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Autore: DirceMichelaRivetti    29/10/2024    0 recensioni
Un giovane pastore, stanco della povertà e delle prepotenze, insegue la leggenda del bandito-mago Balista, nella speranza di arricchirsi. Quando si ha a che fare con il sovrannaturale, però, bisogna sempre stare molto attenti. Il sogno può diventare un incubo.
Genere: Horror, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Perché si era cacciato in quel guaio?

I tuoni, che in un primo momento lo avevano confortato, ora preoccupavano Domenico. L'acqua cadeva a fitti e pesanti goccioloni e lui era stato tanto stupido da ficcarsi in una grotta sotterranea per ripararsi. L'acqua colava dalla fanghiglia attorno alla fessura da cui si era calato, scanalava la il terriccio in piccoli rivoli e si fermava sulla pietra sotto i suoi piedi, lì non poteva essere assorbita da nulla, scivolava e si espandeva nel pavimento e, scontratasi contro tutte le pareti, iniziava ad accumularsi.

Se il temporale non fosse finito presto, lui avrebbe rischiato di annegare.

Era solo un pastorello, non meritava quella fine! Non voleva morire in quel buco buio dove nessuno lo avrebbe mai ritrovato. Suo padre si sarebbe preoccupato tantissimo nel non vederlo tornare alla locanda. Suo fratello Vitale avrebbe girato per tutti i monti e le valli della zona per cercarlo, inutilmente. Non avrebbero mai avuto una tomba su cui piangerlo.

Forse era meglio così. Non avrebbero avuto la certezza della sua morte e avrebbero potuto immaginarlo felice altrove. Oh, ma così si sarebbero sentiti in colpa, credendo che fosse scappato perché infelice, oppure si sarebbero adirati con lui per averli abbandonati. Eh, se solo si fosse confidato quel mattino, prima di uscire. Aveva preferito tacere per fare una sorpresa, per evitare che tentassero di trattenerlo.

Tante leggende si raccontavano sul monte Valestra: mai recarsi lì da soli, bisognava andare in gruppi e non separarsi per alcuna ragione, spettri e demoni lo infestavano. Il Diavolo stesso aveva lì una sua residenza. Il Diavolo o il Mago Balista. Forse entrambi, forse non erano tanto diversi.

Domenico non aveva mai sentito storie precise su Balista. Alcuni lo definivano un incantatore, altri un feroce brigante, tutti pronunciavano con terrore il suo nome. Anzi, preferivano non pronunciarlo, convinti che anche il solo sussurro di quelle sillabe potesse attirare sciagure.

"Non dire quel nome!" lo aveva ammonito il prete, schiaffeggiandolo per impedirgli di pronunciarlo per intero, quando aveva cercato notizie "Altrimenti lo chiamerai. Il suo spirito inquieto, cacciato dal Paradiso e dall'Inferno, ti raggiungerà e sarai la sua nuova vittima."

"Perché pure l'Inferno lo ha cacciato?"

"La sua crudeltà e le sue efferatezze furono tali da fargli guadagnare la stima del Diavolo che lo considerò suo pari e non volle punirlo. Lasciò quindi lo spirito del furfante libero di infestare il monte in cui fu sepolto e di dannare gli incauti che vi si avventurano."

"Dev'essere stato cattivissimo! Che cosa faceva?"

"Oh, crimini tremendi. Scannava gente, incendiava ogni cosa."

"Ma mi potete dire qualche fatto? Qualcosa di preciso?"

"Non ti basta questo? Non c'è altro da sapere. Ora dì cinque Pater Noster e chiedi a Dio che ti protegga: pensare tanto a quel mostro può attirare le sue attenzioni su di te!"

Era sempre la solita storia: ogni volta che chiedeva più informazioni, che gli raccontassero le malefatte di Balista, nessuno sapeva o voleva rispondergli. Restavano sul generico, nemmeno un episodio dettagliato. A Domenico pareva ridicolo che tutti temessero lo spettro di Balista, senza neppure ricordare che cosa avesse compiuto di tanto atroce.

Forse la colpa era dei secoli passati da quando il bandito era vissuto; lui non conosceva molto la storia, però gli dicevano che Balista era vissuto lì prima dell'avvento di Cristo, allora dovevano essere passati almeno 1500 anni.

Forse, però, erano menzogne le leggende a cui credeva la gente, forse Balista non era uno spirito malvagio.

Oh, quanto si era sbagliato a pensar ciò! Aveva voluto aggrapparsi a quell'idea per convincersi a salire da solo per quella montagna maledetta, quanto era stato sciocco!

