4.
La cena fu servita – come se, poi, ci sarebbero potuti essere dei dubbi in proposito – nel triclinium.
Scene conviviali erano dipinte sui muri. Gli artisti a cui Peppe si era rivolto avevano dimostrato tutta la loro bravura, grazie alla quale avevano dato vita ad affreschi capaci di gareggiare con gli autentici capolavori antichi di Pompei. Vi si vedevano uomini e donne distesi attorno ai tavoli, allietati dalla musica dei suonatori di flauto e dalle danze delle ballerine in vesti succinte. In un angolo, rubicondo e sereno, incoronato con un tralcio di vite, il dio Bacco brindava con un calice di vino. Il pavimento, sempre a mosaico come nel resto della dimora, raffigurava frutti e cibi di ogni sorta. Unica concessione alla modernità, erano il tavolo con le sedie al posto dei divani triclinari che, per i figli dell’era moderna, si sarebbero potuti rivelare scomodi, oltre che poco adatti alla digestione. Quasi di sicuro, comunque, doveva essercene qualche esemplare, nascosto in qualche scantinato, pronto da essere usato per qualche occorrenza speciale.
«Peppe, a scuola, era fissato con dipinti come questi», rammentò Alberto, facendo scivolare lo sguardo sui muri. «Diceva che tutti avremmo studiato meglio e reso di più, se le aule fossero state belle, allietate da immagini classiche. E avresti dovuto vedere il suo sguardo schifato mentre, dicendo quelle cose, guardava i muri scrostati e sporchi della nostra scuola.»
Aurora sorrise.
«Anche i muri della mia scuola erano scrostati e sporchi», replicò. «E ho come la certezza che non ci sia un solo istituto superiore pubblico, in Italia, che non versi nelle stesse condizioni.»
Il professore non si fece vedere. A occuparsi di tutto provvide Cesare, il suo domestico tuttofare. Un tipo arcigno, dall’aria sbrigativa e strafottente, oltre che assai poco incline alla devozione servile. Alberto, che lo aveva imparato a conoscere già da tempo, come lo vide avvicinarsi non poté evitare di porsi una domanda. Fece molta fatica a non scoppiare a ridere.
Chissà cosa cazzo penserà Aurora, appena aprirà bocca. Che l’ho portata in un manicomio, come minimo.
In effetti, Cesare – pantaloncini corti e canottiera bisunta, capelli nerissimi che sembravano pettinati con la brillantina ma che probabilmente avevano bisogno di essere lavati al più presto, barba di tre giorni e ciabatte fetide – non fece nulla per assumere l’atteggiamento di un impomatato e ossequioso maggiordomo.
«Come sempre, quel vecchio rintronato si dimentica persino di mangiare!» esordì, mentre sbatteva di malagrazia sul tavolo due piatti colmi. Aveva uno stuzzicadenti abbondantemente masticato tra le labbra, e lo faceva viaggiare a velocità quasi incredibile da un angolo all’altro della bocca. «Se non mi fossi ricordato io di voi, vi avrebbe lasciato a morire di fame! Quando è preso dai suoi libri – cioè, sempre – non esiste più niente e nessuno al mondo. Il più delle volte mi tocca costringerlo a mangiare, mi tocca urlare per obbligarlo. “Lasciami lavorare, Cesare, il sapere è il cibo dell’anima e non mi occorre altro!” dice lui. “Bene, sarà anche così, ma se non mangia qualcosa poi muore, vecchio pazzo!” faccio io. “Cosa vuoi che sia mai, la morte, se non un tuffo nel mistero? Non la temo! Semmai, ne sono affascinato, anche perché sarà soltanto essa a dire se io, tu, noi tutti esseri umani, fummo mai felici: nemo ante mortem beatus!” va avanti. E io allora: “E si tuffi dove le pare, ma non da morto, perché da morto mica mi paga più lo stipendio, e io allora che ci sto a fare qui?” E allora si decide a mettere qualcosa nello stomaco, il rincitrullito. Ma ogni volta mi tocca farmi in quattro per costringerlo, a quel vecchio matto, e prima o poi lo so che mi succederà di entrare in biblioteca e trovarlo morto, e non me ne fregherebbe un fico secco, se almeno mi pagasse lo stipendio in modo regolare! Ma no! Lui ha la testa tra le nuvole, e sempre si dimentica e se non sono io a ricordarglielo, manco me lo verserebbe mai! E cosa mi risponde, quando gli chiedo il mio corrispettivo? Risponde: “Auri sacra fames!” “E va be’!” faccio io, “io avrò fame d’oro, ma a lei verrà fame da morire, se non mangia niente, e allora mangi e la pianti un po’, con le sue sentenze grecolatine!”»
