. Per ricordare l'origine della sua fortuna, aveva
assunto il cognome Manodoro.
Domenico
conosceva la fama di quella famiglia: era una delle più prestigiose della zona.
Se
il loro antenato aveva ottenuto un simile dono, perché non avrebbe dovuto capitare
anche a lui?
Valeva
la pena di aver coraggio, ormai aveva quindici anni doveva prendersi cura dei
genitori e dei fratelli, doveva affrontare difficoltà, se voleva migliorare le
cose. Senza correre rischi, si può solo rimanere immobili.
Aveva
sperato d'incontrare pure lui il mago e ricevere regali, quindi si era messo in
marcia di buon mattino e aveva cominciato a risalire il crinale. Qualche volta
aveva gridato: "Balista!"
Per
ore e ore non era accaduto nulla e a Domenico era parso di girare in tondo, ma
poi era giunto in una parte di bosco in cui i tronchi si ergevano a pochi passi
gli uni dagli altri, le radici si aggrovigliavano tra loro, rendendo il terreno
un continuo su e giù irregolare col rischio di inciampare ad ogni passo; i rami
si allungavano e si intrecciavano con quelli altrui così che le foglie
formavano una cupola fitta attraverso la quale i raggi solari faticavano a
passare. Sembrava calata la sera d'improvviso. Cinguettii strani giungevano
alle sue orecchie. Non conosceva nessun animale che emettesse versi simili.
Erano rantolii. Erano lamenti!
Tutto
il bosco risuonava di gemiti dannati, nessuno si vedeva e invisibili dita
ghiacciate avevano cominciato a sfiorarlo, premevano sulla sua pelle qualche
istante e scivolavano via.
Nebbia
era salita di colpo. Si era addentrato col cielo terso di un azzurro intenso;
da dove era venuta quella foschia? Pareva fosse il terreno ad emanarla. Gli
turbinava attorno per avvolgerlo, lui aveva cercato di fuggirla, allungava le
gambe per allontanarsi, la punta del piede si era incastrata più di una volta
tra le radici e lui era cascato con la faccia a terra. Aveva sbattuto il naso e
gocce calde gli erano colate verso le labbra; le aveva strette per non sentire
il sapore del sangue. Un bacio di ghiaccio.
La
schiena e le braccia di Domenico si erano irrigidite: chi lo stava toccando?
Non c'era nessuno. Stava impazzendo? Forse, ma quel freddo che suggeva il suo
sangue era così reale. La nebbia era di nuovo attorno a lui, gli restava
addosso come una ragnatela. Una voce maschile sussurrava:
"Accoglimi."
Era
stregoneria, ne era certo! Cos'altro poteva spiegare quel disagio,
quell'orrore, se non un sortilegio? Quel monte era davvero maledetto e il Mago
non sarebbe stato amichevole con lui.
Un
tuono aveva spezzato il cielo. Il fulmine aveva dissipato la foschia e il
ragazzo aveva iniziato a correre e correre, perdendo l'equilibrio e
raddrizzandosi, appoggiandosi coi palmi ai tronchi e dandosi spinte per essere
più veloce. Non sapeva dove stesse andando, non conosceva quei luoghi e per la
paura nemmeno si era accorto di se stesse scendendo o
salendo. Ricordava che nella leggenda Balista temeva le saette e tanto gli
bastava per precipitarsi lontano, non importava dove, ma lontano da lì. Si era
sentito salvo e, poiché la pioggia batteva e il cielo, ora visibile, era
illuminato da tanti lampi, si era gettato nella cavità della roccia per
ripararsi. Ormai il pericolo era passato, giusto?
Invece,
era giunto fin lì. Domenico si rimise in piedi. La bocca aperta per affannati
rapidi respiri che lo scuotevano fino all'ombelico; il cuore martellava alla
base della gola e ogni parte del suo corpo frizzava, mentre lo scrosciare
dell'acqua, i rombi di tuono e i crepitii dei fulmini si facevano ovattati,
sempre più distanti.
L'acqua
lambiva le caviglie nude. Meglio uscire. Se Balista era già là dentro, allora
tanto valeva tornare fuori e scappare. Si sarebbe perfino gettato rotolante
lungo il fianco del monte, se lo avesse trovato privo d'alberi, pur di
raggiungere al più presto le pendici.