Dopo ciò che aveva visto tra quei boschi, non poteva che dare ragione alla saggezza popolare.

Oh, perché aveva voluto far di testa propria, senza ascoltare gli anziani e il prete?

L'acqua si infiltrava nella tela dei suoi calzari. Si strinse la testa tra le mani, maledicendo la propria avidità, lacrimando per la consapevolezza che presto sarebbe morto.

"Perché vuoi morire?"

No, no, no! Di nuovo quella dannata voce. Lo aveva seguito fin là dentro: non poteva nascondersi.

"Accoglimi e vivremo."

"Sta zitto!" strillò Domenico, buttando fuori tanto fiato da vuotare i polmoni. Le gambe non lo ressero e cadde in ginocchio. Un paio di grossi respiri e la lucidità tornò, mentre le mani e gli arti formicolavano e il cuore pulsava fragoroso.

"Lasciami in pace, ti prego." piagnucolò, premendo sempre più forte i polpastrelli contro la testa "Farò ciò che vuoi, lo giuro, ma lasciami andare."

"Accoglimi, allora."

"No, stammi lontano."

Artigli gelidi gli penetrarono nel petto e si ritrassero con furia.

Domenico si tastò il busto: il bisello ruvido era ancora intatto, asciutto se non per qualche goccia di pioggia. Non era stato ferito.

Il sollievo durò poco: era ancora bloccato lì, in balia di uno spettro. Dannata la sua imprudenza!

Era stato un rischio necessario, però, non lo aveva fatto per sfizio o cupidigia.

Lui si era inerpicato sul monte Valestra solo nella speranza di trovare anche lui un po' d'oro e migliorare la vita della sua famiglia. Suo padre era un oste e non poteva far studiare lui e i suoi fratelli. Alessandro, il minore, ci teneva tanto a laurearsi in Legge, quando sarebbe stato grande, e si sforzava per imparare a leggere e scrivere; andava ogni giorno alla pieve per aiutare il parroco a tenere in ordine o a fare altri lavoretti, in cambio di lezioni e di istruzione che sarebbe costata parecchie monete da un vero maestro.

A Domenico non era mai interessato, lui badava alle capre, ma non sopportava di vedere la famiglia negli stenti e il fratellino soffrire per quel sogno all'apparenza irrealizzabile. Inoltre, c'erano sempre un sacco di prepotenti sia all'osteria, sia al mercato di Carpineti; alzavano la voce e le mani col popolazzo, facevano i gradassi ma poi, non appena si presentava un nobile o un ricco, si ammansivano come agnellini.

Gli uomini coi soldi erano sempre trattati bene e con rispetto. Se un poveraccio picchiava un altro che lo aveva insultato, era un attaccabrighe; se lo faceva un ricco, invece, aveva difeso il proprio onore. Gli stessi complimenti erano considerati dalle fanciulle fastidiosi se detti da un povero, un onore se pronunciati da un ricco; i contadini che offrivano loro un paio d'uova in cambio di compagnia erano vili che attentavano al loro onore, mentre le monete d'argento dei signorotti erano un dono d'amore. Un povero che non conosceva a memoria le preghiere in latino era un blasfemo, un ricco che le ignorava era solo oberato di lavoro. Come se spezzarsi la schiena sui campi o in una bottega non fosse altrettanto impegnativo!

Insomma, essere ricchi era un gran vantaggio e lui era stufo di essere povero e chinare la testa. Sarebbero stati gli altri a piegarsi e a guardarlo con deferenza.

La settimana prima, sulla piazza del mercato, un cantastorie aveva raccontato una leggenda che lui non aveva mai udito prima. L'uomo giurava che si trattasse di una storia vera, verissima!

Tre secoli prima, un modesto pastore stava pascolando le sue bestie ai piedi del monte Valestra come spesso faceva, ma quel giorno una delle capre si era allontanata. Era salita su per l'altura, attraverso il bosco. Il pastore si era messo a cercarla, la chiamava a gran voce e alla fine l'aveva trovata in una radura. L'aveva presa in braccio e, voltandosi, si era ritrovato davanti un uomo con una tunica lunga, lunga, una barba fino al petto e un cappello a punta: il Mago Balista.