Interruppe il suo monologo e fece passare lo sguardo da Alberto ad Aurora, che si stavano sforzando in ogni modo per non mettersi a ridere. Sulla labbra gli comparve l’ombra di un sorriso. Lo stuzzicadenti rischiò di sfuggirgli, ma lo riprese al volo con le labbra.
«Be’, spero vi piaccia la pasta alla Norma, perché io quella ho preparato, e se non vi piace potete anche andarvene al ristorante», gracchiò in segno di “buon appetito”, prima di voltargli le spalle e uscire a grandi falcate dalla sala.
Dimentico sempre quanto sia amabile, il buon vecchio Cesare, si disse Alberto. Dovette mettere la mano davanti alla bocca per evitare di ridere prima che se ne fosse andato.
Aurora sbirciò di sottecchi il domestico che si allontanava.
«Ma…» sussurrò. Si picchiettò la tempia con l’indice in un gesto eloquente. «…ma è un po’ toccato?»
Alberto fece un ghigno.
«Oddio, non che Peppe sia proprio normale del tutto, vero?» commentò. «Forse è questo posto. Se ci restiamo troppo a lungo, ho idea che diventeremo… uhm… come dire... bizzarri anche noi.»
«Forse hai ragione», ridacchiò la ragazza, prendendo la forchetta. «Di certo, diventerò anche io una che pensa solo allo stipendio e a quanto sia basso, visto che chi frequenta questo posto sembra imparare subito a lamentarsi delle paghe miserevoli.» Gli indirizzò un occhiolino. «Tra tutti e tre, in fatto di soldi, vi siete proprio trovati giusti giusti.»
«Io non…» cominciò a dire Manfredi. Si interruppe.
Forse faccio meglio a stare zitto.
«Be’, allora buon appetito, Manfredino», riprese Aurora, con un sorrisetto. «Vediamo se questo simpaticissimo signore così devoto al suo datore di lavoro è stato capace di batterti, ai fornelli.»
Hamburger quasi bruciati e cipolle che annegavano miserevolmente in un mare d’olio, pensò Alberto, riandando con la mente alla cena che aveva preparato la sera prima. Fece una smorfia. Non ci voleva molto a supporre che chiunque avrebbe fatto meglio.
In effetti, la pasta alla Norma di Cesare si rivelò sopraffina. Gli si poteva imputare di essere uno scorbutico e un irriverente, e anche uno zotico decisamente poco attento all’igiene e alla buona creanza, ma riguardo al cibo che preparava non gli si poteva fare nemmeno l’ombra di una critica. Pasta e melanzane fritte, unite al sugo di pomodoro ristretto a sufficienza e alla ricotta stagionata grattugiata, andarono giù con piacere, forchettata dopo forchettata; e, quando ebbero svuotato i piatti, quasi si rammaricarono che fosse finita. Il domestico si fece rivedere soltanto pochi minuti dopo l’inizio della cena, quando – con una grazia più unica che rara – sbatté sul tavolo una bottiglia di vino bianco.
«Quel vecchio rincitrullito si ostina a chiamarlo falerno, ma è falanghina, cacchio, falanghina del Sannio!» brontolò, mentre si allontanava per l’ultima volta. Lo sentirono bofonchiare i suoi rimbrotti finché non fu sparito oltre la soglia. «Quello si crede di essere ancora ai tempi dell’antica Roma, e se non ci sto attento, prima o poi finisce che mi paga in sesterzi, invece che in euro. Vecchio rincoglionito che non è altro. Rincoglionito?! Macché! Quello è un furbacchione, un arpagone fatto e finito, vecchio spilorcio tirchioso che non è altro!»
Alberto, senza fargli troppo caso, ne versò un bicchiere per Aurora e uno per sé.
«A che cosa brindiamo?» chiese lei, sollevando il suo.
«Direi proprio a Cesare, che ci ha preparato la prima vera cena da quando ci siamo imbarcati in questa faccenda», propose Manfredi. «Per una volta, niente panini al cinghiale o hamburger bruciati.»