Domenico
allungò le braccia per issarsi, non vedeva nulla tra il buio della grotta e il
Sole oscurato dalle nuvole. Si sollevò sulle punte dei piedi, spinse in avanti
il viso per cercar di vedere qualcosa. Lo zigomo si scontrò con uno spuntone di
roccia appuntito che strusciò sulla guancia. Bruciava. Il ragazzo aprì la bocca
e mosse il mento, un male tremendo gli fermò i movimenti: il taglio non era
superficiale e calde goccioline scivolavano verso il collo. Una lingua di
ghiaccio le raccoglieva.
Non
aveva tempo per tamponarsi. Prima usciva di lì, prima tornava a casa, prima
quell'incubo sarebbe stato solo un ricordo. Anzi, meglio bere un fiasco intero
di vino caldo e dimenticare tutto.
Le
mani annaspavano nella ricerca di un appiglio per far forza, affondarono nel
fango. Scivolarono. Il ragazzo perse l'equilibrio, la schiena sbatté sulla
pietra. Sputò l'aria in un gemito e strinse gli occhi. Che botta!
La
veste era tutta bagnata. Doveva rialzarsi ma il dolore alle costole e ai lombi
gli impediva di muoversi per il momento.
L'acqua
si strinse attorno a polsi e caviglie, gli bloccava gomiti e ginocchia come se
gigantesche mani gli premessero gli arti. Com'era possibile? Provava a
sollevarli, ad agitarli: nulla. Una forza lo aveva afferrato e avvinto in
invisibili vincoli. Contrasse il ventre e fece forza sugli addominali, ma aveva
un grosso peso sullo stomaco che lo inchiodava lì. Domenico era certo che,
aprendo gli occhi, avrebbe trovato qualcuno seduto sul suo ventre.
Sollevò
le palpebre: colonne di fumo spiraleggiavano e convergevano al centro sopra di
lui, si addensavano fin quasi alla solidità in un viso d'uomo tremendo.
Basta,
non ne poteva più. Cercò di spingersi su un fianco, puntò tutto il peso su una
spalla e ne ricavò solo dolore al petto.
Il
mascherone di nebbia ghignava trionfante.
"Chi
sei? Lasciami!" la voce acuta di Domenico straziò l'antro.
"Tu
m'hai cercato. Sono Balista, brigante e mago. Sono stanco della morte e di
essere bloccato qui. Tu sei caparbio, coraggioso, colmo di ira: un contenitore
perfetto, un'anima a me affine, pronta per scatenarsi. Mi accoglierai e di
nuovo farò tremare gli Appennini."
"No,
no!"
Il
fumo si tuffò nella bocca spalancata. Domenico non respirava, i polmoni
congelavano. Tentò di tossire ma nulla gli obbediva. La sua mente era invasa da
quella di Balista. Non era una guerra. La magia non scacciava la sua coscienza,
non la faceva a pezzi. Era incandescente come una fucina e la mente del ragazzo
fondeva come metallo rovente; la mente del brigante era un altro metallo
liquido. Si mescolarono, si amalgamarono l'una nell'altra a formare una nuova
lega.
Il
gelo e il bollore si bilanciarono. Il corpo riprese a rispondere ai suoi
comandi. Si mise in piedi. Era ancora Domenico. Sì, non c'erano dubbi, era
ancora sé stesso: ricordava il padre e i fratelli, ricordava gli amici,
Carpineti e tutta la sua vita.
Eppure,
c'era qualcosa di diverso in lui, lo sentiva. Una forza, una ferocia. La brama
di prendere tutto ciò che desiderasse, senza badare a conseguenze. Il bisogno
di scannare chiunque osasse infastidirlo e di vedere fiamme divorare ciò che
apparteneva a chi gli si fosse opposto, case o corpi vivi faceva poca
differenza.
Si
issò per l'apertura e uscì dalla grotta. Il temporale era un simpatico
compagno. Aveva tanto da fare: quelle montagne dovevano essere di nuovo sue,
come un tempo. Erano il suo regno, nessuno avrebbe potuto scacciarlo da lì.
Presto avrebbe riacquistato fama, avrebbe suscitato terrore. Con il nome o con
la spada avrebbe ottenuto ogni cosa.
Avrebbe
reso la sua famiglia ricca, con le razzie. Chiunque avrebbe tremato al nome di
Domenico de Bretti, anzi: Amorotto.