Il pastore si era spaventato ma Balista l'aveva condotto con sé nella grotta dove nascondeva tutte le sue ricchezze: mucchi e mucchi di oro, vasi d'argento, statuette, gioielli, pietre preziose. Gli aveva consentito di portarsi via tutto l'oro che stava in una mano. Poi si erano sentiti tuoni e il Mago aveva esortato il pastore ad andarsene, poiché lui stesso doveva ripararsi. Era come se Balista temesse i fulmini.

Il fortunato pastore era tornato a valle portando nel proprio palmo una grandissima quantità d'oro. La sua famiglia era diventata benestante ed era riuscita ad investire bene quella ricchezza, acquistando più bestiame, dedicandosi al commercio ed era diventata una famiglia importante e che nulla aveva da invidiare ai nobili. Per ricordare l'origine della sua fortuna, aveva assunto il cognome Manodoro.

Domenico conosceva la fama di quella famiglia: era una delle più prestigiose della zona.

Se il loro antenato aveva ottenuto un simile dono, perché non avrebbe dovuto capitare anche a lui?

Valeva la pena di aver coraggio, ormai aveva quindici anni doveva prendersi cura dei genitori e dei fratelli, doveva affrontare difficoltà, se voleva migliorare le cose. Senza correre rischi, si può solo rimanere immobili.

Aveva sperato d'incontrare pure lui il mago e ricevere regali, quindi si era messo in marcia di buon mattino e aveva cominciato a risalire il crinale. Qualche volta aveva gridato: "Balista!"

Per ore e ore non era accaduto nulla e a Domenico era parso di girare in tondo, ma poi era giunto in una parte di bosco in cui i tronchi si ergevano a pochi passi gli uni dagli altri, le radici si aggrovigliavano tra loro, rendendo il terreno un continuo su e giù irregolare col rischio di inciampare ad ogni passo; i rami si allungavano e si intrecciavano con quelli altrui così che le foglie formavano una cupola fitta attraverso la quale i raggi solari faticavano a passare. Sembrava calata la sera d'improvviso. Cinguettii strani giungevano alle sue orecchie. Non conosceva nessun animale che emettesse versi simili. Erano rantolii. Erano lamenti!

Tutto il bosco risuonava di gemiti dannati, nessuno si vedeva e invisibili dita ghiacciate avevano cominciato a sfiorarlo, premevano sulla sua pelle qualche istante e scivolavano via.

Nebbia era salita di colpo. Si era addentrato col cielo terso di un azzurro intenso; da dove era venuta quella foschia? Pareva fosse il terreno ad emanarla. Gli turbinava attorno per avvolgerlo, lui aveva cercato di fuggirla, allungava le gambe per allontanarsi, la punta del piede si era incastrata più di una volta tra le radici e lui era cascato con la faccia a terra. Aveva sbattuto il naso e gocce calde gli erano colate verso le labbra; le aveva strette per non sentire il sapore del sangue. Un bacio di ghiaccio.

La schiena e le braccia di Domenico si erano irrigidite: chi lo stava toccando? Non c'era nessuno. Stava impazzendo? Forse, ma quel freddo che suggeva il suo sangue era così reale. La nebbia era di nuovo attorno a lui, gli restava addosso come una ragnatela. Una voce maschile sussurrava: "Accoglimi."

Era stregoneria, ne era certo! Cos'altro poteva spiegare quel disagio, quell'orrore, se non un sortilegio? Quel monte era davvero maledetto e il Mago non sarebbe stato amichevole con lui.

Un tuono aveva spezzato il cielo. Il fulmine aveva dissipato la foschia e il ragazzo aveva iniziato a correre e correre, perdendo l'equilibrio e raddrizzandosi, appoggiandosi coi palmi ai tronchi e dandosi spinte per essere più veloce. Non sapeva dove stesse andando, non conosceva quei luoghi e per la paura nemmeno si era accorto di se stesse scendendo o salendo. Ricordava che nella leggenda Balista temeva le saette e tanto gli bastava per precipitarsi lontano, non importava dove, ma lontano da lì. Si era sentito salvo e, poiché la pioggia batteva e il cielo, ora visibile, era illuminato da tanti lampi, si era gettato nella cavità della roccia per ripararsi. Ormai il pericolo era passato, giusto?

Invece, era giunto fin lì. Domenico si rimise in piedi. La bocca aperta per affannati rapidi respiri che lo scuotevano fino all'ombelico; il cuore martellava alla base della gola e ogni parte del suo corpo frizzava, mentre lo scrosciare dell'acqua, i rombi di tuono e i crepitii dei fulmini si facevano ovattati, sempre più distanti.