«Affare fatto», sorrise lei. «Ma ti ricordo, tenente, che la vera cena me la devi offrire tu, con le tre fiorentine.»
Il portafogli di Alberto sembrò mandare un sussulto doloroso. Perlomeno, lui fu certo di averlo sentito.
Però così mi rovini la digestione, amica mia.
La guardò negli occhi. Nella scarsa illuminazione del triclinium, era come se splendessero di luce propria. Una meraviglia delle meraviglie. No, decisamente no: lei non avrebbe mai potuto rovinargli la digestione.
Questi giorni sono davvero incredibili, si disse. Non mi sto più nemmeno preoccupando di poter essere ucciso ogni volta che apro bocca o faccio un gesto. Vabbe’, sarà che sono più preoccupato che possa spuntare fuori quel mostro, a farmi la pelle. A questo punto, sarebbe molto meglio farmi far fuori da Aurora: almeno, me ne andrei guardando lei.
I bicchieri tintinnarono con uno squillo acuto e allegro.
Bevvero.
Aurora versò altro vino.
«E adesso, a chi brindiamo?» interloquì, sollevando subito il suo bicchiere.
«Tocca a te proporre», le rammentò lui.
«Allora direi di brindare al colonnello Iannaccone che, affidandoci questo incarico, mi ha dato finalmente la possibilità di conoscere Peppe e questo luogo fantastico!»
«E, allora, per Iannaccone!»
Per la seconda volta, i bicchieri furono svuotati d’un solo fiato e, per la terza, riempiti.
«E adesso, tenente del mio cuore, a chi brindiamo?»
Aurora, dopo soltanto due bicchieri, sembrava già abbastanza alticcia. Anche Manfredi non si sentiva molto meglio. Forse, quello che stavano bevendo, era davvero falerno, checché ne dicesse Cesare. Falerno schietto, ad altissima gradazione alcolica: qualcosa di non troppo differente dal vino con cui Ulisse ubriacò Polifemo.
Sì, ne sono sicuro, Peppe ci ha rifilato un vino ritrovato in qualche bottiglia sepolta a Pompei, vedrai se non è così.
Alberto tornò per un istante alle riflessioni di poco prima.
«Allora, visto che sono qui con il mio sottotenente preferito, direi di proporre quest’altro brindisi a quel mostro tritatombaroli, visto che, se non fosse stato per lui e per la sua smania omicida, adesso non saremmo qui a bere insieme e a chiederci se esista davvero o se ce lo siamo soltanto sognato, quel simpaticone con la falce.»
«Alla salute del nostro amico mostro!» rispose Aurora.
Bevvero ancora.
Più tardi, appesantiti dal cibo e intontiti dal vino – avevano finito con lo scolare l’intera bottiglia e, come se non bastasse, avevano accompagnato la torta caprese che Cesare aveva preparato per dessert con mezza bottiglia di limoncello di Sorrento – passeggiarono ancora nel vasto parco.
Era calata la notte e le stelle brillavano quiete al di sopra dell’ampio spazio aperto. L’aria era colma di un dolce tepore e profumava di mare. La distesa d’acqua salata borbottava placida, sovrastando il silenzio altrimenti assoluto.
Per qualche minuto, rimasero fermi alla balaustra che affacciava sul mare. Il Golfo, con le sue migliaia di luci, appariva in tutta la sua splendida bellezza. Non ci si sarebbe stancati mai di guardarlo. In senso metaforico, almeno.
Entrambi cominciavano ad accusare la stanchezza, aumentata a dismisura dalla tensione accumulata in quelle giornate tanto dense di avvenimenti e di spostamenti continui. Avevano bisogno di un comodo letto su cui lasciarsi andare fino all’alba.
Aurora si aggrappò al braccio di Manfredi e, pian piano, rientrarono in casa; superato l’atrio, raggiunsero il colonnato interno, continuando lì la loro passeggiata. Per qualche istante, camminarono in silenzio, osservando la vegetazione che ornava il giardino.
Mi sembra di essere in un sogno, pensò Alberto, guardando quei capelli rossi che gli sfioravano la spalla. Spero di non dovermi svegliare mai.
Aurora sbadigliò piano.
«Sei stanca?» mormorò Alberto, posando una mano sulla sua.
«È stata un’altra giornata bella piena», ammise lei. «Sveglia all’alba, arrampicata sui tetti, bestemmie per quel magazzino illegale di opere trafugate, rinvenimento di un cadavere, viaggio in autostrada fino a qui», riassunse. Arricciò il naso in modo travolgente. «Se penso che, fino all’altro giorno, ero chiusa in casa senza sapere se grattarmi la figa o mandare tutto a fanculo ed evadere, mi viene quasi da ridere.»
«Vale anche per me», replicò Manfredi. «Ho passato giorni interi a morire di noia, con la sola compagnia di mia sorella e di quel dannato rapporto che non ho nemmeno ancora finito. Sarei andato persino a dirigere il traffico, pur di non starle vicino un’altra mezz’ora.»
Aurora si morse il labbro.
So che cosa stai per dirmi, pensò Alberto. Ne abbiamo già parlato un sacco di volte. Io con quella non mi ci ritrovo, non posso farci nulla. È proprio un fatto genetico. A volte non sono nemmeno certo che sia davvero mia sorella. Non ci assomigliamo neppure. Per quello che ne so, o io o lei, uno dei due comunque deve essere stato adottato. Non vedo altra soluzione.
Lei, comunque, non disse nulla.
Si fermarono davanti a una porta chiusa, sul lato opposto del colonnato rispetto a dove si apriva la porta a vetri del tablinum. Sopra le assi robuste era affisso un cartello di legno con la scritta nemo sapiens nisi patiens.
«Nessuno è sapiente se non è paziente», tradusse Aurora.
«È la porta della biblioteca», spiegò Alberto. «Peppe sarà lì dentro, adesso, immerso fino al collo tra libri e scartoffie. Ora come ora, potremmo anche entrare e metterci a ballare nudi una danza tribale sul tavolo, e non si accorgerebbe di nulla.»
Aurora sorrise. Forse l’idea di farlo non le sarebbe dispiaciuta.
«Quindi pensi che sia inutile entrare a domandargli come stia andando con le sue ricerche?» chiese.
Devi ancora conoscerlo bene, cara. Altrimenti certe domande non me le faresti nemmeno.
«Tanto varrebbe chiederlo a una di queste colonne», replicò. «Penso che l’eloquenza sarebbe grossomodo la stessa. Forse, parlando a una signora colonna, avremmo almeno l’impressione di aver ricevuto un minimo di attenzione.»
Aurora gli diede uno strattone al braccio.
«Allora non restiamo qui, tenente», disse. «Non so tu, ma non ho intenzione di passare la serata a fare conversazione con queste colonne, per quanto simpatiche e loquaci possano essere. Sono stanca. E non mi dispiacerebbe farmi una doccia.» Sollevò un sopracciglio. «Ci sono le docce in questa casa, vero? O dobbiamo andare alle terme?»
Manfredi scoppiò a ridere.
«Tranquilla, Peppe ha fatto installare tutti i servizi. Come dice sempre lui, non è così antiquato come si potrebbe pensare.»
Ricominciarono a camminare sotto il porticato.
«Be’, allora direi di fare un salto in macchina a recuperare i vestiti di ricambio, e poi scegliamo una stanza», proseguì Alberto. «Hai sentito Peppe, puoi prendere quella che vuoi.»
Aurora gli si strinse addosso e gli fece una leggera pressione sul braccio con le dita.
«Ma io so già in quale stanza voglio andare, Manfredino.» Abbassò la voce, al suo tono più roco e seducente. «Quella in cui vai tu. Perché è da troppo tempo che non passiamo una notte tranquilla tutta per noi, a raccontarci i fatti nostri e a fare quello che ci pare, e adesso credo che sia proprio venuto il momento per farlo.»
Ah…
Manfredi, dopo tutto quel vino e quel limoncello, era più che consapevole di essere ubriaco. Una volta tanto, però, non lo era abbastanza da perdere del tutto la lucidità. Anche Aurora era ebbra, lo sentiva da come suonava la sua voce. Era una nota insolita, che lasciava capire molte cose.
Una di queste era che, che fossero ubriachi o meno, Alberto Manfredi non avrebbe mai detto di no ad Aurora Bresciani.
Mai.
«Be’, allora penso che la lascerò decidere comunque a te», concluse.