L'acqua lambiva le caviglie nude. Meglio uscire. Se Balista era già là dentro, allora tanto valeva tornare fuori e scappare. Si sarebbe perfino gettato rotolante lungo il fianco del monte, se lo avesse trovato privo d'alberi, pur di raggiungere al più presto le pendici.

Domenico allungò le braccia per issarsi, non vedeva nulla tra il buio della grotta e il Sole oscurato dalle nuvole. Si sollevò sulle punte dei piedi, spinse in avanti il viso per cercar di vedere qualcosa. Lo zigomo si scontrò con uno spuntone di roccia appuntito che strusciò sulla guancia. Bruciava. Il ragazzo aprì la bocca e mosse il mento, un male tremendo gli fermò i movimenti: il taglio non era superficiale e calde goccioline scivolavano verso il collo. Una lingua di ghiaccio le raccoglieva.

Non aveva tempo per tamponarsi. Prima usciva di lì, prima tornava a casa, prima quell'incubo sarebbe stato solo un ricordo. Anzi, meglio bere un fiasco intero di vino caldo e dimenticare tutto.

Le mani annaspavano nella ricerca di un appiglio per far forza, affondarono nel fango. Scivolarono. Il ragazzo perse l'equilibrio, la schiena sbatté sulla pietra. Sputò l'aria in un gemito e strinse gli occhi. Che botta!

La veste era tutta bagnata. Doveva rialzarsi ma il dolore alle costole e ai lombi gli impediva di muoversi per il momento.

L'acqua si strinse attorno a polsi e caviglie, gli bloccava gomiti e ginocchia come se gigantesche mani gli premessero gli arti. Com'era possibile? Provava a sollevarli, ad agitarli: nulla. Una forza lo aveva afferrato e avvinto in invisibili vincoli. Contrasse il ventre e fece forza sugli addominali, ma aveva un grosso peso sullo stomaco che lo inchiodava lì. Domenico era certo che, aprendo gli occhi, avrebbe trovato qualcuno seduto sul suo ventre.

Sollevò le palpebre: colonne di fumo spiraleggiavano e convergevano al centro sopra di lui, si addensavano fin quasi alla solidità in un viso d'uomo tremendo.

Basta, non ne poteva più. Cercò di spingersi su un fianco, puntò tutto il peso su una spalla e ne ricavò solo dolore al petto.

Il mascherone di nebbia ghignava trionfante.

"Chi sei? Lasciami!" la voce acuta di Domenico straziò l'antro.

"Tu m'hai cercato. Sono Balista, brigante e mago. Sono stanco della morte e di essere bloccato qui. Tu sei caparbio, coraggioso, colmo di ira: un contenitore perfetto, un'anima a me affine, pronta per scatenarsi. Mi accoglierai e di nuovo farò tremare gli Appennini."

"No, no!"

Il fumo si tuffò nella bocca spalancata. Domenico non respirava, i polmoni congelavano. Tentò di tossire ma nulla gli obbediva. La sua mente era invasa da quella di Balista. Non era una guerra. La magia non scacciava la sua coscienza, non la faceva a pezzi. Era incandescente come una fucina e la mente del ragazzo fondeva come metallo rovente; la mente del brigante era un altro metallo liquido. Si mescolarono, si amalgamarono l'una nell'altra a formare una nuova lega.

Il gelo e il bollore si bilanciarono. Il corpo riprese a rispondere ai suoi comandi. Si mise in piedi. Era ancora Domenico. Sì, non c'erano dubbi, era ancora sé stesso: ricordava il padre e i fratelli, ricordava gli amici, Carpineti e tutta la sua vita.

Eppure, c'era qualcosa di diverso in lui, lo sentiva. Una forza, una ferocia. La brama di prendere tutto ciò che desiderasse, senza badare a conseguenze. Il bisogno di scannare chiunque osasse infastidirlo e di vedere fiamme divorare ciò che apparteneva a chi gli si fosse opposto, case o corpi vivi faceva poca differenza.

Si issò per l'apertura e uscì dalla grotta. Il temporale era un simpatico compagno. Aveva tanto da fare: quelle montagne dovevano essere di nuovo sue, come un tempo. Erano il suo regno, nessuno avrebbe potuto scacciarlo da lì. Presto avrebbe riacquistato fama, avrebbe suscitato terrore. Con il nome o con la spada avrebbe ottenuto ogni cosa.

Avrebbe reso la sua famiglia ricca, con le razzie. Chiunque avrebbe tremato al nome di Domenico de Bretti, anzi: Amorotto.

 

   
 
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